Mondo animale(sco).

Lo guardo incredula, i suoi colori accecano. Il verde, in particolare: lucido, sfumature di rame. Non sembra fare troppo caso a me. È preso da qualcos’altro mentre io sono presa da lui. Si gonfia, si prepara, sta sull’attenti, impeccabile. Si liscia, si ammira. Nella città intorpidita fa le prove per l’amore. Gorgheggia, richiama col suo canto amore a più non posso. Altri come lui rispondono, da lontano. Gorgheggi che si moltiplicano.

La stagione dell’amore per loro deve essere cominciata alla grande, mentre la nostra è in pieno letargo. Dormiamo sonni profondi, e agitati.

Non ho mai visto un gallo nel cuore di questa città. Per questo fatico ad uscire dal suo campo visivo. Sono ammirata dalle sue penne colorate e, allo stesso tempo, atterrita per quello che la natura sta operando.

L’occhio sbircia su marciapiede destro fila di umani in rigorosa attesa distanziata e timorosa di sbagliare calcoli matematici di distanze (micro)metroscopiche. Portano tutti maschere colorate che sembrano proboscidi. Seguono un ritmo che sembra innato. Come se lo facessero da sempre, come se avessero ripristinato una qualche sapienza ancestrale che li fa muovere automaticamente in questa danza silenziosa e precisa, lo schema del movimento sincrono, il silenzio assoluto, la coreografia sobria se non fosse per quelle proboscidi colorate da dove spuntano nasi e orecchie, occhiali a volte.

Occhio vira a sinistra, c’è il gallo. E’ di tanti colori ma soprattutto verde. Si liscia le penne e prepara i gorgheggi per la sua coreografia speciale il cui obiettivo è l’amore.

Sto qui in mezzo a queste due scene di ordinaria follia metropolitana, galli e file di proboscidi colorate. Elefanti pesanti, che si muovono a rilento, e galletti che schizzano piumosi e canterini. Sto qui in mezzo a questi due abissi provando a fotografare il gallo, invidiando il gallo. Supplicando il gallo di trasformare quelle proboscidi silenziose in lucide penne folli, verdi gialle e rosse, che rompano le righe e corrano in calore a scovare gorgheggi di vita.

Corpo estraneo

Sul finire della luce pomeridiana, un ponte. Appare sbilenco, scarno, con gambette essenziali che a malapena sorreggono. Qualcosa mi attira verso di lui, devo accelerare la pedalata per andare incontro a questa secchezza, questa precarietà. Sembra abbandonato, sembra che impronte umane non ve ne siano da secoli. Vedo solo l’impronta della luce, calda, che si accinge a scendere verso il tramonto. Mi sta di fronte, questa desolazione. Sbilenca, parzialmente illuminata.

Faccio un giro di pedale in più, mi avvicino. Adesso anche la luce che fende è più vicina, anzi è l’unica certezza di quest’incontro. Questa luce ha un calore, apro la bocca per inghiottirlo tutto con un unico gesto osceno.

Sembra che qualcosa debba avvenire, mentre ingoio questo sorso bollente.

O sarà la notte ad inghiottire me…

O sarà il corpo ad incepparsi, ad incastrarsi nel meccanismo, a rimanere nell’ingranaggio…

Gli vado incontro. Qualcosa dice che bisogna pure lasciar accadere, evitare di frenare, lasciar fare alla gravità.

Gli vado incontro su questo ponte scarno, che a malapena sorregge.

Non penso che sia così disgustoso. O meglio, penso che nel suo essere disgustoso sarà eccitante. Penso a quale delle mie parti attivare prima. Mi viene istintivo di cacciare un dito, afferrare qualcosa di sicuramente umido, intingere in qualcosa di sicuramente umido. Immergo il dito in quest’umidità. Tiro fuori qualcosa di organico. Ho tutta la bocca piena del sorso che faccio cadere a poco a poco, saliva che scende piano, si ferma attorno al corpo estraneo e lo circonda. Inizia piano, con una lieve lubrificazione in modo che il ponte sbilenco non traballi troppo. A mano a mano che si rianima, tutto prende consistenza e fiducia.

Stendo tutto il mio corpo per bene sul ponte, faccio in modo che il mio orifizio anale combaci per bene con il pavimento freddo e sbilenco. Il contatto eccita. La precarietà eccita.

Guardo in faccia al corpo estraneo che, investito dalla luce pomeridiana ormai virata in tramonto, diventa sempre più pesante e voluttuoso. Diventa sempre più invasivo ed esigente.

Aspetto che in una sola mossa decisa, senza troppe esitazioni senza indugi pensieri preliminari affetti preamboli raggiri, ma con una sola sicura menefreghista pugnalata scenda a picco su di me, invada me.  L’impatto mi fa godere. Per la violenza del colpo il ponte sbilenco già traballante va in mille pezzi, insieme ai miei liquidi, alle mie certezze.

Entrare nel corpo estraneo è la calamità del secolo.

Almeno non morirò nella secchezza.

Chi c’è , c’è / e chi non c’è,

Arranco sotto il caldo estivo. Trascino la bici con la ruota bucata. Una disgrazia sempre, ma ora più che mai. Bici con ruota bucata in pandemia, tu impossibilitata a cambiarla. Una cretina.

Perciò ritengo quasi divinamente giusto di trascinare ora questo povero relitto a mie spese, con la sua gomma pesante che si appiccia al suolo di questa fottuta città mentre io le sussurro: tu in realtà dovresti volare.

Il primo incontro è il gommista. Anzi: due gommisti, due mascherine. Faccio: conoscete biciclettari in zona? Uno di loro gira la faccia mascherinata verso di me, la sua proboscide fa capolino prima della sua voce, prima ancora che i suoi occhi si piazzino al centro dei miei. Un vago accento arabo, lo riconosco.

Fa: più avanti due semafori, biciclettaro, forse aperto. Ma tu, mascherina?

Omette il verbo, non mi incazzo. Mi incazzo per la domanda.

Come, scusa?

Si corregge: Tu, non puoi andare senza mascherina.

Vorrei ringraziarlo per la dritta e invece gli imbruttisco: scusa, perché?

Mascherina, dice lui. Semplicemente, come se la parola in sé ammucchiasse un universo di significazione, come se la parola fosse scontato ciò che vuole dire.

Quindi? Faccio io, in tono di sfida.

(Non me ne voglia l’universo del MedioOriente a cui il mio culo è perennemente grato e intriso d’amor).

Tu vai ma devi mettere mascherina, dice lui.

Finalmente. Finalmente stronzo ti posso sfidare, finalmente! Non perché sei arabo (figurati, detto da una quasi arabista -che vergogna) ma perché stai dicendo una boiata.

(Diciamocelo pure che anche i nostri amati soggetti anti e post-coloniali possono dire boiate).

No, gli faccio io. No. Io me ne fotto, dico, consapevole di essere una stronza a parlare così. (Stronza nei confronti dei cittadini perbene, stronza nei confronti dei soggetti anti e post-coloniali).

Non è obbligatoria per legge, gli dico, buttandogli in faccia l’abisso che c’è fra di noi. Che non è – immigrato vs italiana ma: cittadina informata vs uno che non conosce le leggi del paese. Insomma, gli butto in faccia ‘l’educazione civica’ del momento, e parto in quarta facendo la fica davanti a lui, ma la realtà è che la bici arranca.

Arranca e io sudo. Fatico. Arrivo sudata, appiccicosa, indecente allo shop raccomandato due semafori più avanti. Fuori, milioni di scooter. Dentro, faccio capolino con la mia testa indecente e senza mascherina, niente. C’è una catenella che blocca la soglia quindi non posso entrare. Posso solo urlare: c’è nessunoooo ? con la mia bocca senza mascherina.

Produco goccioline che vanno in giro beffarde nell’aria e penso che nessuno si degnerà di avvicinarsi a questa bocca indecente che grida aiuto.

Invece. Arriva un’ombra, da lontano, la vedo dal fondo del negozio farsi sempre più netta, e piazzarsi accanto alla catenella.

Io sono catenella lato strada.

Lui (ragazzo, giovane, non mascherinato) catenella lato negozio.

Dialogo:

Si? Fa lui, senza mascherina.

Ho bucato, me sa. Faccio io, senza mascherina, in romanesco.

Vediamo. Fa lui, senza mascherina.

Scavalca la catenella.

In un secondo, scavalca l’abisso del confinamento.

Tocca la ruota. Si, dice, senza mascherina.

Forse, faccio io senza mascherina, c’è anche un problema ai freni, insomma è bloccata sta bici, non vola non decolla come dovrebbe, faccio io, senza mascherina. Deve vola’, faccio in romanesco.

Vediamo, dice senza mascherina.

Tocca, senza guanti, i freni.

Accarezza, senza guanti, il manubrio. Tutto.

E’ piuttosto, fa lui senza mascherina, che hai un problema ai cuscinetti, non ai freni.

Mi sento un’idiota. Cuscinetti e freni, posti diversi ruoli diversi. Certo. Cretina.

Ma umanamente trionfo, splendo. Lui non si fa problemi a parlare alla mia bocca nuda.

Lui non si fa problemi a parlare alle mie goccioline in fuga per l’atmosfera, selvagge e irrefrenabili. Goccioline.

Uhm, faccio, spendendo quattro-cinque goccioline.

Che fai?, fa lui. Senza mascherina.

Te la lascio. Faccio io senza ‘uhm’, senza mascherina, senza goccioline. Trionfante.

Ma solo per la ruota, preciso.

Aspetto fuori, poi te la riporto. Per i cuscinetti, preciso.

Prende la bici, scavalla la catenella e fa: ok. Senza mascherina. Senza guanti tocca il manubrio. Sembra che lo stia coccolando, massaggiando, masturbando.

Mentre la sua ombra senza mascherina sparisce oltre la catenella con la mia bici penso: il mondo si divide in con e senza. In si e no. In chi c’è , c’è. Chi non c’è, no.

In chi riesce a guardare bocche senza mascherina, a sostenere bocche senza mascherina. A sostenere l’altro e i suoi pericoli, semplicemente.

In chi tocca senza guanti, in chi riesce, come questo ragazzone davanti a me, a toccare l’ignoto di un manubrio. L’abisso di un manubrio.

C’è un esercito di bocche irriverenti, di mani selvagge, pronto a entrare in scena, che è gia in scena, sottotono.

L’abisso di un manubrio, l’incertezza di un ‘uhm’ a quattro-cinque goccioline. L’approssimazione.

Processateci.

Chi c’è, c’è .

E chi non c’è……………………………………………………………………………………………………………


Nelle sue differenti versioni ed identità, Donatella Della Ratta è stata autrice televisiva su una rete nazionale ma non nazional-popolare; giornalista di un quotidiano comunista ma non comico; community manager in quel della Silicon Valley e social agitator in c’era una volta il Medio Oriente.  Attualmente scrive, performa e fa la prof all’università, seria ma senza prendersi troppo sul serio.