Ballare sulle ceneri del femminismo: Fleabag, Girls e il successo delle unlikeable women.

Londra, 2015 circa: Alle due di notte, una poco più che trentenne passa dal pigiama alla lingerie sexy per accogliere in casa il suo avvenente fuckboy. Per rendere la scena più credibile, la donna pensa di fingere di essere appena tornata da una serata in giro per locali. È libera, mangiauomini, selvaggia. She doesn’t give a fuck di lui, è uno fra i tanti che ha, che potrebbe avere, uno dei tanti boost per la sua autostima. O così almeno si racconta lei.

Roma, 2019 circa: Una poco più che trentenne, di ritorno da una serata con gli amici, controlla ossessivamente gli ultimi accessi sui social del tipo con cui si vede. Pensava di trovarlo in un locale, ha mosso tutto il gruppo di amici verso quel posto, sulla base di un “mi interessa” a un evento su facebook. Non l’ha incontrato, ma si sa che un “mi interessa” è più effimero di una scritta sulla sabbia e poi lui è uno che decide all’ultimo momento, ha tanti amici, bar, donne a disposizione. Una di quelle è lei, la poco più che trentenne, un lavoro precario nell’industria culturale, forse con partita iva, gli extra mensili elargiti dai genitori, una passione per il vintage da mercatino e per le nuove scrittrici americane.

Lui, quarant’anni, single da cinque, dopo il grande amore-cane-convivenza con figlia dell’alta borghesia cittadina.

I due, la poco più che trentenne e il poco più che quarantenne si incontrano alla presentazione di un libro indipendente in un book shop indipendente, parlano di letteratura, si scambiano sguardi fugaci e i contatti social. Inizia un epistolario da naso incollato al cellulare, risatine solitarie da schermo e frenetica attesa di un appuntamento. L’appuntamento c’è, va una bomba, si piacciono, finiscono a letto.

Il mattino dopo, a Londra, la poco più che trentenne apre di malavoglia il suo bar mentre si chiede perché il suo amante l’abbia ringraziata dopo il sesso anale: il locale non è veramente hipster, ma ne è una pallida imitazione, è arredato in legno chiaro e caratteri Helvetica ma i mobili sono d’accatto, è riempito di gabbie con dentro porcellini d’India e ha un menù che varia a seconda della pigrizia della proprietaria.

Il mattino dopo, a Roma, la poco più che trentenne si sveglia a fatica e imbraccia il computer alla ricerca di un bar che la ospiti per lavorare. Il suo è uno smart job, pagato male, ma quella mattina non le importa nulla, il brivido del corpo a corpo, la sensazione di essere stata desiderata, un certo luccichìo che ha creduto di vedere negli occhi di lui la tengono viva, pronta ad affrontare un’altra giornata colabrodo di frustrazioni esistenziali.

Apparentemente non c’è una sostanziale differenza fra la biografia della trentenne londinese e quella della trentenne italiana, entrambe single, libere sessualmente e in attesa di una realizzazione lavorativa. Eppure, una differenza fra le due auto-rappresentazioni (e quindi auto-narrazioni) della generazione delle trentenni in UK e Italia c’è. Nella trentenne inglese protagonista di Fleabag (letteralmente, sacco di pulci), il personaggio dell’omonima serie creata dalla show-runner del momento, Phoebe Waller Bridge, che si è appena giudicata tre Emmy Awards, c’è qualcosa che abbonda e non è solo l’intelligenza o il cinismo. caratteristiche ormai imprescindibili per essere una donna che conta nella giungla contemporanea. Fleabag pratica l’auto-indulgenza, un sentimento sfacciato che se usato correttamente può causare spirito critico, indipendenza di giudizio, alleggerimento della coscienza e forse, una vita vissuta secondo i propri desideri e non secondo quelli di chi, a livello micro o macro, ci circonda (società, famiglia, partner, amici, guru di pratiche yoga ecc ecc).

Se cerchiamo il termine auto indulgenza femminile su Google, ci assicuriamo una serie di articoli indicizzati su siti di psicologia che mettono in guardia il lettore contro questo sentimento attribuito per lo più a personalità narcisiste.

Come se perdonare se stess* per quello che si è, per le proprie mancanze, cercando di conviverci e forse anche di superarle, ci traghettasse direttamente verso la patologia.

Le due stagioni create da Waller Bridge per Amazon, nate dallo spunto casuale di un pezzo di stand-up comedy di dieci minuti diventato poi pièce teatrale, si focalizzano in maniera sorprendente sul problema (molto femminile) di non credere in sé stesse e soprattutto nei propri sentimenti, di avere paura di esplorarli, anche nelle loro bassezze e sostenerli, per imparare a esorcizzarli e a conviverci senza farsene inghiottire.

Phoebe Waller Bridge irrompe sulla scena nel 2016, un anno prima del #metoo, dopo che una serie tv made in HBO aveva già sbancato portando sullo schermo il femminismo 2.0. La serie è Girls, scritta e interpretata da Lena Dunham, attrice sceneggiatrice e regista di 33 anni, figlia di una fotografa e di uno scrittore, nata ed educata a New York. Girls, che dura cinque stagioni, debutta quando Lena ha 27 anni e le vale un Golden Globe, quattro nomination agli Emmy, e un Guild Directors Award. La storia è nota: ci sono quattro ragazze di venticinque anni e la loro lotta alla sopravvivenza a Brooklyn, capofila Lena/Hannah, aspirante scrittrice e barista per sopravvivere, innamorata persa di un attore (Adam Driver) che la chiama solo per fare sesso, mentre a fare da spalla alle sue (dis)avventure ci sono tre amiche ugualmente giovani, ugualmente prese a imparare il mestiere vivere. Girls è stata definita da molti una specie di “erede millennial” di Sex and the city, non tenendo conto del fatto che la libertà sessuale esaltata da Carrie Bradshaw e socie era molto diversa da quella di Dunham: in Sex And The City il fine ultimo era sempre trovare l’uomo dei sogni (e con il portafoglio), in Girls qualcosa è cambiato. Dunham è un’attivista e le sue convinzioni sono ben visibili nelle azioni e in tanti dialoghi della protagonista, che oltretutto non rappresenta il canone estetico tradizionale dell’eroina femminile. Dunham è infatti sovrappeso e porta orgogliosamente vestiti appariscenti e succinti, che mettono in risalto la ciccia: con i chili in più balla di fronte a noi, conquista il suo amante riluttante e molti altri. Grazie al successo mondiale della serie, l’account di instagram dell’attrice è fra i più seguiti dei social (3 milioni di follower): da lì Dunham parla di femminismo, di body positivity e di politica. La figlia del privilegio di New York, come la definisce il New York Times, è stata infatti una delle più infervorate sostenitrici di Hillary Clinton durante la campagna elettorale contro Donald Trump, addirittura speaker di una convention democratica per condannare il razzismo e il sessismo dell’allora candidato repubblicano alla presidenza. Ambasciatrice delle donne fra le giovani liberal, Lena non scampa alla macchia dell’incoerenza, difendendo un suo co-writer in Girls, Murray Miller, dalle accuse di molestia sessuale. Primo scivolone.  Le femministe americane, in particolare quelle afroamericane che già l’accusavano di avere creato una serie totalmente white, si sono arrabbiate parecchio per l’incoerenza di una ragazza di sicuro talento, ma forse cresciuta un po’ troppo nella bambagia per sapersi muovere al di fuori della Brooklyn patinata che ha frequentato e raccontato. Dunham racconta poi di quella volta che al MET gala si è seduta vicino al giocatore di football nero Odell Beckham Jr., chiedendosi se lui l’avrebbe mai considerata una donna da desiderare sessualmente nonostante i suoi chili in più e il suo stravagante tuxedo. Secondo scivolone. Segue manipolo di scuse della scrittrice all’accusa di aver dato corda alla retorica dell’uomo nero-predatore sessuale, incentrate sul fatto che la società la fa sentire inadeguata per il suo corpo e di conseguenza lei stessa si sente inadeguata di fronte a un uomo. Un solipsismo piuttosto irritante, che limita l’impatto del suo personaggio e della sua influenza come femminista. Dunham cade in una trappola piuttosto frequente, quella di proclamarsi ambasciatrice assoluta di qualcosa che non ammette contraddizioni. Se empatizziamo con Fleabag/Phoebe Waller Bridge nonostante il suo cinismo, il tradimento nei confronti della migliore amica, l’apparente distacco dall’amore, fino alla derisione dell’attivismo femminista (o di come tette grandi e femminismo non possano coesistere, ed altri stereotipi che vogliono la donna attraente incapace di lottare per la parità di genere), è perché ci restituisce l’umanità e il dolore della condizione umana (e femminile) per quello che sono, senza filtri. Phoebe Waller Bridge è una donna, che scrive di una donna.

Fleabag è un’operazione politica senza che la sua autrice l’avesse dichiarato programmaticamente. Non può non esserlo anche perché al centro c’è una storia di dolore, di famiglia, di morte.  L’incoerenza pur nella sua apparente freddezza, la richiesta di aiuto alla psicoterapeuta (“vorrei solo qualcuno che mi dicesse cosa devo fare”) e l’intimità con un uomo che non può avere, sono queste le contraddizioni che la rendono un’autentica femminista.

Girls, al contrario, pretende subito di essere una serie femminista e politica in tutto e per tutto, facendo un manifesto politico del personaggio di Hannah, perché è la stessa autrice a fare politica mettendoci la faccia. Qui sta lo scollamento fra intenzione e risultato: se la creatrice di Girls è un’attivista, la politica permeerà la sua produzione artistica, così almeno siamo obbligati ad assumere. Eppure Girls è, allo stesso modo di Fleabag, il ritratto di una millennial molto ben congeniato e, per quanto riguarda una nicchia benestante e bianca, molto realistico, che combatte contro solitudine e bisogno d’amore, odiando se stessa e autoesaltando il suo vittimismo. È, insomma, una donna profondamente contraddittoria.

Se già avevamo Lena Dunham, giovane artista irriverente, intelligente e ambiziosa, perché ci dobbiamo innamorare di Fleabag, che oltretutto non partecipa a ritiri per scrittori in Oregon, non legge il New Yorker e nasconde un fisico da modella?

Il personaggio di Hanna Horvath, seppur fra i più riusciti personaggi femminili di una serie tv, calca alcuni stereotipi che limitano il suo potenziale rivoluzionario. Hannah soffre, ma la rappresentazione della sua sofferenza è quasi sempre superficiale, così come quella della sua amica più problematica, Jessa, che vive il classico binomio dipendenza da droga e genitori morti.

In Fleabag la cognizione del dolore è sempre qualcosa che preme per esplodere dietro il sarcasmo, dietro il sesso occasionale, dietro la politeness nell’ultima conversazione fra la ragazza e il padre, dove le viene finalmente riconosciuto tutto il bisogno d’amore celato sotto strati di self-distruction. It will pass, le dice sul finale della serie il prete di cui è innamorata e non si riferisce solo al loro sentimento impossibile, ma anche a tutte le perdite che ha dovuto affrontare nella vita. L’autenticità di Fleabag sta anche in questo, nel non trattare come bandiera politica nessun argomento, riuscendo ad arrivare a parlare al pubblico ugualmente di temi universali come la morte, la famiglia, l’amore. Prendiamo, ad esempio, l’aborto: all’inizio della seconda serie, la sorella di Fleabag, Claire, abortisce durante una cena di famiglia nascosta nel bagno del ristorante e la sorella protegge questo suo dolore fingendo di essere lei, quella ad abortire. L’irregolare, la ribelle, quella senza una relazione fissa se abortisce non se ne stupisce nessuno. Il padre, dice Fleabag, non lo conosceva neppure, rispondendo alla finta preoccupazione della sua matrigna (la strepitosa Olivia Colman). Questa è la bugia di Fleabag, fino al climax della rivelazione dell’equivoco nell’ultima puntata, in un crescendo drammaturgico che rivela la profondità del legame fra le due sorelle. Quando soffriamo, non siamo cool. Non siamo altruiste, non siamo rispettose, in una parola, siamo spiacevoli. Perché quindi fagocitare la sofferenza nella spettacolarizzazione? Hannah odia sé stessa compiaciuta, Fleabag è talmente sarcastica che si prenderebbe gioco persino del suo compiacimento. Lena Dunham, definendosi una delle donne che ha maggiormente a cuore i problemi delle sue pari genere, dichiara nel suo podcast The women of the our che avrebbe voluto provare un aborto, per empatizzare con il dolore di una simile scelta. Terzo scivolone. Seguono scuse, mentre quando la sua Hannah rimane incinta per sbaglio nell’ultima serie tiene il bambino, quasi a volerci dimostrare che anche lei può essere una brava madre. Un altro compiacimento, un’altra strizzata d’occhio al narcisismo mascherato da autodeterminazione.

Fleabag si definisce una bad feminist, perché la sua libertà sessuale è un’arma per riempire il vuoto d’amore e di solitudine. Per questo, invece, è una vera femminista: è una donna che non ha paura di essere sincera, di avere bisogno di cura, di piacere, di amore. In poche parole, è davvero una di noi.


Chiara Tripaldi scrive per il cinema, gira documentari e si annoia a stare più di un mese consecutivo a Roma. È una cattiva femminista con il sogno di vivere vicino al mare.