Quando quattro mura ci mettono alle strette.
Il 12 Aprile di quest’anno domini MMXX, compivo 33 anni. Il compimento di tale data è stato proprio il giorno di Pasqua, reso dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana un giorno di sacrificio. In tutto questo, relegati in casa, siamo stati collettivamente partecipi di uno stile di clausura che ha aumentato le ansie di molte persone. Nel bel mezzo di questo delirio, all’interno dei social networks e su tutte le piattaforme, imperversava e imperversa un solo e unico credo: quello di esternare tutto d’ un tratto, improvvisamente e senza che qualcuno lo richieda, le proprie emozioni, suonare, danzare, fare i critici di qualunque arte, tanto più, i “tuttologhi”.
Sinceramente, dopo tanti anni di attività musicale, nella quale la clausura è uno stile di vita quasi normale, da compositore e producer “homemade”, mi sembra quasi ovvio continuare la vita così come ho sempre fatto. Per come la vedo io suonare ti fa essere giornalmente presente alla pratica della disciplina autoimposta, dato che non ci ha ordinato di certo il medico di fare questa vita e tanto meno questo lavoro. Proprio il lavoro dell’artista, in questo periodo nero dell’arte, viene visto come un’attività di hobby, dove ognuno crea la sua diretta facebook e si dichiara tecnico in streaming o “strimpella” al balcone. Niente in contrario agli hobby, niente in contrario al punk, niente in contrario alla musica in quanto piacere e in quanto tale, ma il problema è che c’è un azzeramento delle differenze tra le cose: e questo è un problema terrificante. Della serie un karaoke non può essere messo sullo stesso piano di una fuga di Bach, semplicemente perché, al di là dei gusti, non sono la stessa cosa.
I medici nel frattempo lavorano continuamente per abbattere il virus, giorno per giorno, senza fermarsi, così come gli operai nelle industrie da poco riaperte all’urlo de “l’economia non può fermarsi!” (e nessuno si sognerebbe di essere né gli uni né gli altri, altresì, se ne guardano bene! Ma magari essere nei panni di un trapper di successo… eh, quello certo).
Tutto ciò in barba ai piccoli imprenditori e a settori “non di interesse”. E continuano i medici a lavorare ininterrottamente per debellare il virus e ridarci in mano un’”Italietta” piena di saltimbanchi e personaggi che imparano un’arte e la mettono da parte, pronti a tirarla fuori dal cilindro appena se ne rivela l’occasione.
A mio parere la vita del musicista, così come quella dell’artista (per chi crede a queste parole), da sempre è fatta di limitazioni, dovute alla società che, all’uscita di un qualunque lavoro che sia artistico o discografico o letterario, si sente in dovere di dire la sua, sparando a volte a zero su una categoria ormai già in situazione di degrado.

Con questo ragionamento, in un momento di stasi, che stasi non è per gli artisti che continuano a lavorare per donare al mondo cose semplicemente inutili, vorrei portare alla luce il fatto che non siamo più capaci di guardare, di fermarci ad ascoltare, di immedesimarci, di sentire, usando il verbo inglese “I feel” in tutta la sua pienezza.
Ad un tratto però, potremmo metterci in standby, riuscendo così ad ascoltare il silenzio dei nostri pensieri, per quanto stupidi essi siano. Potremmo evitare di esternare ogni piccolo e utile consiglio sulla vita, perché la vita è fatta anche e soprattutto di cose inutili. Potremmo iniziare a scrutare nel nostro interno pieno di budella e guardarci in faccia per la bassezza di quello che siamo: esseri umani. Piccoli, inutili esseri umani. Evitare di nascondere la mano che tira la pietra, evitare di mancare di rispetto a chi sull’arte ci ha sempre puntato, ci ha sempre sudato. Sudato soprattutto per i continui combattimenti con la società che vuole vedere un fatturato all’attivo, pena l’esclusione dal mondo capitalistico nel quale sguazziamo.
Il rispetto dell’arte, come della letteratura è un modo per far sì che si rendano partecipi tutti a farla senza limitazioni, altrimenti è come dare una martellata al David di Michelangelo pensando di esprimersi “liberamente”. Questo fottuto rispetto dovrebbe essere alla base di una cultura italiana che ha scritto le memorie del mondo dell’arte per decenni. Invece , a quanto dice il nostro premier, noi artisti dobbiamo solo far divertire: o al massimo “appassionare”, un termine molto vago visto che anche i serial killer si appassionano tanto a quello che gli piace.
Luigi Nono, compositore musicale della seconda metà del Novecento parlava di “nostalgia del futuro”, ovvero, una corrente estetica per la quale, consolidata la presenza di una storia alle spalle, possiamo solo modificare e trasformare, con il nostro operato, quello che è il senso estetico che ci ha attraversato, evolvendolo, o semplicemente scolpendolo. Non esistono rotture, perché siamo attraversati, come diceva anche Carmelo Bene, di tutto quello che abbiamo vissuto fino ad oggi. Quindi il presente è già passato e nel futuro c’è una linea invisibile da seguire per poter migliorare (o peggiorare) così da sviluppare la nostra personale estetica sul mondo.
Dovremmo finirla di pensare che qualunque momento negativo della vita sia dovuto ad un problema psicologico e la musica o l’arte siano una terapia.
Avvalersi della facoltà di non rispondere, a volte.
Essere liberi, davvero, comporta un sacco di disciplina. Anche per continuare ad essere liberi, a volte, bisogna dire di no.
Da casa, passo e chiudo, che oggi mi sento nostalgico, perché anche se passa questa pandemia per sempre, per noi non cambierà un bel niente.
Vado a preparare l’impasto per una pizza, perché oggi mi sento anche chef e domani, chissà, potrei improvvisarmi ingegnere, tanto basta l’immaginazione, no?
Michele Papa è compositore e poeta. Ha all’attivo varie collaborazioni musicali, nei quali suona il sassofono e vari strumenti di sua creazione. Ad oggi, continua la sua ricerca sul linguaggio verbale-musicale e rumoristico-urbano, è il direttore tecnico del Klang Roma.