Blackened – Due domande ad Andrea Cassini e Claudio Kulesko.

Purtroppo, sempre più persone iniziano a rendersi conto di quanto la vita sia una merda. Questo perché condizionata dall’essere vissuta all’interno di un mondo di merda, ma anche perché spesso si presenta un dubbio: vale davvero la pena impiegare tutto questo dispendio di energie per vivere? Mentre qualcuno ragiona su questo, nel frattempo vi sono tutta una serie di problemi ecologici che sembrano essere davvero poco promettenti, senza considerare che il capitalismo avanzato diviene sempre più predatorio e discriminatorio.
Il libro Blackened – Frontiere del pessimismo nel XXI secolo uscito per Aguaplano e scritto da Andrea Cassini e Claudio Kulesko tratta tra le altre cose di questi temi. Ma ovviamente c’è molto di più. Cassini e Kulesko provano a fare una mappatura delle forme che il pessimismo – questa corrente controversa ha attraversato il pensiero filosofico fin dall’antichità – ha sviluppato, tirando in ballo Leopardi, Schopenauer, Ligotti, Land, il black metal, Bojack Horseman e tante altre cose.
Dal momento che gli autori del libro sono dei gran chiacchieroni, abbiamo deciso di sottoporli a due domande secche.


Il pessimismo è inevitabilmente legato a una visione negativa e sfiduciosa nei confronti dell’essere umano e del mondo in generale. Una visione della vita che, quando presa alla lettera, raggiunge vette di disfacimento esistenziale che possono condurre a forme di dissoluzione radicale. Ma il pessimismo può anche essere una lente per leggere il mondo, rivelandosi come uno strumento in qualche modo addirittura ottimista, per certi versi. Potreste far luce su questo tema?

Claudio: Il pessimismo è un’accozzaglia di frammenti, pezzi di macchina, rottami raccolti qua è là in giro per la storia e per il mondo. Certe cose vengono dall’Oriente (dall’India, dal Tibet, dalla Cina, dal Giappone), altre dall’America Centrale, altre ancora (moltissime, in realtà) dalla Grecità antica e dal mondo latino. In ogni caso, tuttavia, ciascuna di queste idee, immagini, concettualizzazioni o massime di saggezza non veniva percepita, dai propri originari utilizzatori, come “pessimista”.

Per gli stoici, ad esempio, il determinismo non è un problema di per sé, ma una buona fonte di problematiche logiche e metafisiche, sulle quali farsi le ossa per affrontare la vita. Lo stesso vale per il suicidio: ancora una volta, non un problema, ma una possibilità pratica.

Il pessimismo comincia solo quando un* lettor* o un* ascoltator* focalizza la propria attenzione su un singolo aspetto ‒ con il quale coltiva una spiccata prossimità emotiva ‒ portandolo al parossismo e ignorando tutti gli altri aspetti. È per questo che non esiste UN pessimismo, ma una miriade di pessimismi, ciascuno imperniato su immagini e tratti differenti, ciascuno con le proprie vie di fuga ‒ o anche totalmente privo di vie di fuga.

Il determinismo? La gabbia nella quale le azioni umane sono costrette.

Il suicidio? L’unico dei problemi filosofici, quello fondamentale.

C’è un’incisione di Dürer, “Melancolia I” (famosissima), che esemplifica tale stato di concentrazione assoluta, al confine con l’ignoranza e la stupidità più pura: l’angelo, che campeggia accigliato al centro dell’incisione, vuole conoscere l’essenza stessa dell’universo, la Verità con la “V” maiuscola ma ,così facendo, si condanna all’infelicità, si rovina la vita.

Tutto ciò solo per correre appresso all’idea che vi possa essere una qualche Verità.

La maggior parte delle persone, per fortuna, non vive così.

Una foto di Philip Mainlander.

Il pessimista, soprattutto quello radicale (gente tipo Philipp Mainlander o Ladislav Kilma, ben al di là dello stesso Schopenhauer), è, il più delle volte, un soggetto liminale, a metà strada tra l’idiozia assoluta e l’intuizione bruciante.

Per questo, a discapito della loro “oscurità” e della loro malinconia, è difficile definire alcuni filosofi antichi, quali Eraclito, Gorgia, Buddha, Jina, Trasimaco o Empedocle come pessimisti ‒ sebbene siano pur sempre pessimisti rispetto a qualcosa di specifico, che sia la politica, il potere, la conoscenza, il linguaggio, la storia, la salvezza finale o la vita stessa. Eppure ciascun* di questi pensatori e pensatrici (penso a Emily Dickinson e a Ildegarda) è confluit*, sotto forma di atmosfere, immagini e citazioni, nel pessimismo ‒ europeo, prima, mondiale, poi ‒ ammassandosi, producendo una sorta di “massa critica pessimista”.

Il pessimismo, in breve, si è tramutato in un archivio di saperi ‒ o, forse, di non-saperi, quasi-saperi, pseudo-saperi, e via dicendo. Un archivio ancora da spacchettare e analizzare. Una sorta di galleria degli orrori: orrori veri, verosimili, possibili e a-malapena-possibili, tutti rigorosamente inquadrati da una prospettiva negativa.

Di fatto, il pessimismo riesce a estrarre il peggio da qualsiasi cosa sulla quale riesca a mettere le mani. Se vi è un “negativo del negativo”, ad esempio ‒ un concetto di negatività davvero capace di mostrare a pieno la forza dell’annientamento, della morte e della catastrofe ‒ esso non si trova nella dialettica hegeliana (sempre soggetta a produrre novità e progressioni), ma nella dialettica hegeliana deturpata dagli allievi che il filosofo condivise con la sua nemesi, Schopenhauer.

Questo meccanismo, questa sorta di riflesso, è in realtà terribilmente importante ai fini della mia risposta, ne è il cuore.

Ma, per tornare in modo più diretto alla tua domanda, direi che il pessimismo è innanzitutto buffo, divertente, suggestivo e stimolante. È questo godimento speculativo mi pare già un’ottimo indizio di ottimismo.

In secondo luogo, per rispondere con maggior serietà, ti porrei un’altra domanda: a cosa mai può servire una galleria di catastrofi, di evenienze anche solo immaginabili, di farneticazioni?

Qui? Ora? Interamente radunate in questo angolo della galassia?

In quest’epoca il pessimismo può e forse deve tramutarsi in una cassetta degli attrezzi, capace di individuare, identificare, descrivere e manipolare situazioni di rischio esistenziale o anche meramente individuale o comunitario. Del resto, come ci insegna il realismo climatico, l’etica e l’epistemologia “del peggior scenario” sono due degli elementi che ci separano da una fine inevitabile (o desiderabile, a seconda dei punti di vista).

Si tratta, però, pur sempre di una “Suicide Squad”. L’obiettivo finale del pessimista è quello di persuadere se stesso e gli altri dell’orrore della vita ‒ emettendo un grido d’aiuto o, al contrario, una sequela di bestemmie e maledizioni ‒ non salvare il culo a qualcuno.

Sta perciò agli ottimisti ricavarne qualcosa.

Andrea: Mi è sempre rimasta impressa una frase, contenuta in un libro letto moltissimi anni fa e di cui adesso non ricordo il titolo, dove si sosteneva che il vero ateo, l’ateo perfetto, non esiste – quantomeno nella nostra società e nella nostra cultura: negare l’esistenza di dio non è la stessa cosa che vivere come se non esistesse, senza nemmeno prenderlo in considerazione. Non vorrei addentrarmi nella questione, ma il punto è che questa frase risuona con una delle più classiche accuse al pessimismo: “perché spendere tanti discorsi e tante pagine se questo mondo è detestabile e se nulla ha importanza? Non sarebbe meglio farla finita o, se incapaci a farlo, isolarsi nel silenzio e nell’immobilità?” È un’accusa comprensibile ma fuori fuoco, perché rivolta a un “pessimista perfetto” che però, al pari dell’ateo perfetto, non esiste. O meglio, il pessimista perfetto, come ha detto già Claudio, è un individuo che vive un corto circuito costante fra gli impulsi dei suoi geni e le suggestioni della sua mente; un catatonico, un folle, un dissociato (e del resto il pessimismo è in un certo senso la verità dei pazzi). Non necessariamente il pessimista perfetto è un suicida, anzi, spesso non lo è, anche perché non necessariamente la morte è preferibile rispetto a una vita detestabile: mi sorprese scoprire che in realtà i soggetti più a rischio di suicidio sono quelli in cui la patologia non è al suo stadio più grave, ma poi approfondendo l’argomento non mi sorpresi più; il pessimista totale vive abbacinato dagli orrori sul fondo dell’abisso, mentre per cogliere quella finestra di opportunità e impugnare le chiavi della propria prigione serve risalire un po’ più in su, approfittare di uno spiraglio di ottimismo.

Noi pessimisti imperfetti ci muoviamo in uno spazio simile a questo, dunque. Dovendo e volendo far fronte a tutte le cose indesiderabili che ci presenta la vita, organizziamo una prospettiva di azione e allora, esattamente come tu hai detto, il pessimismo diventa uno strumento, un filtro, che ha un nucleo fortemente positivo: significa cioè adoperarsi per ritrarre le cose nella loro vera natura, priva di veli, e poi magari qualcuno sarà in grado di realizzare un miglioramento effettivo, partendo da ciò. In questo senso, ho sempre trovato che il pessimismo sia imprescindibile come interpretazione del reale. A immaginare il worst case scenario non sempre ci si azzecca, ma di sicuro facciamo un’operazione utile – come a dire, “non è mai troppo presto per preoccuparsi”. È una proiezione ancorata nella realtà. Al contrario, immaginare miriadi di futuri ottimistici, sfere bianche da pescare magicamente dal sacchetto, può risultare inutile, dispersivo. I pessimisti funzionano in un certo senso da coscienza del mondo, una zavorra che richiama costantemente alla nave il suo peso e senza la quale, come diceva Schopenhauer, non si potrebbe navigare. E questo è specialmente importante nella nostra “società senza dolore” (come dice Byung Chul-Han), una società anestetizzata dove giochiamo a nascondere il dolore e la morte.

Poi, certo, se ci inseriamo sul piano etico, diventa cruciale un’altra domanda: un’azione che prende spunto da una visione pessimista, prenderà la direzione giusta? Questo è un campo d’indagine per me meno interessante, e diverso da quello che abbiamo esplorato nel libro, perché forse al cospetto dell’abisso decade anche una certa idea di etica, insieme all’integrità e alla coerenza dell’ente osservatore, del soggetto. Il valore del pessimismo sta anche nel suo essere non-programmatico, uno stupore bambinesco (leopardiano o lovecraftiano) di fronte alle atrocità del cosmo, un senso di comunione con il vivente che nasce dal riconoscere che il dolore del predatore è il medesimo della preda, come nello struggente Ultimo Messia di Zapffe.

Una foto di Peter Wessel Zapffe.

Qualcuno forse la troverà, come dicevamo, la via d’uscita, la soluzione, la sfera bianca. Ma non è necessario che ci sia. Qui ho usato termini come “detestabile” e “indesiderabile”, ma sono parole che vanno sfumate perché nel libro abbiamo anche studiato il punto di vista di chi ritiene che la vita umana, e pure quella non umana, debba estinguersi, con le buone o con le cattive; il punto di vista di chi non teme la morte e di chi teme il dolore così tanto che per imprimere significato alla vita vorrebbe cancellarlo per via biochimica, e sono tutte strade degne di essere percorse. Ed è possibile anche accettare il male e il dolore, dargli un nome, abbracciarlo, riconoscerlo come parte di noi e parte del tutto, rispettarlo. L’immagine più bella e vera del pessimismo, per me è una fotografia: il ranger di un parco africano seduto su un tronco insieme a un gorilla di montagna a cui i bracconieri hanno appena ucciso la madre, l’uomo che abbraccia l’animale mentre entrambi guardano in basso, gli occhi persi nel vuoto.

Quali sono i film, i libri, i dischi, i saggi che vi hanno influenzato per la stesura di questo libro?

Claudio: Direi che nel processo di stesura (sia quello “involontario”, nel corso del quale si sono accumulati i primi scritti che poi sono entrati a far parte della raccolta, sia in quello “volontario”), ci sono stati degli album, in particolare, che hanno fortemente “inciso”, diciamo, sul mio personale processo di scrittura.

Il primo è Coils of the Black Earth (2012), dei MAVETH, una mina blackened death finlandese proveniente dal roster della Dark Descent; uno dei saggi, “Le spire della terra nera” prende il titolo proprio da una traduzione letterale del titolo dell’album. Una delle mie strofe preferite dell’album, contenuto nel brano “Dragon of the continuum”, recita:

Constellations drown in darkness,

And a death veil is laid across the face of the earth.

The cycle ends and the old dragon cometh.

The earth quakes beneath the serpent

Falling form.

A thousand thousand mouths greet its coming,

with waiting hymns of lamentations,

As darkness coils around the earth.

Un vero e proprio manifesto di geofilosofia oscura, a mio parere.

Il secondo è, senza ombra di dubbio e piuttosto banalmente, De Mysteriis Dom Sathanas (1994), dei Mayhem. In particolare, come molti altri, sono rimasto affascinato, fin da ragazzo, dalla figura di Dead. Più in generale, si tratta di un album dalla freddezza impareggiabile. Assieme a Transilvanian Hunger (sempre 1994) dei Darkthrone, questo disco è confluito nell’idea secondo la quale sarebbe possibile ipotizzare l’esistenza di una “dimensione fantasma”: un piano di esistenza astratto, immateriale, essenzialmente negativo, dal quale i morti, le omissioni, le possibilità esauste e le impossibilità più terrificanti (le assenze, per dirlo con parole più semplici), sarebbero in grado di agire sul piano materiale ‒ quello abitato da noi esseri umani.

Un altro album che ha influito notevolmente sui miei scritti di questo periodo è stato Realm of Chaos (1989), dei Bolt Thrower, unitamente a tutto l’universo narrativo al quale è ispirato: quello di Warhammer 40K (definito, sul piano narrativo, dai romanzi di Dan Abnett ispirati al franchise). Sono rimasto molto colpito dalla metafisica radicale della guerra, della morte e della violenza che pervade questo mondo sci-fantasy ‒ espressa attraverso idee e immagini per certi versi affini a quelle delineate da René Girard nei suoi scritti dedicati al tema ma, in questo caso, ben più tangibili, anzi, direttamente esperibili sul piano immaginativo.

L’ultima sonic fiction che vorrei menzionare è esemplificata da un singolo brano dei Septic Flesh, “Lovecraft’s Death”, una piccola gemma di melodeath sinfonico dal gusto claustrofobico, nella quale H.P. Lovecraft finisce fagocitato dalla sua stessa opera (“You stared at the abyss/You’ll never rest in peace”, declama il testo della traccia). 

Tra i film direi sicuramente Ex Machina, di Garland, e Melancholia di Von Trier (che viene anche direttamente citato nel libro). In quel periodo ‒ due anni fa, circa ‒  ero anche un super-fan di Rick & Morty, almeno fino al tragico episodio di “Pickle Rick”.

Andrea: Nel mio caso alcune delle influenze sono esplicite, essendomi io occupato dai capitoli del libro più direttamente inerenti a fenomeni “pop”. C’è ad esempio un saggio dedicato a Bojack Horseman e Rick & Morty, due serie tv che ho amato e che hanno rappresentato un passo importante verso una direzione che vedo delinearsi già da alcuni anni. Nel formato televisivo pensiamo sempre alla prima stagione di True Detective perché ha sdoganato i grandi temi e i grandi autori del pessimismo filosofico contemporaneo nella cultura pop, ma ci sono anche altre sfumature e correnti più profonde. Ho l’impressione ad esempio che si stia passando dalla moda degli anti-eroi a qualcosa di diverso, potremmo chiamarli post-eroi forse. Per restare nell’ambito delle serie tv, pensiamo a tutti quei personaggi sullo stile del Dr. House che sono proliferati qualche anno fa: sono stronzi, spesso immorali, ma fighi, perché più furbi degli altri e magari motivati da buoni ideali – una certa versione prototipale è forse riscontrabile nel nichilismo di Tyler Durden, di Fight Club. Invece, Bojack è un personaggio irrecuperabile, che non ha nulla di buono e, in fondo, neanche nulla di interessante: la sua parabola è più triste che tragica. E Rick sembra pericolosamente vicino a quegli individui liminali che diceva Claudio, il pazzo illuminato che corrisponde al pessimista perfetto, e che nel suo caso diventa anche un virulento agente di distruzione. C’è una tendenza simile anche nella letteratura fantastica, ad esempio nel filone del grimdark. Chi lo coglie in maniera superficiale si concentra sulla scurrilità, sullo splatter, sul realismo crudo, ma c’è una vena più sottile. I romanzi di George R. R. Martin ma ancora più quelli di Joe Abercrombie, per dire i due nomi più celebri, sono popolati da individui sciocchi, smarriti, che sono privi di doti o, se le hanno, le pagano con altrettanti difetti. È un processo diverso, ma per certi versi parallelo, a quello che sul versante weird/horror ci riporta all’orrore cosmico di Lovecraft con Thomas Ligotti e alla allucinata accettazione del caos di Michael Cisco, ma ci sono anche ottime voci italiane e internazionali, a dimostrazione che il terreno è fertile. Trovo che ci sia molto Shakespeare nelle modalità del raccontare che meglio intercettano lo spirito del tempo di oggi, con un ribaltamento significativo; il suo “mondo di dardi e sassi” è diventato protagonista, e i personaggi sono pedine che tentano di barcamenarsi nella tempesta, che si risolva in commedia o in tragedia.

Ho scritto anche un capitolo interamente dedicato a un videogioco, NieR: Automata, e molti altri li ho menzionati di passaggio (la saga di Final Fantasy) o mi hanno accompagnato in diretta o in differita durante la scrittura (Shadow of the Colossus, Death Stranding, ovviamente Dark Souls, ma anche cose più bizzarre e sperimentali come The Stanley Parable e Doki Doki Literature Club, che a dispetto del nome e della veste, è un horror psicologico mascherato da dating simulator per pervertiti). Il medium videoludico è uno dei più attrezzati per esplorare il discorso intorno a cui si muove Blackened e inserirsi nel linguaggio mentale e fisico della disperazione, della depressione (penso a giochi indie come Limbo, Firewatch, Dear Esther o Gris, e in parallelo a un manga come Buonanotte Punpun) e trovo che nello specifico i giochi di game designer giapponesi come Hideo Kojima, Fumito Ueda o Yoko Taro riescano a realizzare una fusione particolarmente ispirata tra il modo in cui l’oriente e l’occidente guardano al male del mondo. L’immersività e l’interattività, con la sua componente esistenziale ed emotiva, sono una frontiera piena di potenzialità da sfruttare. Penso anche a The Last of Us 2, dove ogni pallottola pesa come un macigno, e l’esperienza del giocatore non può che partire da quel pessimismo imperniato sulla realtà di cui parlavo prima.

Anche nella mia parte di Blackened c’è molta musica, senza dubbio, seppure in modo meno esplicito rispetto a Claudio. Ai classici black metal che ha già citato aggiungo In The Nightside Eclipse degli Emperor, anch’esso contribuisce secondo me a formare quell’idea di dimensione gelida, inumana, spettrale che ci mette in comunicazione con il male puro. Restando sul genere, io ho sempre tratto molta ispirazione da gruppi come i primissimi Ulver o i Wolves in the Throne Room, perché il loro percorso e le loro sonorità parlano dell’inevitabile malignità e crudeltà insita nella natura, negli animali (uomo compreso), nelle zone buie di questo mondo – e della nostra mente – che dobbiamo esplorare senza la pretesa di illuminarle, perché è un’oscurità sana, sincera, vitale come tutte le zone ibride.



Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui Not, Il Tascabile, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.