Progetto #8.

CAPITOLO VII

Rapporto n° 392

Roma 26/12/2013

Operatore Epicuro Tre

Orario operativo:  dalle 18.05 alle 19.17

Software utilizzati: Wavetranslator 2.0

Laura è già un rimpianto sbiadito. Le troppe emo­zioni l’hanno grattata via piano piano trasformandola in una pic­colissima ulcera aspra nel fondo della me­moria. Chissà se la rievocherai qual­che volta, ma­gari a pri­mavera, quando gli odori riportano a galla, senza al­cun ri­chiamo cosciente, persone e fatti del passa­to. Ora c’è quella donna, la donna che sogni, quella che riunisce in sé tutto ciò che nelle altre era frammentato, o mancante. Se una aveva qualcosa che ti faceva per­dere la testa, si­curamente difettava in qualcos’altro. Per tutte è stato così. Claudia è la summa di ogni cosa che c’è di desiderabile nella persona che vorre­sti ac­canto. Ma ne sei proprio sicuro? La conosci a ma­lapena. Sí, ma per lei senti quello che non hai mai sentito prima. Un richiamo antico, come se fosse la natura stessa a volerti legato a quella donna. Poi ti viene in mente Francesco. Hai par­lato per un po’ con lui. Ti sentiresti proprio una merda ad intrometterti tra di loro.  Non è il genere di persona che ti piace,  ma è genui­no. Crede davvero in quello che fa, sembra avere davve­ro una missione.

La guardi per un attimo in volto, lei ti sorride brevemente e si rifugia in una serie di gesti che sembrano scara­mantici. Reclina il capo da un lato; si lega i capelli mostrando le ascelle; si sporge col petto. Sotto il tavolo noti un altro tic: si infila e sfila la scarpa.

Tu sai cosa significhino quei movimenti involontari, ma non fai nulla.

 Ti limiti ad osservare quella donna attraente, grazie alla sua buona dose di cultura e di buon­gusto nel ve­stire, dimenarsi e divenire sempre più scompo­sta nell’argomentare, preda di una strana febbre che la fa parlare velo­cissima. Con le mani frulla l’aria da­vanti a sé come a scacciare mosche ine­sistenti; ab­bozza un tema, ma dette quattro o cinque parole vi apre una pa­rentesi dopo l’altra e via via, a forza di subordinate, il soggetto diventa sempre più gassoso, per poi        sfumare nel calore della sala.
Ti ha mandato un sms, appena mezz’ora dopo averti chiesto il tuo numero di cellulare, e siete già, dopo qualche giorno di messaggini, al primo appunta­mento. La malafede te lo fa pensare un incontro artistico. Ti suona strano, però, che non ci sia il suo maritone con la faccia buona. Piomberà qui, come l’altra volta, nel bel mezzo della discus­sione, a fare sce­na muta, come un bambino che non si intro­mette in discorsi tra adulti?

Sei incollato al candore dei suoi denti. Luci­di, perfetti nel disegno e nella struttura. Le labbra non sono altret­tanto accattivanti, un po’ troppo sottili, forse, e all’ an­golo c’è uno sfogo di febbre, ma Claudia ha belli gli occhi: celesti e grandi, dotati di uno sguardo sincero, gravidi di sfacciata innocenza. Inoltre, giù in fondo, dove soltanto alcuni possono veder­e, un avvilimento senza quiete.
Al Pigneto, durante le feste natalizie, o da Luglio a Settembre, le case emanano una tristez­za simile a quella dei luoghi di mare quando è in­verno, delle case nel nulla di Second Life, dei co­lombari di Prima Porta. Vita e movimento sono talmente assenti che uno del centro o dei quartieri alti le pense­rebbe disabitate, se non fosse per lo sguardo smorto e vuoto di un vecchio, con le can­nule al naso, che si affaccia dal balconcino pieno di vasi vuoti, al rumore di un passo sconosciuto.
 La stessa tristezza è anche al Forte Fanfulla, quasi alla fine di una vietta squallida, arata tra due file di casupole condonate.
Questa è una sera come tante, sono più o meno le sei e mezzo di pomeriggio del giorno di Santo Stefano. Xavier è al tavolo di fondo con le cuffie sulla sua parrucca di riccioli sudamericani, rac­colti in una coda voluminosa da fricchettone. Il suo nasetto messicano si arriccia e ride a voce alta, illuminato dalla luce biancastra del  por­tatile, che lo fa apparire tale e quale a un qualche bassorilievo di Teotihuacan. Starà parlando con quel ritmo da Speedy Gonzales, via skype, con qualche suo connazionale.
Lei intanto sermoneggia, con la voce leggermen­te roca, blatera di diritti. Non  la segui, non su quel piano, come non ascolti più quelle cazzate che circolano nei vostri ambienti da sempre: il diritto alla cultura, la cittadinanza attiva, il bene comune, operare sul territorio… Parole d’ordine del secolo scorso, quando gli scrocconi pensava­no si potesse vivere gratis, girandosi dall’altra parte o facendo orecchie da mercante ad ogni voce che si levasse a far notare che il gratuito era in realtà pagato da qualcun altro, e sicuramente non da qualcuno ricco.

Il tizio che gestisce il negozio di stracci sul sop­palco sta sentendo l’Adagetto dalla Quinta di Mahler e tu non ascolti le parole di lei, ma solo questo tappeto di archi che te la fa apparire eterea e inafferrabile. Vorresti che le sue parole si trasformassero in questi accordi e la sua voce si facesse violini: maledici la natura che non sia così.
Delio, il barman, fissa davanti a sé il silenzio. Lo sguardo incallito verso la parete bianca, assorto nei cazzi suoi, sembra una statua di cera. È cala­brese, simpatico, con una bella risata sonora, bar­ba nera e, nonostante la precoce calvizie, somi­glia ad uno dei  bronzi di Riace. Stasera anche lui è triste. Fuori non piove, ma tutto è freddo e  de­solato.
Ti riattivi mentre Claudia ti sbircia, aspettando da te una risposta ad una sua qualche domanda di cui hai indovinato soltanto il suono del punto interrogativo. Alzi lo sguardo su di lei, al quale replica imme­diatamente lisciandosi il collo. Rispondi:

«Non lo so…»
Lei ti guarda nuovamente, forse con am­mirazione, o qualcosa del genere, e in­crespa le labbra in una smorfia di ap­provazione. L’ Adagetto ora è finito. Si spande un silenzio d’ascensore.

Di solito sei in grado di gestire i si­lenzi. A volte li riempi, a volte volu­tamente li lasci vuoti. In ogni caso non ti spaventano. Dopo anni passati ad interro­garti, ad im­mergerti continua­mente dentro di te, sei riusci­to a tro­vare un modo per non farti sopraffare dall’imbarazzo del momento. Il più del­le volte ti senti centrato, stabile nella tua ottusa compatezza da minera­le. Magari è sol­tanto l’avan­zare de­gli anni che ti da questa cal­ma da defunto. Ecco sì, la calma di chi ha la certezza di  non mo­rire poiché è già mor­to.

Ma oggi pomeriggio, qui al Forte Fan­fulla, quel­la calma si è andata a far fottere e questo lago piatto che le mo­stri è soltanto recitazione.

Ti è arrivato quel suo messaggino due ore fa: VADO A BERE UN BICCHIERE AL FORTE. VIE­NI?

L’invito insolito di questa bella figa, ti scombussola. Finora non è  mai stata così calorosa, anzi, sembrava addirit­tura ostile nei tuoi confronti. Eppure nei gesti e nelle parole in quest’ulti­mo periodo ti è sembrato di notare una sensuale cordialità nella sua condotta, qualcosa che ti fa credere che se lei fosse momen­taneamente confusa potrebbe di­ventare la tua aman­te e questa cosa ti eccita come un deficiente.

Però, il suo maritone gentile ti è sim­patico e non vorresti essere l’artefice della sua infeli­cità futura, soprattut­to  perché non ti piac­ciono i tradimen­ti e ti ripugna anche solo l’idea di prova­re turbamento a que­sta idea fango­sa.

Non dovresti essere qui, ti ripeti. Non saresti dovuto venire.

E cerchi di far tacere quel turbamento che ti pro­voca proprio lo stare lì, l’ essere presente e pun­tuale all’appunta­mento, cercando di sosti­tuirlo con una quiete da innocenti, come se ti ci tro­vassi per una questione di cortesia. Per un atti­mo sembra quasi  funzionare e ti senti rilassato, ma ba­sta butta­re un’ occhio a quel salone, che è la sala in­contri del Forte Fanfulla, per ritrovarti subito nel­la stes­sa con­dizione di prima, se non addirittura più tur­bato.

Una sala rettangolare con il pavimento verni­ciato di rosso bordeaux, così come lo zoccolo alto che si staglia per ol­tre un metro sulle pareti bian­che; bor­deaux sono anche le poltroncine, che sotto­stanno al soppalco dove vendono abiti usati, e sembrano suggerire un sa­lottino tetro e un po’ equivoco. Sem­bra il set ci­nematografico di un film porno, anche se, nelle in­tenzioni di chi l’ha progettato sembra esserci la vo­lontà di creare un posticino per cop­piette, tutto baci e carezze co­mode e mor­bide, mentre appare, in realtà, un posto ap­partato per cocainomani da bet­tola, con quel tavo­lo da tè dell’ Ikea buttato lì nel mez­zo, nero, ideale per acchittare le strisce di bianca. La pa­rete alle spal­le di lei, invece, è oc­cupata da un’enorme libreria bianca, stile sezione del PCI, con una sfil­za di libri di case edi­trici minori e au­tori sco­nosciuti. Questo stanzone, pro­prio per le sue fat­tezze, sembra sugge­rire l’idea che Claudia si po­trebbe far corteg­giare da te, e che proprio lì, ma­gari sulle pol­troncine, si potrebbe  abbandonare al tuo primo bacio. Sono già tre giorni che hai cominciato a fare ginnastica e a mangiare minestron­i. Il pane lo hai eliminato, i lattici­ni pure. Ti senti in forma, anche se, nudo allo specchio, ti fai ancora schi­fo. Ma cominci a riacquistare una cer­ta sicurezza. Insomma, tutto qui dentro sembra riportarti alla mente, in modo martellante, quel maledetto messaggino.

Poco fa mentre l’aspettavi, avevi già pensato tut­to questo, ma ti sembravano fantasticherie sce­me. L’invito è sol­tanto per far quattro chiac­chiere tra una regista e un musicista, ti sei det­to. Per scam­biarsi idee, o for­se per­ché, vorrebbe affidar­ti le mu­siche del documentario che sta girando, ma poi senti aprire la porta metallica nell’altra sala dove c’è il bancone del bar e dopo tre secon­di appare lei. La malafede.

Ha un montgomery blu, i capelli leg­germente raccolti in una coda di cavallo, lo sguardo basso e un’andatura che non sai decifra­re. Ti saluta a malapena, sembra quasi che le di­spiaccia di trovar­ti lì. Rimani sedu­to e la saluti, con un sorri­so storto.

«Che hai fatto? Sei giù?»

Lei sorride, come a dire che non ce l’ha con te.

«Sì… il lavoro. Due palle. Questi stronzi della trou­pe pensano di coman­dare chiunque…»

Si siede. La ammiri e lei ti fissa, poi le parte il tic della scarpa. Lo sguar­do sembra essere da qualche altra par­te, anche se è bloccato su di te, e quella sua alterigia ti rispedisce ai vostri pri­mi in­contri, all’ inizio di questo vostro matrimo­nio ocula­re, quando ti sentivi in soggezione. Ora di nuo­vo quel guardare assente, da depressa, ti fa venire vo­glia di dissolverti per ritrovarti in un qualche prato­ne della Val D’ Aosta a respirare aria pura.

«Ma non parliamo di lavoro» ti dice, mentre ini­zia a rollarsi una sigaretta.

Tu resti muto. Non hai nulla da dire e ti senti gof­fo, trenta chili più pesan­te, non sai dove met­tere le mani. Ti rolli una sigaretta anche tu.

«Andiamo a fumare» le dici e ti alzi. Ti segue e sie­te in un attimo nel cor­tiletto semibuio stile pe­nitenziario. Fa freddo, ma è come se fosse più facil­e re­spirare, anche se l’odore che serpeggia è quello di muro rancido. Ti senti più a tuo agio, tant’è che su­bito le poni la geniale domanda:

«Come va?»

«M’annoio» risponde, senza neppure guardarti.

Senti una vampata d’ indignazione inva­derti la fac­cia, ma con un’ aria da es­sere superiore ribatti:

«Sì, lo so, non sono uno di quelli che…»

«Non ce l’ ho con te. M’ annoio. In ge­nerale.»

«Beata te» replichi alzando le soprac­ciglia «Io sof­fro d’ansia. Pagherei oro per barattare l’ansia con la noia»

«C’ho pure l’ansia» dice con gli occhi incolla­ti a terra.

«Beata te, che sei così ricca. Non ti manca nien­te…»

Alza lo sguardo su di te e sorride. Ri­cambi con un sorriso sbilenco e distog­li lo sguardo, anzi butti gli occhi a terra, li lasci lì, vicino al tombino, di­menticandoli.

I suoi sguardi, così dilettanteschi… sguardi di una che ha perso troppo tem­po ad avere occhi solo per il proprio fidanzato, che ha speso troppi anni buo­ni senza vedere nient’ altro che l’oggetto del proprio amo­re.  Sembrano innocenti, talmente sono igno­ranti. Bè, proprio quegli sguardi ti met­tono in sog­gezione, proprio quegli sguardi ti han­no fatto cade­re in questa trappola in cui ti senti smarrito.

«Infatti, non mi manca niente» fa lei. «Faccio una vita ideale. Lavoro, due volte alla settimana esco di sera, ma gli altri giorni rimango a casa e vedo film in continuazione, leggo molto; ogni tanto scri­vo. A casa sto be­nissimo, anzi è l’unico posto dove mi trovo. Sono un po’ sociopatica. Come ca­volo fai tu, a stare tutti i giorni fuori casa? Sei fortunato…»

Ma che cazzo ti sta dicendo questa qui? Lei, una vita ritirata? Ma di che par­la? Mente, è chiaro. Que­sta non rimane a casa neppure per mezzo se­condo. Sta­rà sempre in mezzo ai cinematografari, alle loro fe­ste… oppure no?

«Chissà perché, invece, credevo che tu fossi una fe­staiola. Una di quelle che vedi a tutte le prime, che va a Venezia quando c’ è la Sagra del Cine­ma, insomm­a, una che si dà da fare…»

«Una gatta morta?»

Ti sta guardando ansiosa, e forse con un filo di speranza nelle sopracciglia.

«No, non proprio… Più che altro una di quelle con cui non vado d’accordo.»

«Tipo?»

Non puoi rispondere “una chiagn’ e fotte”, cioè una di quelle che chiede diritti per tutti e pensa solo ad otte­nere quello che piace a lei. Se ne an­drebbe  via  e questa è l’ultima cosa che vorresti, nonostante tutti i tuoi buoni propositi da bravo ra­gazzo. Eh, sì. Vorresti scappare per toglierti da quel­l’atmosfera carica di tensione ses­suale, mor­bosamente fedifraga, ma, allo stesso tempo, non sop­porteresti che fosse lei ad abbandonare il campo.

«Aspetta, ricapitoliamo. Noi abbiamo parlato due volte soltanto, in maniera approfondita, e tutt’e due le volte siamo arrivati ai limiti del litigio. Insom­ma, io non penso di esserti così simpatico…»

Lei ti guarda come se le avessi appena diagnosti­cato il cancro e dopo essersi tolta e rimessa la scarpa,ti ribatte:

«Ma che cazzo dici? Ti pare che t’invi­to qui, per vederci io e te da soli, se mi stai anti­patico? Guarda che se ci siamo scal­dati, quelle due volte, è perché volevo controbat­tere con tutte le for­ze cose che per me sono vita­li, ma non vere. E tu le stavi fa­cendo a pezzi, sbattendomele in faccia per quello che sono vera­mente. Mi fai in­cazzare, ecco. Però non sono una femmi­nella scema. Insomma, io non ti ho mai sentito pro­nunciare una parola genti­le…»

Si sta accalorando sempre di più, le sue dita si agitano come marionette e il viso è rosso. Delio apre la porta, ti sorride complice uscendo e abbassand­o lo sguardo se ne va via a capo chino con il bustone dell’immondiz­ia in mano. Lei si è bloc­cata. Tocca  a te rompere il silenzio rit­mato dai passi di Delio che si af­fievoliscono.

«Quindi, pensavamo di esserci antipati­ci e in­vece non è così…» dici con voce bassissima

«Pare di no…»

Lei alza il viso verso di te, poi guar­da di lato e riabbassa la testa.

«Ma se eri così con­vinto che non ti po­tessi soffrire e se pensavi che io fos­si una di quelle che ti stanno sulle pal­le, per­ché sei venuto a quest’appunt­amento?»

«Ma se mi percepisci come uno spocchio­so, scorte­se, e tu invece sei quella con una vita idea­le e per­fetta, a cui non manca nulla, neppure l’ ansia e la noia, perché mi hai invitato ad un ap­puntamento a due?»

Vi state parlando col viso contratto in una mal­celata risata, non perché siano divertenti le cose che vi state dicen­do, ma soltanto perché avete dentro un’euforia che a malapena riuscite a doma­re e il corpo attraverso i muscoli della ri­sata sta pren­dendosi la sua ri­vincita. I vostri cor­pi si ven­dicano. La guardi con gli occhi sgranati e un sor­riso ebete, da felice, stampato sul­la fac­cia; lei è il tuo spec­chio, uno specchio che ti pone do­mande:

«Senti, ma invece di ribattermi ogni cosa, non senti il dovere di dire  una cosa carina ogni tanto?»

Quanto è romana! Simpatica da morire. Si sta mordendo il labbro infe­riore e ti sorride.

«Sì, forse hai ragione» le rispondi, «ma non so fare complimenti…»

«Provaci, magari vinci un premio…»

Improvvisamente senti un’ odore parti­colare ma piacevole: è lei.  Siete perfettamente sintonizza­ti. Il suo cor­po produce segnali da inviarti, ti sta chie­dendo di essere baciata. I segnali che lei manda sono ricevuti dal tuo. Ha occhi da preda in trappola, il respiro accelerato. Baciala, onora que­sta macchina sgangherata che è il cor­po umano, ri­prenditi ciò che c’è di tuo dentro di lei e ricambia con quello che di suo è in te.

«Ok… L’unico complimento che saprei farti è que­sto…» dici avvicinando il viso a lei.

Le facce ora sono serie e tutto si è fermato ad aspettarvi. Dalla sua bocca l’odore di chewing gum. Anche la Terra è ferma, in attesa di que­sto nuovo amo­re che vuole sgorgare.

Lei china leggermente il capo, per schivare il naso e accomodarsi al bacio e ti frana addosso, ab­bandonandosi, in maniera del tutto inaspettata, tan­t’è che perdi l’equilibrio e ti verrebbe da ridere se non fosse che le tue labbra adesso sono bloc­cate in un bacio dutti­le, al sapore cremoso e dol­ciastro del suo rossetto. Si adatta bene alla tua bocca, la sua bocca, passata improvvi­samente allo stato liquido o fluido, non sai bene: sei immerso in un budino alla menta. Le poggi una mano sul fian­co e lei scatta, inarca la schiena, spinge il suo pube contro il tuo e il bacio diventa fe­roce, ti morde i denti e sputa fiato rabbioso dal naso, come un drago.

Delio, proprio in quel momento arriva. Tu lo vedi rimanere fermo e il suo sguardo da dio greco in­crocia il tuo. Trattiene una risata. Lei ha sentito che qualcosa non quadra, si stacca. Il barman vi passa accanto come se nulla fosse e rientra nel loca­le. Lei ti sor­ride con occhi luminosi.

«Grazie, era un bel complimento. Da te non me l’a­spettavo»

Le sorridi. Ti da un altro bacio, pic­colo come un sorso d’acqua. E, con una faccia bambinesca che non le avevi mai visto fare, ti dice:

«Vado un attimo in bagno»

Poi ti prende il viso tra le sue mani, lo avvici­na al suo non per baciarti, ma per fissarti ne­gli oc­chi.

«Non te ne devi andare, devi aspettar­mi. Ok?»

Le fai sì con la testa e lei di nuovo:

«Cosa vuoi per cena? Ho del pesce spa­da a casa: vieni?»

«E Francesco?»

«È fuori Roma per lavoro. Tutta la set­timana»

Vorresti andartene e lei lo capisce. Si picca di ri­battere, leggermente altera­ta:

«Guarda che non vado col primo venuto, né vado con qualcun altro se sono inna­morata. Io non tra­disco» e aggiunge ra­pida «Tra me e Francesco è fi­nita da un pezzo. Lui ha un’ altra, lo so. Abi­tiamo soltanto insieme, perché dopo dieci anni, tutto quello che possiedo è a metà con lui, e non parlo solo di beni materiali. Ades­so fammi andare, che me la sto facendo sotto!»

Rientra con una corsetta da pipì. Rima­ni lì al freddo come un coglione. Non sai cosa fare. En­tri anche tu. Arrivi al bancone, Delio ti sgrana gli oc­chi e sbotta a ridere silenziosamente, tenen­do una mano davanti alla bocca. Tu ri­spondi con una risata con la bocca all’ingiù, come a scusarti. Ritorni in sala. Dal soppalchetto arriva la “Pa­vane” di Ravel. Il tuo sor­riso si blocca di col­po. Sei lì, al Forte Fan­fulla, nel giorno di Santo Stefano e ti accingi a fare il tuo pri­mo tradimento della vita, con la donna che hai desi­derato più di tutte le altre che hai mai conosciu­to. Decidi che è ve­ramente trop­po. I secondi passa­no,  i minuti pure. Lei non si fa viva. Sghignazz­i. Forse le è ve­nuto un attacco di diarrea!  La immagi­ni piegata sul vaso a scacazzare nervosamente tutta la ma­gia del primo incontro. Ah, sarebbe un bel modo di uscire da quella situazione penosa! Un de­stino di merda. La Pavane è finita, ma lei ancora non ri­compare. E se ti avesse lasciato lì? Còlta da ri­morso improvviso è fuggita a casa a piangere sulla foto del buon France­sco… Ma sì, sicuramente è solo per ripic­ca verso di lui che ti ha invita­to; è solo la rivalsa di una ragazza tra­dita che ha fatto iniziare questo vo­stro matrimo­nio oculare e che dura ormai da più di due setti­mane; tu sare­sti mol­lato subito dopo l’atto orren­do che fra poco compirai e di cui ti pen­tirai come uno stilita.

Ti alzi e ti avvii verso i servizi, la trovi legger­mente ricurva sul la­vandino nell’ anti bagno, in­daffarata a passar­si l’eyeliner. È stretta nelle sue spalle e trema leggermente. Anche il montgome­ry è un po’ scarso per questo freddo. Ti sorride

«Ancora un secondo e andiamo. Scusami, ma sono paranoica su queste cose. Non vorrei co­minciare male, tutto deve es­sere in ordine.»

Rimani muto, ti strofini leggermente l’occhio si­nistro anche se non vorresti farlo, ma lei lo nota e la faccia le diventa un punto interrogativo. Ora o mai più.

«Senti, Claudia… Io non me la sento… Tutto così in fretta. Secondo me, stai facendo una cazzata e io non vorrei esserne l’artefice, tanto meno il compli­ce. Ho il dovere di dirte­lo…»

Lei sta per interromperti, ma tu le apri i pal­mi delle mani davanti al viso.

«Lasciami continuare…»

«Ma che cazzo devi continuare, stronzo? Mi hai pre­so per una cretinetta, che, appena il maritino se ne va per lavoro, si porta a letto il primo venuto per sen­tirsi corteggiata o amata da qualcu­no? Bè, vaffan­culo, non mi sceglievo un coglione come te! Ma ti sei vi­sto? Ep­pure ce l’hai qualche annet­to, eh?  Sono io che ho iniziato a  parlarti, io, a chiederti il numero di telefono, io, a chiederti il primo appunta­mento! E che fa questo stronzo? Si sente in col­pa e addirittura mi fa la paternale! Ma spari­sci, te­sta di cazzo!»

«Sì, ma sei tu, quella che non ha una situazione chiara; sei tu che non sei padrona della tua vita; sei tu che, grazie alla tua condizione, disorienti il prossi­mo con i tuoi atteggiamenti ambigui…»

Una vampata calda sulla guancia inter­rompe la tua arringa difensiva. Ti ha mollato un ceffone e se ne sta andando via, a passo veloce, con la te­sta in­saccata nelle spalle. Provi a raggiun­gerla, al­lunghi una mano e tenti di prenderle il braccio, ma lei con uno scarto ti manda a vuoto e affancu­lo. Esce, la porta si richiude. Rimani lì, con le braccia distese lungo i fianchi. Ti giri verso il bar. Delio fa finta di niente, è affaccendato. Ti avvicini, rag­giungi il ban­cone, una risata di Xa­vier arriva dall’altra sala, ti poggi. Nel silenzio che sa di minestrone, Delio ti porge un pastis.


Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.