Iperdenti. Episodio 13. Questa casa.

Romanzo suddiviso in tre parti: AltroveHuper Vision e Iperdenti.

Genere: Fantascienza di Borgata

Il romanzo, ambientato a Roma Est, all’interno di un centro di scommesse sportive in prossimità di borgate periferiche, e scritto in prevalente accento romanesco, nel titolo allude a un gioco virtuale, nel quale vengono risucchiati i personaggi. Tean, Aida, Juri e Tim non sanno tuttavia di essere intrappolati all’interno di quel gioco, in cui accadono eventi incomprensibili. Nel gioco si sviluppa infatti la misura stessa della tridimensionalità, che gli è connaturata, per abbracciare altre dimensioni: mondi filiformi, in grado di generare altre realtà, tutte distorte. Così, nei pensieri e nelle azioni i personaggi saltano da uno stato all’altro, senza rispetto delle regole temporali. L’incomprensibilità delle azioni è frutto della logica del gioco, che invade la loro coscienza; e proietta il presente, che i personaggi vivono o credono di vivere, verso una deriva onirica e ferocemente surreale. Si tratta di un romanzo ciclico che nella sua struttura riproduce le gabbie virtuali che sono parte della condizione odierna.

Immagini da: (H)earth di Sante Simone, collage digitale, 2020 

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La casa è vuota. Sono rimaste due sedie, tre letti, la spazzatura e la tv a cavo catodico. La stessa tv che mia madre ha portato due volte in questa casa. Due volte ha fatto i quattro piani, a piedi, senza sgocciolare mai. Quella tv ora è lì, senza segnale. Il telecomando in cima alla sua testa, in attesa di essere riattivato. La casa mi sembra molto più bella, ora che è vuota. Gli oggetti non erano di sua misura. La polvere che respiravano i mobili, le scarpe sparse, i piatti sporchi, il frigo vuoto, le porte rotte: una casa decadente. Ora è molto bella. Non ho mai fatto una pulizia così profonda fino ad oggi, l’ultimo giorno di permanenza. Mia madre schiamazza e si lamenta della mia lentezza. È così vogliosa di andar via, di ricominciare a vivere da un’altra parte, di lasciare il vuoto. Io non lo sono. Nonostante abbia odiato questa casa, nei giorni di pioggia, giorni segnati dai vomiti di mio padre, la puzza d’alcol, le liti, i pianti, le cene di famiglia, le fughe di mia madre… Oggi la amo, questa casa. Forse perché la sto abbandonando per sempre, insieme a tutti i ricordi. I momenti di isolamento, di creazione, di implosione, di esplorazione, hanno fatto sì che io crescessi dentro questa casa, quindi la amo. Non credo di essere adulto, ancora no, ma sento di essere un uomo che viene mosso dalla paura. La paura: la leva che fa circolare il sangue nelle vene. Attacco la spina alla presa, prendo il telecomando nelle mani rosse per via dell’acqua fredda, e clic. Lo schermo è dominato dalle solite mosche nere e grigie sparpagliate un po’ a caso, e le righe orizzontali che tagliano gli angoli. Un po’ ipnotizzato dal movimento armonico delle forme, fisso un punto preciso, il centro. Un punto comincia a crescere piano piano fino a diventare una specie di grotta, dove si definisce una profondità di colore grigio opaco. Cerco di contrastare con il telecomando. Improvvisamente si colora tutto. Mi sembra strano, perché la tv non è a colori. Non riesco a capire. Mi avvicino di più allo schermo e vedo che appare il viso di una donna con una bellissima bocca. Il rossetto arancione si staglia imponente al centro dello schermo. Le mosche, ora rosse, definiscono le linee del volto. Le righe verde acqua cascano come pioggia sulla pelle virtuale della donna. Gli occhi sono chiusi. Chiudo gli occhi per riflettere, nella speranza che quando saranno aperti quell’immagine sia sparita. Riapro. La bocca ora è un sorriso, come quando si dice a 36 denti, infatti li conto, sono 36 (strano. Di solito una bocca ne contiene 32). Mi avvicino ancora di più per controllare se li ho contati bene, ma identifico delle lettere. Ogni dente ne contiene una. Mi sembra che sia un alfabeto. Non credo sia quello italiano, perché i denti qui sono 36. Allora conto uno ad uno i denti cercando di comporre l’alfabeto, ma le lettere non sono in ordine alfabetico (eh eh eh). E sono tante lettere. Non ho mai visto così tante lettere nella mia vita. Ecco la A, la B, la C, una Zeta vicino a una H, una X vicino a una H, una l vicino ad una l, molte doppie lettere. Mentre cerco di identificare, dalla bocca esce un pennello colorato. Un assolo di chitarra in delay accompagna il movimento del pennello, che si appoggia sul dente incisivo e lo gratta. Al posto della lettera J appare un minuscolo viso che piano ingrandisce. È il mio.

– Juri! Hai preso la tv?

La voce di mia madre mi deconcentra.

– Ora la prendo.

– Sbrigati – dice spazientita.

– Un attimo!

Mi giro verso la tv, ma è spenta. Cerco di riaccenderla ma niente, nessun segnale.

– Juri, non perdere tempo! Dobbiamo andare!

Rassegnato, prendo la tv e mi dirigo verso l’uscita.

– Hai bisogno di aiuto?

– No, ma’! Ce la faccio!


Jonida Prifti, poeta/performer e traduttrice dall’albanese all’italiano e viceversa, nata a Berat (Albania) nel 1982, è emigrata in Italia (Roma) nel 2001. Tra le pubblicazioni: Non voglio partorire…(Alfabeta2);  Ajenk (Transeuropa); il saggio Patrizia Vicinelli. La poesia e l’azione (Onyx); Rivestrane (Selva) etc. Nel 2008, con Stefano Di Trapani ha fondato il duo di poetronica “Acchiappashpirt”. Insieme organizzano, dal 2010, il festival annuale romano di poesia sonora “Poesia Carnosa”.  www.jonidaprifti.com