Il bronzeo fragore dei cimbali e la dolce lira di Orfeo.

“Allora Afrodite, la più bella tra le dee,

fece risuonare per la prima volta

la voce sotterranea dei cimbali di bronzo […]

Scoppiò a ridere, la dea…”
[Euripide, Elena]

“La grotta chiamata Coricia […] presenta alla vista verdeggianti boschetti pendenti tutto all’intorno dalle rocce e tutta se stessa abbraccia coi selvaggi fianchi. […] Come si è pervenuti al fondo, ecco aprirsi un’altra spelonca. Chi vi entra è atterrito dal suono dei cembali scroscianti per virtù divina con grande fragore.” [Pomponio Mela, Geografia (De Chorographia, I, 13)]

Mi sono imbattuto in un riferimento a questo brano della Geografia di Pomponio Mela sfogliando le pagine del Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile di Karol Kerényi. Il rimando di Kerényi non è propriamente letterale:

“Il geografo romano Pomponio Mela pone chiaramente in evidenza il carattere dionisiaco di uno di quei crepacci [le grotte di Coricia, n.d.a.]: chi mette piede nel fondo di una grotta interna, sente i cimbali, gli strumenti bacchici di un invisibile corteo divino.” [K. Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile]

[Agrigento. Cimbalo mammelliforme dall’area sacra del santuario delle divinità ctonie, VI-V sec. a.C.]

Nel testo del geografo non pare evocato nessun corteo divino. Probabilmente però, è il solo richiamo al “fragore dei cimbali”, immancabile in ogni evento cultuale legato alla sfera ctonia che permette al mitologo ungherese di introdurre nella scena l’immagine di “un invisibile corteo divino”. Incuriosito dal richiamo agli strumenti bacchici per eccellenza, tento di approfondire l’argomento aprendo un testo dedicato agli strumenti musicali dell’antichità, Strumenti musicali e oggetti sonori nell’Italia meridionale e in Sicilia di Angela Bellia. Nel primo capitolo dedicato proprio ai cimbali trovo un breve aneddoto che mostra qualche affinità con quello di Pomponio Mela citato da Kerényi:

“Un riferimento alla funzione degli strumenti a percussione […] è offerto da Aristotele. Egli narra di una tomba prodigiosa a Lipari presso la quale di notte si potevano sentire in forma distinta l’eco di tamburelli e di cimbali e di risate accompagnate da strepiti e suoni di crotali.” [A. Bellia, Strumenti musicali e oggetti sonori, corsivo mio]

Che Aristotele si sia baloccato con la ricerca di aneddoti riguardanti “tombe prodigiose” mi sembra un po’ improbabile. Il rimando testuale è al De Mirabilibus Auscultationibus, raccolta redatta probabilmente da “aristotelici”, ma difficilmente attribuibile allo Stagirita. Poco conta. Il titolo della raccolta è molto indicativo però, De Mirabilibus Auscultationibus potrebbe essere tradotto in italiano “Di meravigliose audizioni”. Il titolo sembra prestarsi molto bene al contesto aneddotico dei due riferimenti. Sia in Pomponio Mela che nello Pseudo Aristotele, infatti, si viene, in modo un po’ inquietante se vogliamo, colpiti dal fragore bronzeo dei cimbali e dagli strepitii che sembrano percorrere i luoghi sotterranei. Che vi sia lo “zampino” del vento in entrambi i contesti non mi sembra implausibile. Basti pensare che la grotta di Coricia è una delle ambientazioni della mitica lotta tra Zeus e il drago Tifone (nome non casuale per questo mostro), mentre la tomba prodigiosa è situata a Lipari, nelle isole Eolie, cioè “a casa del vento”. Potrebbe darsi che il vento attraversando con veemenza le cavità dei luoghi sotterranei si faccia suono e voce degli dèi sotterranei, suono e voce molto simili proprio al fragore dei cimbali. Tuttavia mi sembra una spiegazione troppo positivistica e insoddisfacente che lascio subito cadere. 

Antichi cimbali sono stati ritrovati nelle necropoli delle popolazioni protostoriche della Basilicata, della Calabria e della Sicilia. Il ritrovamento più interessante è, forse, quello avvenuto ad Agrigento nell’area sacra del santuario delle divinità ctonie. Anche ad Atene sono stati ritrovati dei simili esemplari recanti dedica votiva per Core e Atena. Che tali strumenti abbiano una rilevanza fondamentale nei contesti rituali legati a divinità ctonie è comunque attestato da tutte le fonti. La “voce bronzea e sotterranea” dei cimbali è legata a doppio filo con le divinità del mondo sotterraneo, con i rituali agrari e con i culti funerari. Essa accompagna i misteri della morte e della rigenerazione della natura dal grembo della terra. Lo stesso mondo sotterraneo, prima di essere ridotto da Omero e da Esiodo a luogo di pena e di giudizio era associato a immagini d’abbondanza, ricchezza e fertilità. In Arcadia si celebravano rituali in onore di Demetra Kidaria nei quali il sacerdote batteva con una verga gli Inferi -, cioè percuoteva il suolo. ‘Kidaris’ era anche il nome di una danza propiziatoria per la fertilità dei campi. Il rituale era probabilmente legato al mito del ritorno di Persefone sulla terra e a cimbali e timpani era affidato il ritmo delle danze che mimavano “la ripetizione rituale della corsa di Demetra alla ricerca di Persefone al suono degli strumenti sacri.” [A. Bellia, Strumenti musicali e oggetti sonori]

Nei rituali e nei culti legati alle divinità ctonie echeggiava, dunque, la celebrazione della morte e della tumultuosa rigenerazione, l’identificazione immaginativa e analogica della sfera umana con la vita delle rocce, delle maree, delle piante, degli alberi, degli animali, con tutti gli esseri dimoranti nel ventre della terra. Scrive Kerényi:

“Alle   nostre  sicure  cognizioni intorno ai misteri eleusini appartiene appunto quella che i partecipanti ai misteri si identificavano con Demeter […] Non si tratta di ‘figliolanza di Dio’ bensì di ‘maternità divina’. L’iniziato entrava in Demeter, poiché agiva come la dea adirata e rattristata: digiunava e beveva del kykeon […] Nei misteri di Eleusi ognuno che parlasse greco e fosse puro di ogni peccato di sangue, poteva essere iniziato: uomini e donne ugualmente. Anche gli uomini entravano in Demeter, anch’essi si identificavano con la ‘Dea’. Riconoscere questo fatto è il primo passo sulla via della comprensione di ciò che accadeva in Eleusi. Vi sono dei documenti, dai quali risulta che l’iniziato si considerava come una dea e non come un dio.” [K. Kerényi, Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia]

Una celebre attestazione letteraria del rapporto tra i cimbali e la sfera cultuale dei misteri eleusini, incentrati sul mito del rapimento di Core/Persefone nell’Ade, è rintracciabile in una tragedia di Euripide, l’Elena. Nell’antistrofe I il coro canta il dolore e la collera di Demetra per il rapimento di sua figlia:

“E nella morsa del dolore

 si getta sulle rocce, sugli alberi, sulla neve,

 e non fa più fiorire per i mortali

 le pianure inaridite della terra,

e devasta la stirpe degli umani,

non manda alle greggi

pascoli fiorenti di foglie rigogliose.

Deserte di vita, le città.

Non più sacrifici agli dei,

e sugli altari non ardono le offerte.

Prosciuga le fonti ricche di acqua limpida:

diventa demone vendicatore

per lo strazio della figlia.”

Nella strofa II della tragedia si narra di come Zeus, costretto a porre rimedio alla terribile situazione invii le Cariti, le Muse e Afrodite per tentare di mitigare l’ira della Dea. È in questo frangente che fanno la loro comparsa i cimbali:

“Allora Afrodite, la più bella tra le dee,

 fece risuonare per la prima volta

 la voce sotterranea dei cimbali di bronzo

 e il timpano di cuoio teso.

 Scoppiò a ridere, la Dea…”

Il riferimento all’Elena di Euripide è prezioso per più di un motivo. Anche in questo caso, in effetti, i cimbali esprimono la voce del mondo sotterraneo. Ma non solo. In questi versi veniamo messi a parte della materia di cui questi strumenti a percussione sono fatti: il bronzo. Riferimenti all’uso per scopi rituali dei manufatti in bronzo sono reperibili nel testo già citato Sugli strumenti musicali antichi:

“Il suono delle bacinelle bronzee, così come quello prodotto dai cimbali di bronzo, in particolare quelli che si urtano per azione del vento, poteva assumere anche un ruolo attivo nella divinazione. È probabile che il riferimento alla percussione del bronzo sia relativo a singoli colpi nettamente definiti, che non si esclude potessero essere prodotti […] anche dai cimbali. A questa particolare azione sembrerebbe rimandare pure la testimonianza del commentatore a Teocrito, che cita Apollodoro. L’autore […] spiegando gli effetti catartici del bronzo, […] evidenzia anche come il suo suono sia appropriato al distacco. Della sua capacità di prevenire o di scacciare gli influssi malefici era convinto anche Porfirio, secondo il quale, dal bronzo percosso scaturiva la voce del demone intrappolato.” [A. Bellia, Strumenti musicali antichi]

Non sono pochi i miti di area greco-cretese nei quali è ravvisabile il potere salvifico e catartico del bronzo. I più interessanti sono quelli legati all’isola di Creta dove vengono narrate la primissima infanzia dello Zeus ctonio e di Dioniso Zagreo. Sarà il caso di dare loro un’occhiata: 

“Rea, in procinto di partorire il futuro padre degli dèi e degli uomini, Zeus, si recò a Creta, per nascondere il bambino in una grotta del monte Aigaion, nei pressi di Litto. Rea attendeva l’ora del parto. Quando venne il momento previsto e incominciarono le doglie, essa, nella sua sofferenza, si puntellò con ambo le mani al suolo. Immediatamente dal monte, sul quale si era appoggiata in tal modo, sorsero tanti spiriti o dèi, quante erano le dita delle mani della dea. Questi esseri circondarono la dea, assistendola nel parto. Essi si chiamarono Dattili Idei, «dita dell’Ida», con riferimento al monte Ida e alle dita di Rea, ma venivano anche detti Cureti o Coribanti. […] Il nome Cureti significava giovani, di solito tre di numero, che avevano eseguito intorno al neonato di Rea una danza di guerra, armati di spade e di scudi. Con le loro armi di bronzo essi avevano fatto un gran rumore per coprire gli strilli del bambino, affinché Crono non li sentisse.” [K. Kerényi, Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia, cit. leggermente modificata]

In questo riferimento incontriamo una versione del mito che narra la nascita degli assistenti di Rea, la nascita dei Cureti o Coribanti. Dei Coribanti sappiamo anche che così venivano chiamati coloro che formavano il corteo della Grande Madre asiatica. Il rumore del bronzo prodotto dalla danza di guerra dei Cureti serve, secondo il mito, a coprire i vagiti dell’infante Zeus, lo stesso bronzeo rumore, prodotto però con i cimbali, scandisce l’ira di Demetra alla ricerca di sua figlia rapita da Ade. Non a caso, dunque, le iniziazioni demetriache erano accompagnate dal caratteristico suono prodotto dai cimbali che la dea utilizzò per attirare l’attenzione di chi incontrava nella ricerca della figlia rapita. E sempre lo stesso rumore echeggia nei cortei montani delle menadi e in quelli dei Coribanti della Grande Madre asiatica.

 In continuità con il mito della nascita di Zeus appare il mito della primissima infanzia di Dioniso Zagreo riportato da Robert Graves nei Miti greci:

“Zeus generò in segreto suo figlio Zagreo in Persefone, prima che essa fosse condotta nell’Oltretomba da suo zio Ade. Egli affidò ai Cureti cretesi figli di Rea […] il compito di custodire la culla di Zagreo nella grotta Idea e colà essi gli danzavano attorno, battendo le loro armi l’una contro l’altra, come già avevano fatto attorno alla culla di Zeus.” [R. Graves, I miti greci]

Anche qui, insomma, compare la danza dei Cureti che battono le armi per nascondere con il rumore del bronzo il piccolo Dioniso Zagreo. Ma non vi è solo questo breve riferimento a illustrare il rapporto tra il “bronzeo rumore sotterraneo” e Dioniso. Non solo il primo Dioniso (Zagreo) figlio di Zeus e Persefone è associato nel mito al bronzeo fragore, ma anche il secondo Dioniso, figlio di Zeus e Semele, è strettamente connesso a questo “suono”.

Secondo la narrazione delle Dionisiache di Nonno di Panopoli, Hermes, per sottrarre Dioniso alla vendetta di Hera, gelosa di Semele, porta il piccolo a Creta da Ino che lo nasconde in una grotta e lo affida a un’altra ninfa di nome Mystis. È questa nutrice che per prima fa ascoltare a Dioniso il suono dei cimbali. Tuttavia Hera scopre questo nascondiglio ed Hermes, costretto a salvare di nuovo l’infante, lo porta sulla vetta Cibelia da sua “nonna” Rhea. Qui Dioniso cresce circondato dai Coribanti che tramite il rumore creato da spade e scudi coprono, come già avevano fatto per Zeus, padre del bambino, il suono dei suoi vagiti. [Nonno di Panopoli, Dionisiache, Libro 9]

In tutti questi riferimenti a Dioniso, a Demetra, a Rhea, allo Zeus ctonio, quella che ci appare davanti agli occhi è una dimensione dove il bronzeo rumore dei cimbali si fa custode salvifico della sfera ctonia. Il fragore del bronzo allontana le potenze maligne e salvaguarda, celebrandola, la divinità terrestre.

Eppure negli aneddoti di Pomponio Mela e dello pseudo-Aristotele il rumore dei cimbali sembra recare con sé qualcosa di inquietante e di invisibile, non certo una potenza salvifica. Sotto i colpi di una sorta di maledizione o di interdetto la potenza del rumore del bronzo non appare più accompagnata da quelle divinità che ne esprimevano la forza apotropaica.

Cosa potrebbe essere successo? Come mai il fragore dei cimbali risuona inquietante e solitario nel fondo delle tombe e delle caverne? Come mai sono scomparse dagli aneddoti le divinità ctonie che questi strumenti custodivano e accompagnavano? Chi ha fatto sparire i tiasi e i cortei dionisiaci, dove sono cureti e coribanti? E la Grande Madre? E le menadi?

La dolce lira di Orfeo.

[Orfeo con il suo canto ammalia le fiere. Autore ignoto]

“Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono sempre il mondo sotterraneo e promisero a più d’uno beatitudini ctonie.    Ma il tracio Orfeo, cantore e viandante nell’Ade e vittima lacerata come lo stesso Dioniso, valse di più.” [C. Pavese, L’inconsolabile]

Bizzarra può apparire l’idea, che a favorire la scomparsa della potenza salvifica dei cimbali e delle divinità ctonie sia stata la prima delle invenzioni di quel dio che, secondo la narrazione di Nonno, più di ogni altro si era dato da fare per salvare il piccolo Dioniso dall’ira gelosa di Hera. Tuttavia non pare affatto casuale che Hermes, il dio dei ladri e dei mercanti, colui che fa da spola tra il mondo olimpico e l’Ade, tra il cielo e la terra, abbia avuto un suo ruolo in questo misfatto. E ancor meno casuale appare il dato che anche qui tutto sia cominciato in una grotta.

Racconta Kerényi:

“Così incominciò Ermes, con l’invenzione della lira. Con entrambe le mani prese la tartaruga, la portò nella grotta e la aprì; la sua parola e la sua azione furono veloci come il pensiero. Fissò nel guscio due canne, nella parte superiore pose un attacco e tutto ciò che si vede in simili strumenti nelle raffigurazioni antiche, e vi tese poi sette corde di budello di pecora. Finito il piacevole giocattolo, ne provò con il plettro il suono; esso risuonò potentemente nelle sue mani. Improvvisando il dio cantò magnificamente, usando i suoni coi quali i giovanotti si scherniscono spudoratamente a vicenda nei banchetti solenni.” [K. Kerényi, Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia]

La lira nasce così come gioco del bambino Hermes. Ma subito dopo il mito ci racconta qualcos’altro. Ben altri giochi interessano il furfantello:

“Pose la lira nella sacra culla; gli venne voglia di carne. Balzò dunque fuori dalla grotta profumata per spiare attorno e mettersi in agguato come fanno i ladri nel buio della notte. Elio stava scendendo con il suo carro, quando Ermes giunse in Pieria, l’ombroso monte degli dèi, dove anche i loro buoi immortali pascolavano la fresca erba e dove avevano le loro stalle. Il figlio di Maia […] tolse cinquanta mucche dalla mandria.” [K. Kerényi, Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia]

E, insomma, il dio, appena nato, ha già inventato la lira e rubato cinquanta mucche agli dèi. Ma, c’est ça, è un po’ difficile farla agli olimpici. Il mito narra di come Apollo, “mangiata la foglia”, si rechi verso la grotta di Maia e Hermes, e una volta entrato e apostrofato il piccolo dio con minacce e male parole lo costringa a riconsegnare tutte le vacche rubate. È a questo punto che inizia a prodursi il misfatto:

“Ermes condusse le vacche fuori dal cortile recondito della grotta situata presso l’Alfeo […] Poi placò il fratello con il suono della lira. Apollo rise di gioia. Il suono meraviglioso penetrò nel suo cuore e lo riempì di una dolce nostalgia, mentre stava ascoltando con tutta l’anima. Il figlio di Maia stava lì, alla sua sinistra, senza alcuna paura, suonando la lira e cantando con voce deliziosa, in onore degli dèi immortali e dell’oscura Terra, narrando come essi fossero sorti e come ognuno di essi avesse ottenuto la sua parte […] Apollo desiderava ardentemente la lira. Egli trovò che lo strumento valeva bene le cinquanta mucche ed ammirò il fratello per l’invenzione. Elogiò la lira il cui suono produceva tre cose: serenità, amore e dolce sonno. Da allora in poi la gloria di Ermes e di sua madre sarebbe stata assicurata presso gli dèi e lui stesso prometteva tutto pur di avere la lira. Lo scaltro Ermes si mostrò benigno.” [K. Kerényi, Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia]

Demetra ride di gioia sentendo la “voce bronzea e sotterranea” del cimbalo, Apollo fa altrettanto ascoltando il dolce suono della lira. È importante sottolineare la “dolce nostalgia” che prova il dio. Come se quel suono ricordasse al figlio di Latona il luogo a lui più proprio, la dimensione armonica della rotazione dei corpi celesti di cui lui stesso è principio e incarnazione. Se il fragore del cimbalo che accompagna i culti ctoni è catartico e salvifico, il dolce suono della lira, di contro, produce in chi lo ascolta ben altre cose: serenità, amore e dolce sonno. Niente sfrenatezza insomma.

Tuttavia in questi passaggi non sembra apparire ancora nessun misfatto. Finché Apollo inneggia alle Muse con la musica celeste della dolce lira nulla pare cambiare nel culto greco. Ma è quando il dio trasmette la nobile arte all’eroe solare Orfeo che il baricentro del culto greco trasborda irrimediabilmente dalla terra al cielo.

In Apollodoro e in Igino si trova la notizia secondo la quale lo stesso Apollo avrebbe insegnato ad Orfeo nella Pieria, la patria delle divine Muse, l’arte di suonare la lira. Ma è particolarmente in Pindaro (Pyth. IV, 176) che troviamo questa testimonianza:

“Orfeo venne, figlio di Apollo, signore della lira,

inviato da Apollo, padre dei canti”

Orfeo compare nelle fonti antiche come maestro della musica liberatrice che ripristina l’equilibrio del cosmo facendo echeggiare le armonie primordiali prodotte con la lira. L’eroe solare è definito da Pindaro “inviato da Apollo”. È lui, in effetti, che diviene l’artefice di quella “forma musicale” che intona il ritmo del suono originario per riportare il mondo alla sua perfezione iniziale. Ma perché riportare il mondo alla sua perfezione iniziale? A chi giova ripristinare l’ordine perduto e immoto che lambisce il silenzio? A qual fine Apollo ha inviato Orfeo? Perché gli ha trasmesso l’arte della lira?

Trattandosi di misfatti, per tentare di rispondere a queste domande, mi trovo costretto a citare un autore, parlo di Edouard Schuré, espertissimo in questioni di tal genere. Non pochi misfatti, del resto, la sua penna ha compiuto e trasmesso. In modo singolare e curioso però, è spesso nei più bizzarri deliri degli autori della tradizione esoterica che si nascondono tesi che permettono di ricostruire narrazioni andate perdute. Vediamo, dunque, di cosa si tratta:

“Ovunque, in Tracia come in Grecia, gli dèi maschili, cosmogonici, e solari, erano stati relegati sulle alte montagne e nei paesi deserti, poiché il popolo preferiva ad essi l’inquietante corteo delle divinità femminee, che evocavano pericolose passioni e forze cieche della natura. Questi culti attribuivano alla divinità suprema il sesso femminile […] Qual fosco incanto, quale ardente curiosità attirava uomini e donne in quelle solitudini lussureggianti di grandiosa vegetazione? Forme nude, danze lascive nel fondo d’un bosco,… poi risa, un formidabile grido […] Le baccanti addomesticavano pantere e leoni per farli comparire nelle loro feste; e di notte, con le braccia avvinte da serpenti, si prosternavano davanti alla triplice Ecate, e poi, in ronde frenetiche, evocavano Bacco sotterraneo, dal duplice sesso e dalla faccia di toro. Ma sventura allo straniero, sventura al sacerdote di Giove o di Apollo che fosse venuto a spiarle. Lo avrebbero fatto a pezzi.” [E. Schuré, I grandi iniziati]

Ecco, dunque, il contesto a cui Orfeo s’oppone. Schuré non fa certo economia di enfasi per descrivere con i soliti toni foschi il (supposto) disordine religioso che aveva portato alla persecuzione dei sacerdoti dei culti solari e uranici. Il disordine, per il francese, è tutto definito dal predominio in terra greca del culto tellurico e ctonio delle divinità femminee. Orfeo è inviato da Apollo per porre fine all’inopinata e tumultuosa debauchery che si produce nel culto ctonio. Di solito le fonti narrano della sua figura, come figura eroica di poeta e suonatore, solo raramente lasciano intravedere la sua immagine più subdola, quella di capo politico e sacerdote solare. Ma per fortuna per Schuré, che vede in Orfeo il simbolo dei suoi ideali esoterico-patriarcali, non è affatto così:

“Orfeo trasse a sé, con la scienza e l’entusiasmo suo, la grande maggioranza dei traci, trasformò completamente il culto di Bacco, dominò le baccanti, e rapidamente la sua influenza penetrò in tutti i santuari della Grecia. Egli consacrò la sovranità di Zeus in Tracia e quella di Apollo a Delfo, ove gettò le basi del tribunale delle Anfizionie, che divenne poi l’unità sociale della Grecia. Infine, creando i misteri, formò l’anima religiosa della sua patria, poiché all’apice dell’iniziazione fuse in unico pensiero universale la religione di Zeus con quella di Dioniso. Gli iniziati ricevevano dai suoi insegnamenti le verità sublimi, e questa luce discendeva poi fino al popolo, ma più temperata, non però meno benefica, sotto il velo delle poesie e delle feste incantatrici. Così Orfeo divenne pontefice di Tracia, gran sacerdote di Zeus olimpico e, per gli iniziati, il rivelatore del Dioniso celeste.” [E. Schuré. I grandi iniziati]

Incipit del patriarcato in terra greca dunque. In questo brano terribile, ma allo stesso tempo fondamentale, Schuré mostra le modalità attraverso cui Orfeo getta le basi per la demonizzazione dei culti delle divinità ctonie: l’istituzione di tribunali, lo sviluppo dell’unità sociale e politica dei greci, la trasformazione del culto cretese dello Zeus ctonio in una religione universale (incredibilmente simile al cattolicesimo romano) e il pervertimento della figura di Dioniso, che da divinità ctonia qual era, viene pervertito al rango di divinità celeste. Le sublimi verità orfiche che invitano alla “temperanza” (virtù degni anemici saggi) e non più alla “lascivia” (dimensione propria a tutti i viventi) vengono imposte attraverso il ponderatissimo e incantatore velo della poesia. Orfeo sconvolge così il senso di quelli che furono i primi misteri eleusini: non più celebrazione identificativa e immaginativa con la terra, ma sottomissione supina al potere freddo e quasi immoto del mondo uranico delle sfere celesti. Le gesta politiche e religiose di Orfeo vengono poi sublimate dalle tradizioni successive nella forma estetica che conosciamo. Il dolce suono della lira servì a nascondere l’addomesticamento delle forze selvagge.

Come scrive Kerényi:

“Quando si parla di Orfeo si dice che al suo canto gli uccelli gli volteggiassero a stormi sulla testa, e i pesci guizzassero dalle cupe azzurrità marine per farglisi incontro; tale era il fascino del suo canto. Lo vediamo in viaggio sulla nave Argo con la lira in mano. Quando ancora sentiamo dire che il suo canto aveva il potere di far muovere gli alberi e le pietre ci viene in mente che anche le mura di Tebe furono elevate al suono della lira […] Ma l’impresa in cui egli solo riuscì, fu quella di domare col suo canto tutto ciò che c’era di selvaggio, persino le forze selvagge degli Inferi, arrivando fino a Persefone.” [K. Kerényi, Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia]

“Orfeo domò col suo canto tutto ciò che c’era di selvaggio”. Questa è la verità terribile che rivela in modo essenziale l’azione di Orfeo.

Se leggiamo attentamente questi passaggi del mitologo ungherese e li mettiamo in rapporto con le leggende riguardanti l’eroe, il poeta e il sacerdote d’Apollo, la sua figura sublime sembra perdere il suo fascino aureo e rilevare una verità triste e sconcertante: ci appare l’immagine terribile di un proto-inquisitore. Il culto ctonio e dionisiaco della religione popolare esprimeva l’integrazione della sfera umana con quella del mondo naturale tutto. Gli alberi, le piante, le fiere, le valli scoscese non ancora sottomessi alla forma smorta dell’idillio rappresentavano, nel culto, forme di vita complici della sfera umana non domata. La luna e non il sole era al centro del culto antico. In essa i movimenti delle maree e i cicli agrari trovavano il loro ritmo e la loro unità, in essa si rispecchiava l’impeto dei fiumi e l’oscurità delle caverne. Il ritmo bronzeo e sotterraneo dei cimbali scandiva un’illuminazione che si sprigionava da oscure profondità e non il risplendere di una luce spirituale.  Il suo fragore proteggeva le festività agrarie e i culti funerari e celebrava il mistero della morte e della rigenerazione della natura. Tale rigenerazione si adombrava nelle fasi lunari e non certo nei viaggi astrali delle anime, volti alla purificazione uranica dalla “prigionia corporea e terrestre” [sic!].

Il suono dolce della lira di Orfeo sposta lo sguardo umano dalla visibilità della facies lunaris al mondo insondabile delle sfere celesti. I moti armonici coprono l’atroce separazione della vita naturale dalla sfera umana. Il ritmo crescente e incessante dei cimbali viene sovrastato dallo sviluppo della teoria armonica. La proporzione aurea dei numeri sacri impone alla dimensione musicale selvaggia una nuova gerarchia di valori. Scompaiono i parametri naturali, si impongono relazioni meramente ideali. Questa nuova gerarchia sminuisce il ruolo fondamentale che l’immaginazione analogica giocava nella dimensione mimetica e identificativa dei rituali ctoni. La religione, il culto, il rito divengono così strumenti della temperanza producendo “amore, dolce sonno e serenità”. Non più luoghi della sfrenatezza e della debauchery, ma veicoli aberranti della morta perfezione della simmetria. I miti e le leggende che narrano del potere esercitato dalla lira di Orfeo sulle pietre e sugli animali esprimono di fatto la sottomissione del vivente alle leggi celesti, ovvero l’esclusione della natura terrestre dalla sfera religiosa. Le corna di toro che capeggiano sullo strumento musicale di Orfeo sono le corna del “toro celeste” e sembrano rappresentare simbolicamente un trofeo che ricorda il soggiogamento delle forze telluriche da parte del mondo uranico.

La medesima sconcertante verità appare nascosta anche nel viaggio di Orfeo nell’Ade, così come ci viene raccontato da Ovidio:

“Mentre parlava accompagnando le sue parole al suono delle corde, le anime esangui piangevano; Tantalo smise di cercare l’acqua che gli sfuggiva, la ruota di Issione si fermò stupefatta, e nemmeno gli avvoltoi morsero più il fegato di Tizio, le nipoti di Belo deposero le urne e anche tu Sisifo ti sedesti sopra al tuo macigno. Dicono che le guance delle Eumenidi soggiogate dal canto si bagnarono di lacrime: e quella fu la prima volta; né la sposa regale né il sovrano del regno di sotterra hanno la forza di dire no alla sua preghiera, e chiamano Euridice.” [Ovidio, Metamorfosi X]

Il dolce suono della lira provoca il pianto e soggioga, indebolisce e ipnotizza. Orfeo si volta intenzionalmente per abbandonare la ninfa Euridice e con lei tutte le figure tutelari della magia naturale vengono condannate all’oblio. Il potere fascinatore del canto sottomette le divinità del mondo sotterraneo. Le forze uraniche sconfinano sin dentro i più intimi recessi della sfera tellurica addomesticandola. Con il passaggio di Orfeo, sulla terra scompaiono tiasi e cortei dionisiaci, le divinità ctonie vengono trasformate in demoni: giudici, secondini, carnefici. Il bronzeo rumore dei cimbali rimane solo ad echeggiare nel fondo della terra.
Il suo fragore non più salvifico, solamente inquietante.


Francesco D’Achille è un ricercatore indipendente. Ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia presso l’Università del Salento di Lecce e l’E.PH.E di Parigi. Ha scritto articoli su F. Nietzsche, L. Wittgenstein, e G. Agamben. Attualmente le sue ricerche si sono concentrate sul concetto di “Inattualità” e sulla genealogia critica della cultura occidentale.