Pensieri
Tutti gli
insonni hanno qualche amico con il ritmo circadiano d’acciaio – quelli che
dormono sempre otto ore oppure quelli che dormono “solo cinque e mi basta”.
Cercare di immaginare il loro equilibrio mentale è uno sforzo di proiezione
insostenibile per qualsiasi insonne. Cosa vuol dire posarsi leggeri sui propri
pensieri, staccare il cervello, dirsi ora si dorme e poi subito dormire?
Noi non lo sapremo mai.
In più, chiunque soffra seriamente di insonnia conosce ormai bene la banalità suprema della propria condizione. Qualsiasi narrazione seducente, qualsiasi mito dell’artista tormentato e insonne, del genio tormentato e insonne, del creativo tormentato e insonne, insomma qualsiasi storiella che ci hanno e ci siamo raccontati sul fatto che l’insonnia potesse essere il riflesso di un’intelligenza spiccata, o di una maggiore sensibilità, beh, ormai lo sappiamo, è una truffa. Forse al liceo o durante i primi anni di università potevamo ancora provare a tirar fuori quella carta lì, dire stanotte non ho dormito e lasciar immaginare di essere stati presi da chissà quale tormento altissimo e autentico che solo noi potevamo davvero comprendere.
Ma i pensieri che non ci fanno dormire, a noi insonni, al netto di una generica predisposizione per l’ansia che aumenta magari durante i periodi di instabilità politica o nel mezzo di una pandemia, non sono quasi mai pensieri profondi. Non sono neanche scintille di creatività, non è l’idea perfetta per un racconto a tenerci svegli, non siamo quasi mai accecati dalla luce di qualche intuizione brillante. Molto più spesso sono rigurgiti di questioni quotidiane e veniali, quasi sempre fastidiose.
Domani devo ricordarmi di mandare la richiesta di domiciliazione bancaria alla TIM.
Cose così.
Il commercialista non mi ha ancora risposto.
Dov’è finito il coperchio blu del tupperware.

In Atlante Occidentale Daniele Del Giudice dà una descrizione perfetta del giro ossessivo che fanno certi pensieri stupidi che non ti lasciano in pace e alla fine ti costringono ad alzarti dal letto. È la scena in cui uno dei protagonisti del romanzo, Pietro Brahe, un fisico del CERN, torna a casa dopo un turno di notte e cerca di dormire almeno qualche ora prima di un appuntamento:
Cercò un desiderio, un qualsiasi desiderio per addormentarsi, o almeno un’immagine senza significato; si era steso sul divano togliendosi la giacca, ma come chiudeva gli occhi tornavano le visualizzazione con le tracce, quasi dei fosfeni. Cercò la solidità degli oggetti e da una cosa all’altra arrivò a un ventilatore da soffitto poi lo mise in verticale e pensò che bloccando con le mani l’elica di un aeroplano in volo la fusoliera avrebbe preso a ruotare in senso inverso a pari velocità […] e già sentiva che il filo del sonno si perdeva e poi passò un messaggio prima insignificante poi subito ripetuto che diceva sabato alla due e percepì di nuovo il sangue in circolo e il messaggio ripassò aggiungendo sabato alla due Mr Wang e poi passò un’ultima volta completando sabato è oggi, e Brahe fu perfettamente sveglio e disse ad alta voce «Oddio!»
Come dice un centinaio di pagine più avanti l’altro protagonista del romanzo, Ira Epstein, scrittore vicino al Nobel, il sonno è il vero mistero della condizione umana “abbandono, fratellanza animale e rigenerazione”. Bisogna “avere prima diffidenza e poi pietà per gli insonni, perché a loro è sottratto veramente qualcosa di grande”. Ma quando siete a letto cercate di non pensarci, se ci riuscite. I pensieri, tutti i pensieri, sono nemici del sonno. Voto (ai pensieri come strumento per addormentarsi): 0

Soppressione articolatoria
Il giornalista scientifico Henry Nicholls scrive di essere riuscito a disinnescare i propri pensieri grazie a un metodo che chiama soppressione articolatoria. È una sorta di equivalente fonetico-grammaticale del contare le pecore. In pratica bisogna colpire ogni frase che ci viene in testa, ogni parola che ci appare durante la fase ipnagogica, ogni calcolo, ogni considerazione, ogni pensiero, appunto, bisogna colpirlo con una mitragliata di sillabe semplici, prive di associazioni emotive e visive. Tipo “la”. E quindi, se ho capito bene, invece di pensare Dov’è finito il coperchio blu del tupperware che è una frase che ci restituisce una valanga di immagini – il tapperware, prima di tutto, e le trame dei polimeri, il blu di Prussia, il blu Notte, la cucina e le bucce di aglio sul pavimento della cucina, le macchie di sugo sui fornelli, il ronzio del frigorifero vuoto – uno deve mettersi a pensare La dove la è la finito la il la coperchio la blu la del la tupperware la. E così, in teoria, il senso delle cose dovrebbe esplodere, e dovremmo riuscire a liberarci dai significati e dal loro peso.
“Ogni volta che ho usato questo metodo, mi sono riaddormentato in meno di un minuto”, scrive Nicholls. Che per farci rosicare ancora di più aggiunge: “sono riuscito a dormire in modo più continuativo e più profondo di quanto non avessi mai fatto”, e poi addirittura “Meraviglia: sono in piena forma” – e io invece ieri notte c’ho provato, ma mi è sembrato un esercizio massacrante, forse non ho abbastanza disciplina, mi distraevo e mi scordavo di dire “la” una volta su due, e così tornavo indietro, e nel frattempo i pensieri si aggrovigliavano e crescevano sempre di più, in maniera incontrollata. Mi sono addormentato con fatica e mi sono svegliato di colpo alle quattro di mattina. Voto: 3
Matteo De Giuli è senior editor del Tascabile. Collabora con Radio3 Rai, al microfono a Radio3 Scienza. Co-autore di una newsletter sull’Antropocene che si chiama MEDUSA.