Elogio di Santarcangelo.

Basterebbe il fatto di averla effettivamente realizzata, questa cinquantesima edizione del festival di Santarcangelo. Strenuamente voluta, desiderata dalla direzione artistica dei Motus – pronta a stravolgere i piani in corsa e a misurarsi con limitazioni complesse, sia per l’afflusso del pubblico che per la non-interazione tra i/le performer – ma anche entusiasticamente accolta, tanto che diversi giorni prima dell’apertura i biglietti erano già esauriti e custoditi come beni preziosi.

In un incontro che si è svolto l’ultimo giorno si parlava del tentativo di dar vita a un’isola, e per una volta bisogna dire che è realmente andata così. Oltre all’emozione di ritrovarsi a vedere per davvero degli spettacoli – e che spettacoli, in molti casi – è stata impressionante la qualità dello stare insieme, per cui a Santarcangelo potrei dire banalmente di essermi sentita a casa.

D’altronde la cornice teorica del festival nel 2020 (o 2050 che dir si voglia) è piuttosto chiara. È quella degli studi sull’antropocene e della letteratura utopica/distopica fantascientifica che vi è connessa. Il focus è sul futuro, ma quale futuro (direbbero i Wretched)? L’edizione pre-pandemia avrebbe dovuto insistere sul tema “fine del mondo”, prendendo spunto dalla frase di Margaret Atwood “It’s the end of the world every day, for someone” e da testi come Esiste un mondo a venire? di Danowski e Viveiros De Castro. Alla luce di quello che è successo bisognava però cambiare di segno, le tinte si sarebbero fatte troppo fosche e allora ironicamente o meno ci dipingiamo un “futuro fantastico”, come recita il claim di questa edizione d’emergenza.

Lo spirito è quello dell’ibridazione: oltre al teatro anche la musica e il cinema hanno uno spazio importante, con concerti gratuiti e proiezioni nella piazza principale di Santarcangelo. Quest’ultime sono curate dal festival Filmmaker di Milano, che ha lanciato anche l’interessante progetto “Transfert per Kamera”: cinque registi e registe emergenti sono state invitate a filmare alcuni spettacoli, cercando una via che non sia quella della semplice documentazione ma piuttosto di nuove interazioni tra messa in scena e macchina da presa.

Devo dire che mi ha colpita l’impatto che il libro Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene di Donna Haraway ha avuto nel mondo dell’arte, tanto che ci ritroviamo un polpo gigante sia sui manifesti di Santarcangelo che su quelli che pubblicizzano il nuovo corso del museo MACRO di Roma (per chi fosse rimasto indietro, il polpo sta lì a simboleggiare un “pensiero tentacolare”, ovvero la possibilità di creare impreviste alleanze interspecie, collegando ciò che prima non lo era). Sfogliando le pagine del catalogo poi, aumentano i riferimenti che non saranno ignoti a molti lettori e lettrici di questa rivista: si passa da Bifo a Mark Fisher, da Judith Butler a bell hooks.

Un altro elemento che caratterizza fortemente l’edizione 2020-2050 è infatti la riflessione sul genere: molti degli spettacoli in programma affrontano a modo loro questo tema, passando da MDLSX dei Motus a Tiresias di Bluemotion/Giorgina Pi. Non è l’unica cosa che questi due lavori hanno in comune però, c’è anche un utilizzo della musica come elemento centrale della drammaturgia. In MDLSX Silvia Calderoni si dimena magnificamente alla Iggy Pop in una performance dolce e muscolare allo stesso tempo, raccontando della dolorosa scoperta di sé, di un sé che il mondo vuole rimuovere, cancellare, asportare. I ricordi di infanzia si alternano ai proclami, le canzoni (dai Cramps a Buddy Holly, dagli Air agli Smiths) scandiscono l’andirivieni emotivo. Tutto è in superficie, non c’è nulla da interpretare ma solo da goderne: è un lavoro esteticamente ineccepibile, sapientemente strutturato da un congegno intermediale composto di immagini proiettate, immagini riprese in diretta da Silvia Calderoni stessa, brani di conferenze, musica, corpo e voce della performer.

Se MDLSX è un lavoro maturo (e rodato ormai da cinque anni di repliche), Tiresias sprigiona la vitalità delle cose giovani. Anche qui i vinili selezionati dal vivo da Michele Portoghese definiscono i tempi drammaturgici, ma il bello di questo spettacolo è che c’è spazio per la sbavatura, la libertà della regia nell’interpretazione si fa furore. Il testo è tratto dalla raccolta di poesie Hold Your Own – Resta te stessa dell’autrice/cantante britannica Kate Tempest (se non l’avete mai ascoltata, fatelo) che reinterpreta il mito greco di Tiresia, costretto a cambiare sesso più volte prima della perdita della vista e dell’acquisizione della chiaroveggenza. Questa figura è il nume tutelare di coloro che vedono la vita come incessante e doloroso cambiamento che pur bisogna saper accettare, incorporando più vite in una, trasformando i brutti tiri del destino in nuove potenzialità. I temi sono molto sentiti ed è giusto che sia così, d’altronde il gruppo Bluemotion e la stessa Giorgina Pi fanno parte dell’esperienza romana dell’Angelo Mai, spazio fuori dai canoni che rende possibile il miscelarsi di teatro e tensione movimentista.

Gli altri due spettacoli di cui voglio parlare, Anubi III di Zapruder e I sommersi e i salvati di Fanny & Alexander, sono per certi versi opposti: alla magniloquenza del primo risponde la minimalità del secondo.

Anubi III è una sinfonia per motociclette (o più esattamente motards), un gruppo di giovani motociclisti gira incessantemente intorno al pubblico che assiste dall’interno del proprio autoveicolo. C’è tensione, ci si aspetta forse acrobazie o chissà cosa, invece la ricerca degli Zapruder sembra essere tutta interna alle dinamiche del motore. Quest’ultimo non viene mai lanciato a piena potenza, ma sempre trattenuto; le urla baritonali delle sgasate in folle vengono catturate dai microfoni e poi rigurgitate in ritardo dalle casse, in uno sfasamento temporale e un frastuono generale. L’aspetto che colpisce di più è forse l’animalità che il motore esprime, c’è qualcosa di ferino e di predatorio che non si può negare. Intersezioni: divenire-motore, divenire-animale…

I sommersi e i salvati ci riporta invece ad un tema umano, troppo umano come l’olocausto. Il pubblico seduto sugli scranni della sala del consiglio comunale di Santarcangelo interroga Primo Levi (interpretato dall’ottimo Andrea Argentieri) prendendo spontaneamente la parola per porre alcune domande al chimico/scrittore. Già predisposte su un foglio, trattano sia di questioni pratiche come quali scarpe fosse possibile indossare ad Auschwitz, sia di temi più ampi come la memoria, la lingua, il trauma. Le risposte sono pietre: con i piedi gonfi si era inabili al lavoro e quindi si finiva in camera a gas; il trauma stritola sia la vittima che il carnefice in una condizione analoga, ma quest’ultimo è giusto che soffra…e così via. A volte le parole pronunciate hanno bisogno di tempo per essere assorbite,  rimangono a mezz’aria mentre il silenzio si impossessa della sala, finché qualcuno non si prenda la responsabilità di porre un’altra domanda. Se sempre più viviamo in una condizione in cui i contenuti sono démodé e il confezionamento è tutto, Fanny & Alexander rifiuta ogni orpello e fugge ogni retorica riuscendo a rimetterci emozionalmente in contatto con quanto successo, con l’abisso dell’umanità.


Lucrezia Ercolani si muove tra teatro musica e filosofia. È una punk.