Il sesso è anche la vendetta sulla morte.
Philip Roth, L’animale morente
Lo dobbiamo fottere a quel rotto in culo. Deve sparire ogni traccia, ogni contributo, ogni singola micro particella della sua esistenza: non c’è più, annientato. Così impara a rubarmi i libri. Ad attingere dalle mie fonti e poi sparire, chiedendomi prima l’amicizia su Facebook, poi su Instagram e a partecipare alle call della mia rivista – sempre respinto, con quel suo periodare manierato, tutto ipotassi e subordinate che si ripetono, ma dico: sei pazzo se credi che qualcuno legga o ti pubblichi ancora queste cose… –. Niente, kaputt! Così avrà capito una volta per tutte cosa significa mettersi contro di me: l’editor più Colto di tutta la nazione, l’unico faro nel mare di nebbia del paludoso mondo editoriale italiano. Ho anche provato a venirgli incontro, senza pregiudizi, illuminato esclusivamente dalla mia buona volontà – forgiata da letture impeccabili, difficilissime, di libri rari e introvabili –. Ha voluto fare quello che ha fatto? Benissimo. Ora ne pagherà il conto. Non è concepibile che, nella Repubblica delle Lettere, mi sia tolto il follow da Instagram: non si fa! Ma chi cazzo si crede di essere? Il nuovo Thomas Mann? Certo, qualcuno mi ha fatto notare che nella mia rivista, ultimamente, pubblico solamente testi di ragazze molto carine, di massimo ventisette/ventotto anni, ma non è questo il punto! Il fatto è che non si doveva permettere di fare lo splendido con me, con Alberto Della Rovere, editor–scrittore–scopritore di talenti nascosti–giurato di premi importantissimi–Gran Maestro venerabile della Letteratura Italiana–scopatore incallito e Maestro di Cerimonia.
Quando ho iniziato andavo sempre nella libreria di quartiere, perché sapevo che avrei incontrato altri esponenti in vista del mondo dell’editoria, e con ogni scusa possibile cercavo in tutti i modi di estorcerli qualche parola, un breve scambio di sguardi da cui ricevere l’intesa necessaria per costruire un ponte verso il loro mondo, in modo che a furia di vedermi tutti i giorni, di offrirgli anche il caffè con i pochi soldi che avevo – che rubavo dal portafoglio di mia madre, anche se lei non lo ha mai scoperto –, si sarebbero ricordati di me. Andò effettivamente così.
Non sapevo cosa sarei diventato, ma ero sicuro che c’è l’avrei fatta. Quando ero più piccolo mi prendevano tutti in giro, i miei compagni di scuola, perché indossavo questi brutti occhiali da vista grandi – ma così grandi che gli occhi sembravano dilatati come quelli di Malcolm McDowell in Arancia Meccanica quando viene sottoposto alla cura Ludovico, o ancora Giancarlo Giannini in Sessomatto nell’episodio in cui interpreta un gerontofilo innamoratosi di una anziana signora che vorrebbe scoparsi e che spia tutti i giorni –, e un giorno uno di questi bulli dalla pancia enorme, i capelli impettiti e in piedi tenuti su da chili di gelatina, mi molla uno sganassone forte in faccia da farmi rimbalzare a terra e rompermi gli occhiali. Me ne tornai a casa triste e solitario, pensando di essere condannato a una vita di stenti e senza una donna. All’epoca leggevo Topolino e L’uomo ragno, crescendo invece – mentre trascorrevo le mie giornate terrorizzato al punto da non volermi più alzare dal letto, per timore che avrei incontrato quella banda di basilischi perditempo nullafacenti –, mi sono rifatto una verginità, anzi! L’ho persa proprio la verginità: è accaduto con una ragazza molto dolce, dai lineamenti orientali, un po’ del sud est asiatico e un po’ romaneschi. Ci incontrammo per caso nell’edicola vicino a casa, quando ancora trovavo libri importanti a prezzi bassi, e ricordo che proprio quel giorno fui distratto dalla sua voce, e dal profumo – sapeva di pesca appena raccolta, dello stesso colore dei suoi capelli: arancione che virava verso il giallo miele, dolce fior di loto appena dischiuso –, di questa bellissima ragazza. All’epoca non avevo la minima idea di cosa fossero le riviste letterarie, di come funzionasse il giro, delle bolle sparse e delle comunità di riferimento. Me ne stavo sempre solo in camera con l’uccello tra le mani e una qualche fotografia di Adriana Lima sullo schermo del computer, e quando venivo emettevo dei singolari gridolini inesplosi che eruttavano all’interno di me – perché i miei genitori stavano nella stanza affianco, e se avessero percepito i miei singulti mi avrebbero chiesto cosa stessi facendo; come quella volta che, finito di leggere Il padiglione d’oro di Mishima, mi è tornata in mente l’immagine di quella ragazza orientale ma romana che avevo incontrato in edicola, e fantasticavo sulla rotondità delle sue natiche, immergendomi tra di esse con il naso all’insù mentre con le mani le dilatavo l’ano duro e rugoso (e pensavo: eccolo qua il mio tempio zen, io monaco storpio come il romanzo del regista e scrittore nipponico autore di uno dei più prestigiosi harakiri mai compiuti nella storia della civiltà; il suo culo come religione da venerare in silenzio, a cui dedicare il mio seme come un mantra tibetano recitato sullo sfondo di alberi maestosi, e cascate scintillanti dove attingere il segreto dell’esistenza intera: l’albero della vita; e poi dargli fuoco, trarre piacere dalla distruzione della fonte stessa della mia libertà, e rinascere lasciandomi tutto dietro, dai miei difetti fisici alle mie paure, passando per la mia casa, le mie conoscenze e tutto il resto) –, e comunque, entra mia madre, e in quell’esatto momento mi rigiro su di me come se niente fosse, schiaccio un tasto a caso rischiando di compromettere tutta la memoria del mio computer, e la saluto con un batticuore assurdo, mentre il mio cuore pompava senza lasciarmi tregua. Pensavo scoppiasse da un momento all’altro, e invece riuscì a distrarla simulando indifferenza, estatico rapimento contemplativo.
È forse da quel giorno che ho iniziato a capire tante cose, per esempio di come si sta al mondo, di come l’unica cosa che conti sempre sia la simulazione, il fare finta di essere qualcos’altro. Le parole sono sempre le stesse, e per quanto ci sforziamo di trovarne o di usarne delle nuove, ciò che fa la differenza è l’ordine con cui vengono disposte sulla scacchiera della pagina. Presto atto di questo – cioè del fatto che, se ero riuscito a ingannare mia madre, facendole credere che stessi contemplando la volta celeste dalla finestra dietro il mio pc, mentre mi stavo titillando l’uccello sulle chiappe della modella brasiliana, e lei ci credeva pure (credeva che fossi un tipo contemplativo, quando invece ero, e sono, solamente un erotomane), allora significava che potevo prendermi il mondo intero, dovevo scegliere solamente di quale microcosmo, o nicchia, volessi fare parte –, per me, cambiò tutto.
Scelsi l’editoria perché mi sembrava il luogo migliore per un inetto sessuale come me, per qualcuno che si faceva le seghe appena sveglio prima di andare a scuola e non aveva il coraggio di fermare la ragazza che gli piaceva per offrirle un panino al prosciutto come Bukowski, e poi perché non era ancora così affollato come oggi.
Finsi noncuranza, mascherando il mio inesistente virilismo con le buone maniere e offrendole cappuccini e cornetti alla crema al bar di fianco all’edicola. Le consigliai l’unico libro che avevo letto fino a quel momento, esclusi i fumetti ovviamente, e lei ne fu entusiasta – il libro in questione era Siddharta, il grande classico delle scopate immature, quando il tuo interlocutore pende dalle tue labbra, e crede che il percorso per raggiungere l’illuminazione passi davvero per fasi come la crescita, mentre non esiste ascensione, e di questo ne sono sempre più certo, ma esiste soltanto la palude, una palude definitiva entro la quale immergere le proprie mani come i piedi nel fango e provare a trascinarsi muovendo ogni muscolo a stento, fino a quando non soccombi tra i fiati mefitici di questa valle di lacrime, il cui orizzonte è velato da una triste striscia di fumo grigio che, gradualmente, tutto avvolge –.
Per scopare, il grande evento, escogitai un metodo infallibile: rivelai ai miei genitori che mi serviva casa libera per un paio di giorni, e visto che loro stavano attraversando una fase di crisi apparentemente irreversibile, li spinsi a trascorrere quelle notti fuori, magari in qualche albergo per scambisti, in modo da ritrovare loro stessi tra i corpi avvinghiati di qualcun altro, mentre io potevo spassarmela con Fiorella – questo era il nome che risuonava nella mia mente, e sulla punta della mia cappella, quando si abbassavano le luci, ma anche quando erano accese, e ogni cosa assumeva una forma nuova, e potevo rallegrarmi che non tutto era perduto perché avevo trovato il mio instrumentum regni: la menzogna sistematica, la simulazione socratica dell’essere ciò che non si è per compiacere qualcun altro. Saranno passati quindici anni da allora, e di Fiorella ho perso le tracce, ma la mia nuova ragazza mi va più che bene: è comprensiva, mi da sempre ragione, guarda al mio lavoro con stupore e meraviglia sconfinata, ha gli occhi grandi come il suo culo, le mani piccole come i suoi piedi, un sorriso che apre casseforti sigillate dentro alla mia mente perversa, e io la mantengo illudendola ogni giorno di pubblicarla prossimamente in una qualche nota casa editrice.
Tutte le persone che mi stanno attorno sanno che senza di me non andranno da nessuna parte, mi sono insinuato in qualsiasi angolo del vasto globo editoriale, quindi chiunque deve passare sul mio cadavere: per questo, ‘sto scribacchino mendicante non può permettersi di mancarmi di rispetto per nessun motivo al mondo – lo avevo pure aggiunto ai miei contatti, ‘sto minchione –. Mi scrivono centinaia di aspiranti scrittori ogni giorno, da tutti gli angoli d’Italia, ma io mi limito a pubblicare soltanto le fighe. È vero. Perché penso sempre: un giorno queste me le potrei scopare. E infatti qualche volta succede pure. Anche se scrivono tutti quanti come se fossero usciti da una qualche scuola di scrittura che insegna soltanto l’arte della sottrazione, dell’asciuttezza come unico valore sacro e irrinunciabile, a cui hanno fatto leggere soltanto Pavese e Calvino – ma neanche, che i morti non si dovrebbero mai disturbare, diciamo piuttosto come se avessero soltanto visto film d’azione senza mai leggere nemmeno un libro, e dove l’arte del romanzo insita nelle loro opere è proporzionale al mio grado di trombatore castrato quando trascorrevo le mie giornate chiuso in casa a masturbarmi con le fotografie delle modelle scaricate da eMule –. Oggi mi guardo intorno, e penso: il sistema editoriale italiano è un paesaggio infernale, attraversato dai fumi industriali di una qualche fabbrica dismessa, tra cavi dell’alta tensione e filo spinato che perimetrano ogni ingresso rendendo invalicabile ogni confine: ogni estetica è stata erosa dal profondo per lasciare spazio alla vacuità della superficie, così come la vanità è imperativo che deforma ogni aspirazione sul nascere. Non esiste più niente di importante, anche se poi non ne sono così sicuro che sia mai esistito anche prima, e ogni aspirante esordiente è una pedina nelle mani delle sue pulsione egotiche e masturbatorie che crede di essere il nuovo vincitore del Premio Strega, mentre i barboni della stazione eguaglierebbero ogni loro sputo di scritto se solo provassero a scrivere uno stralcio di romanzo – quando scendo dal treno, e mi guardo attorno, vedo i volti sporchi, fuligginosi delle sagome, la cui ombra ha una consistenza maggiore di tutte le altre persone, mi rispecchio in quello che sarei potuto essere se solo non avessi vissuto quella epifania di fronte alle foto di Adriana Lima: il non venire a patti in nessun modo con il proprio tempo, il procrastinare a un tempo indefinito quello che avresti potuto fare oggi, la sequela di rimpianti che mi lasciano insoddisfatto ogni volta che mi concentro su come stanno le cose, l’incapacità di fingere perché non potresti essere diversamente da quello che sei, tutto questo mi precipita in uno stato di malessere indescrivibile – e se, come scriveva Primo Brown, il malessere deve essere strumento per reagire e risalire adesso, io non ci riesco! Sono afflitto dalla sindrome dell’impostore, ho bisogno di essere accerchiato, adulato, voluto, ricercato, e tutti dovrebbero livellarsi allo stesso paradigma che impongo, pena: l’esclusione da ogni gioco –.
Per i motivi elencati, non posso più cambiare, anche perché se fingessi di essere qualcosa di diverso da questo, perderei le cose che ho guadagnato fino a oggi, e questo non lo permetterei a nessuno. Non mi resta che bloccare questa anima bella che si crede il nuovo Antonio Moresco, e ripiegarmi su me stesso come prima. Ma prima di eliminarlo definitivamente, credo che passerò alla stazione per vedere se ci sono ancora quei libri della ES che avevo adocchiato l’ultima volta passandoci di fretta, avevo un appuntamento con non ricordo più quale culona che mi scriveva papiri di frasi romantiche su Messenger nella speranza di rifilarmi il suo manoscritto – e alla fine ci siamo anche divertiti da lei, dopo esserci mangiati un piatto di linguine con una spruzzata di bottarga sopra; saltava sul mio cazzo come fosse sopra uno di quei palloni di gomma colorati, e a ogni colpo rimbalzava più in alto emettendo grida inarticolate che sfioravano il soffitto contorcendolo, e le stringevo le natiche con potenza, alternando agli schiaffi sulla sua carne arrossata insulti umilianti sulla sua identità di genere –, comunque: mi sa che era qualcosa di Apollinaire, che cercavo da un po’. Scendo in fretta, percorro un corridoio ombroso, e prossimo alla libreria con le bancarelle fuori, sento una mano che mi picchietta da dietro sulla spalla destra. «Senti, che c’hai una sigaretta?», mi volto inorridito, gli rispondo che no, non fumo, e quello di rimando: «Sì, ma non ti ho chiesto se fumi, ti ho chiesto se c’hai da fumare», e senza pensarci faccio un gesto con la mano per allontanarlo da me, ma questo si avvicina e mi fa: «Ma chi ti credi di essere? Sei una merda, hai capito: ‘AAAAA MERDA UMANA!», e senza capire più nulla mi tira in faccia un rovescio che mi butta a terra disarmando ogni mia resistenza fisica.
Mi risveglio dieci ore dopo all’interno di una baracca, forse vicino al fiume, circondato da una decina di queste figure brutte e sporche. Mi dicono che hanno grandi piani per me, che mi vogliono trattare bene, io spero solo di essere salvato.
«Ti ricordi di me?», mi fa uno, «Di quando rifiutasti il mio manoscritto perché non ti convinceva, te lo ricordi eh, brutto pezzo di ricchione!», ma non ricordavo chi fosse, né tantomeno mi diceva nulla, perché io avevo sempre e soltanto pensato ai cazzi miei: in senso letterale, a dove ficcare il mio cazzo: tra le cosce delle scrittrici che sognano di vincere il Calvino, il Mondello, lo Strega, il Mastercard… E invece, ora, se fossi stata una persona diversa potrei salvarmi, e dirgli di sì che mi ricordo, ma invece niente, non so nulla di questo figlio di puttana.
«Ti divertivi a fare il superiore vero?, adesso guarda qua, ti presento ai miei amici ubriaconi, e prima ti sbronziamo per bene e dopo ti tagliamo il cazzo, così la smetti una volta per tutte di stuprare questa scena che vomita pietà, e che chiede giustizia!», e a ruota gli altri che lo seguono: «A morte! A morte! A morte!», e via con un sermone patetico contro gli editori, contro gli scrittori da classifica, contro tutto e tutti: «Noi, Collettivo di Scrittori Clochard Ubriachi, decretiamo qui, oggi, in questa densa notte di luna piena sullo sfondo, la Morte Definitiva Della Editoria Italiana: tu, Alberto Della Rovere, pagherai il conto per tutti questi secoli di soprusi, di indecenze compiute, di sopraffazioni contro ogni sesso, ma in particolare quello femminile, a voi Philip Roth con il pene in perenne erezione, che pubblicate eccitandovi al solo pensiero di sfiorare il corpo delle scrittrici che editerete, Siete La Morte Dell’Arte, e nessuna compassione verrà riservata per chi, come voi, ha violentato questa scena, spacciando merda per capolavori, droga per CBD, champagne e ostriche per pesto e trofie, per la vostra Letteratura da Mulino Bianco: Noi ti mangeremo come selvaggi, filmando il massacro e diffondendolo in tutte le redazioni di giornali, inserti culturali, librerie, edicole, case editrici e affini. Tutti devono sapere che è per colpa tua se oggi siamo qua, se il danno ha superato l’inganno lo strappo nel cielo di carta dev’essere ricucito per sempre!».
Una lunga notte intensa, più oscura del Vantablack, cala sui miei occhi stanchi e trafitti. Quando mi risveglio, trovo la mia mano attaccata al culo di una donna con una folta chioma di capelli rossi, occhi verdi e un piercing sul naso. Mi alzo, vado allo specchio. Mi guardo il cazzo e penso: Oh, grazie al Cielo, sono ancora vivo.
Omar Suboh, è laureato in Filosofia e teorie della comunicazione. Ha scritto per Poetarum Silva, il manifesto, pangea.news, Sul Romanzo, il manifesto sardo, Diari di cineclub e altre. Ha pubblicato una fanzine dal titolo “Leggenda urbana. Fotogrammi di Minerva” (Kirby Edizioni, 2019), e due mixtape, “Aporia” ed “Apolide”, col nome diem.dedalus. Cura un blog dal nome “Homo non intelligendo fit omnia”.