Quella volta che Charles Mingus ha provato a suicidarsi scopando con decine di prostitute messicane contemporaneamente.

Una volta Charles Mingus ha provato a suicidarsi scopando con decine di prostitute messicane. Tutte insieme e una dietro l’altra, quasi tre ore senza interruzioni. Nella sua autobiografia (“Peggio di un Bastardo”) non ammette esplicitamente che il fine ultimo di quella maratona sessuale fosse la morte, eppure leggendolo sembra molto chiaro. 

Poco tempo prima aveva tradito per l’ennesima volta la moglie e madre dei suoi due figli, Barbara. In questo caso però non era stato un incontro casuale, lo aveva fatto con la proprietaria bianca di un locale in cui suonava settimanalmente, Nesa; una persona che detestava, per i modi autoritari e per l’abitudine a stuzzicarlo chiamandolo “negro”. Alla fine è stata lei a fare la prima mossa. Quando i due scopano nel suo ufficio i ruoli si confondono e, ciò che era partito come pura attrazione animale, diventa un regolamento di conti: un gioco di potere economico, di genere e soprattutto razziale. Mingus ne esce vinto e vincitore. 

Per cercare rifugio dal disgusto che prova verso se stesso, Mingus torna a casa dalla moglie, che però sta facendo le valigie lasciandolo per l’ennesima volta. I due non hanno rapporti sessuali da molto tempo, ogni volta che tentano lei prova un dolore lancinante. La voce di Mingus nel libro descrive la situazione in modo sprezzante, non capacitandosi di come una donna che ha dato alla luce un bambino di circa quattro chili non riesca ad accogliere il suo cazzo con la stessa facilità. Ovviamente non contempla neanche per un secondo la possibilità che il problema sia di natura psicologica e non fisica; come è escluso a priori che il problema possano essere i suoi comportamenti orribili, la sua violenza, la sua infedeltà. È molto probabile che Mingus lo pensi ma non lo scriva. Per una persona intelligente come lui liquidare la questione con una battuta orribile forse è il modo di allontanarsi dal problema, così da non doverci avere niente a che fare; soprattutto dal punto di vista personale, di messa in discussione del suo stile di vita, della sua sfera emotiva. Il momento di separazione si conclude infatti con l’ennesima rimarcazione della sua virilità, proiettata anche sulla prole; raccomanda al padre di Barbara di insegnare a difendersi ai suoi due bambini, sottolineando che il più grande ha già un buon diretto sinistro e un buon gancio destro. 

Se dovessimo dare retta alla sua voce autobiografica, Mingus nella sua vita ha fatto solo due cose: suonare e scopare. Era brutto, grasso, volgare, sudava un sacco, aveva le gambe storte e un piede varo. Da bambino era stato alla mercé delle prese in giro e della violenza di entrambi i sessi. Cresciuto e acquisita nuova sicurezza grazie ad un talento musicale sconfinato ed impareggiabile, si era ripreso tutto con gli interessi: era sempre incazzato, trattava male tutti, tanto gli uomini quanto le donne e sfogava su queste ultime una libido egoistica senza apparente fine. E infatti non appena costretto a lasciare sua moglie, via in macchina verso il Messico assieme al compagno di band Hickey e proprio alla donna che detesta, Nesa, accompagnata dall’amica Georgie. 

Quando i quattro arrivano all’albergo, Mingus entra in una specie di trance agonistica e mette le cose in chiaro senza ammissione di repliche: vuole almeno venti puttane che saltino addosso a lui e ad i suoi compagni di viaggio. Ordina tequila, lime e sale, va in piscina per reclutare le ragazze; quasi tutte minorenni, molte appena passata la pubertà. Hickey è preoccupato, vede le cose prendere una piega grottesca, ma si lascia trascinare dall’amico. Alla fine quando salgano in camera le ragazze sono almeno una trentina (senza contare Nesa e Georgie) e continuano ad arrivare. Il ritmo della scrittura qui si fa frenetico: è tutto punti esclamativi, frasi spezzate, dialogo volgare e serrato: tra le ragazze che composte e fredde gli chiedono sempre più soldi mentre scopano e lui che in affanno gli risponde volgarmente. Hickey comincia a preoccuparsi sul serio, la situazione sta sfuggendo di mano, le due donne che sono venute con loro sono in un angolo della stanza, non si immischiano. Nel mezzo del caos Mingus risponde alle rimostranze dell’amico rivelando la vera intenzione dietro alla ricerca di una catarsi che sembra non arrivare mai: “Che c’è Hickey? Cos’altro mi rimane in questa società dell’uomo bianco, se Dio non mi vuole? Me, me stesso e io: ecco cosa mi rimane.” Quel che sta facendo è una celebrazione sabbatica della sua solitudine, acuendola ancora di più. Quel che Mingus cerca non è un altro, ennesimo, amplesso: vuole il suo ultimo orgasmo. Vuole la morte. 

Il genio della sua musica è specchio di questa depravazione decadente, intrisa di vitalità violenta. Alle sue incursioni sul suolo messicano Mingus ha dedicato un intero album, “Tijuana Moods”. Il suo è uno sguardo disincantato, che spinge ai limiti delle possibilità espressive il jazz, la musica dell’epoca. Poco spazio per i romanticismi, la vita vera, soprattutto per un omone nero negli Stati Uniti della prima metà del novecento, va descritta così com’è: una merda. E quindi ha perfettamente senso affiancare il clamoroso sforzo intellettuale nel cercare di descrivere la caotica storia dell’essere umano in “Pithecanthropus Erectus” ad un brano come “A Foggy Day”, in cui si sentono letteralmente i rumori della città, le sirene, i fischietti, dissonanze che coprono gli strumenti: siamo catapultati in una strada trafficata senza troppe cerimonie. Come a dire “guardate che affascinante casino di merda che è stato arrivare fino a qui” seguito subito dopo da un “ecco, forse ora è pure peggio”. 

E l’amore salvifico, la ragazza dei sogni? Anche Mingus doveva averne una, certamente. Ma ascoltando il brano omonimo, l’ultimo del capolavoro “Ah Um”, il ritratto che esce fuori non è affatto quello che ci aspettiamo: non c’è niente di quelle atmosfere eteree e terribilmente stucchevoli alla Chet Baker, in cui è tutto fatto di fumo di sigaretta profumato, whisky afrodisiaco, intrecciarsi di dita e sentimenti tristi, rassegnati e lentissimi; per loro stessa natura finiti e decadenti. No, il brano di Mingus parte velocissimo crescendo con il passare dei secondi, insieme ad un’orgia di fiati maleducati che si dividono tra momenti più swing e apparentemente rassicuranti ad assoli destabilizzanti, cattivi. Sotto questo caos ordinato, le dita di Mingus corrono a velocità folle sulla tastiera del suo contrabbasso. Che forma ha la donna descritta da un brano del genere, che donna aveva in mente Mingus? Forse assomiglia molto alla “Devil Woman” di cui ci parla nel brano omonimo del disco “Oh Yeah”. Un blues lento, grave, splendidamente arrangiato. Qui Mingus posa per un attimo il contrabbasso, cantando e suonando il piano:

Oh yeah, Devil Woman

Hello, Devil Woman

Hello, Devil Woman. Goodbye, Angel Woman

I’m just a gigolo, everywhere I go

Goodbye, Angel Woman!”


Giulio Pecci è nato. Poi ha iniziato a fare un po’ di cose, tipo scrivere in giro, suonare un po’ e organizzare una rassegna jazz.