NONE – Damp Chill of Life



Ero rigido e freddo, ero un ponte, stavo sopra un abisso

Kafka, Il Ponte

Tiro un lungo sospiro, fino a sentire i polmoni totalmente svuotati. Non è la prima volta che ascolto – sin dall’inizio – Damp chill of life, ma è ancora la mia prima reazione dinanzi al riff che, lentamente e sinuosamente, emerge dai sommessi arpeggi iniziali. Fa male, in particolar modo quando penetra nelle ferite ancora aperte – ma anche quando sembra inciderne di nuove, suscitando nell’animo una malinconia e un’angoscia immotivate, apparentemente prive di oggetto. Non è forse questa la funzione estetica dell’“arte triste” – mi domando: una sorta di godimento perverso, masochista, capace di alludere al nulla? Non è questo il fine ultimo, il criterio di efficacia del depressive black metal? Mi torna alla mente come, molti anni fa, la terapista me ne avesse sconsigliato (quasi vietato) l’ascolto.

Ogni volta passo alcuni secondi a scrutare la copertina dell’album. Pur essendo estremamente anonima e tutto sommato banale (persino per un contesto stilisticamente omogeneo come quello depressive), non riesco a levarmela dalla testa: il limitare di un bosco, sprofondato tra le spire di un paesaggio immoto e glaciale. La fisso, come se mi aspettassi che, da un momento all’altro, qualcuno o qualcosa uscisse dal bosco. Non vi è dubbio che nella cover art, nel nome della band (letteralmente “nessuno”), nel titolo dell’album, regni una straordinaria immediatezza comunicativa; tutto risulta essere estremamente laconico, e tuttavia profondamente espressivo.

Mi sovviene un’espressione tedesca – spesso impiegata in ambito fenomenologico: stimmung, “disposizione d’animo” o, più radicalmente, “accordo di voci”, un termine che indica una sovrapposizione tra il mondo interno di un soggetto e il mondo esterno ad esso; il prodotto di tale intreccio sarebbe uno stato umorale non direttamente appartenente al soggetto – un sentire per certi versi proveniente da fuori dal corpo, dall’ambiente circostante – ma neppure oggettivata nel mondo in se e per sé (nella misura in cui, ad esempio, non avrebbe alcun senso asserire che il mondo è oggettivamente triste, felice o euforico). L’incedere maestoso e al tempo stesso “insicuro” dei brani sembra quasi inciampare e caracollare nella neve, fermarsi a prendere respiro sprofondando nel semi-silenzio dei passaggi atmosferici, agonizzando in un paradossale crescendo di abiezione e bassezza. È la storia di una caduta – “It’s painless to let go”, recita la traccia numero cinque. Realizzo solo ora che il paesaggio della copertina è lo scenario, la chiave della stimmung sonica dell’album: il freddo che sento nelle ossa, l’abbandono nel quale sto scivolando da due giorni…è lì che sto andando, verso il bosco, verso l’attrattore spettrale, il Grande Freddo, l’ambiente sonico da cui promana questa maledizione.


Claudio Kulesko è un filosofo ronin e traduttore. Collabora con Not, L’Indiscreto e Liberazioni-Rivista di critica antispecista.