Voci dall’altrove: “Etrusca 3D”.

– Gli Etruschi sono un popolo scomparso da duemila anni!

– Sì? Ma famme capi’, Romoli’. Ma chi so’? Ma ch’hanno fatto ‘st’ Etruschi?

– Gli Etruschi sono stati criminalizzati dai Romani! Un vero pogrom!

– E li mortacci loro!

– Ma papà! Ma possibile che te e mamma non sapete dire altro che “li mortacci loro”?!

Con quest’ultimo commento stizzito Pasquina Proietti, promettente studentessa di sociologia e psicologia, esprime la propria frustrazione verso il padre Remo, reo di esprimere il proprio stupore nei confronti della damnatio memoriae compiuta dalla storiografia romana con un’espressione forse un po’ troppo da “fruttarolo”, che è poi il suo mestiere. Siamo ne “Le vacanze intelligenti”, terzo e ultimo episodio del film Dove vai in vacanza (1978).

Eppure questa espressione potrebbe risultare più appropriata di quanto non si creda, parlando degli Etruschi. Da sempre bollati, e spesso liquidati, come “misteriosi”, questa etichetta ha finito per limitarne spaventosamente e ingiustamente il contributo nella cultura popolare/di massa/pop/come ve pare, riducendoli ad appendice delle culture classiche. Peccato, perché quel poco che ci è giunto in realtà ha parecchio potenziale.

Innanzitutto, potrebbero costituire una valida alternativa al paradigma neoclassicheggiante, che non solo ha fissato nell’immaginario collettivo una concezione per cui la Roma antica, dalle origini al secolo V d.C. sarebbe un’unica gigantesca sintesi di marmi bianchi, architettura maestose, trionfi, giochi gladiatori (questi ultimi due tra l’altro sono proprio un’invenzione etrusca), e via discorrendo, ma che retroattivamente ha investito anche l’antica Grecia, spogliandola di ogni sua caratteristica derivante dalla sua posizione storico-culturale tra il mar Mediterraneo e l’Asia. Non manca qualche messa in discussione, come Il primo re (2019) di Matteo Rovere: mi auguro che quest’ultimo sia un inizio, e non un’eccezione.

Certo, anche da questo punto di vista gli Etruschi non sono troppo fortunati: non vi sono molte vicende di singoli personaggi che possono far leva sull’immaginario narrativo popolare tanto quanto lo possono quelle di tanti greci e romani; oltretutto, quei pochi che avrebbero potuto svolgere tali funzioni sono stati “acquisiti” già all’epoca. Un esempio su tutti quello di Macstrna, in latino tecnicamente Mastarna, ma ben più noto come Servio Tullio. Per dire. Forse il destino degli Etruschi è quello di avere un’identità collettiva, come quelle divinità familiari che i Romani hanno imparato da loro (es. i Lari e i Mani), il che non aiuta la sopravvivenza in questi termini, a meno di non trovarsi nelle mani di qualcuno come Olaf Stapledon che ti incolla alla pagina con le vicende di intere civiltà, declinate appunto collettivamente, e comunque auguri per qualsivoglia resa visiva. Tra l’altro, un motivo ulteriore per fare degli Etruschi un popolo “misterioso”.

All’interno di questo paradigma stereotipo dell’età classica, gli Etruschi riescono al massimo a rivendicare un ruolo di connessione. La loro arte, quantomeno da un certo periodo in poi, mostra delle forti comunanze con quella greca contemporanea – e tra l’altro si parla in questi casi di “gusto orientalizzante”, tanto per dire – come anche il loro alfabeto. Inoltre l’ipotesi proposta da Erodoto, che vede nei Tirreni (l’esonimo da cui ha origine il termine etruschi) i discendenti dei Lidi emigrati in Umbria a seguito di una carestia, è a tutt’oggi molto diffusa, nonostante già all’epoca fosse stata criticata. Contemporaneamente, nella narrazione storica pop, gli Etruschi vengono di fatto presentati come la prima vera civiltà, se non società, attestata sul suolo italico. Città sviluppate, grandi commerci, ma soprattutto una presenza intimamente legata alla nascente civiltà romana: gli ultimi tre dei leggendari sette re di Roma, i Tarquinii, erano etruschi. E però, rimangono una sorta di prova generale, un prequel dei Romani.

È noto come tante usanze presenti nella cultura romana siano originariamente etrusche, e tante altre rimangano tali per lungo tempo. Tra di esse vi erano arti divinatorie quali l’ornitomanzia e la ceraunomanzia, ma soprattutto l’aruspicina. In particolar modo quest’ultima era identificata come attività tipicamente etrusca, tanto che, contrariamente agli àuguri, gli aruspici non avevano un loro collegio ufficiale all’interno della pure organizzatissima religione romana. Ora, questa pratica costituisce probabilmente un altro degli elementi che rendono gli Etruschi “misteriosi”: i loro traffici con il destino svolti attraverso un contatto con l’oltretomba. Non che mancassero in altre civiltà, ma nel loro caso il contatto era piuttosto diretto: l’aruspice interpretava il futuro a partire dai segni che reperiva nelle interiora degli animali. D’altro canto, stiamo sempre parlando della civiltà che ha inteso l’idea di necropoli piuttosto letteralmente: si pensi ai complessi di Tarquinia e Cerveteri, per esempio, vere “città dei morti”. Effettivamente, la ricchezza e la complessità delle decorazioni delle tombe etrusche suggeriscono un’importanza capitale delle teorie sull’oltretomba nel sistema di credenze etrusco.

Si capisce bene come l’immagine degli Etruschi misteriosi, oscuri e, perché no, fatalisti abbia trovato punti d’appoggio: trattandosi poi di un’immagine comoda – perché, parliamoci chiaro, se una cosa è misteriosa vuol dire che non si capisce per essenza – è sempre molto difficile abbandonarla. Tra l’altro, alla luce di tutto questo, direi che “li mortacci loro” sembri riassumere perfettamente l’essenza della civiltà etrusca.

Eppure, basta veramente poco per vedere che, pur stante l’ultimo punto, gli Etruschi avessero con la dimensione dell’oltretomba un rapporto non solo equilibrato, ma anche molto pratico. Un esempio su tutti: il cosiddetto Fegato di Piacenza.

Questa riproduzione bronzea di un fegato ovino è un manuale di epatoscopia: a ogni sezione dell’organo corrisponde una precisa divinità. Uno schema interpretativo analogo veniva applicato anche nell’ornitomanzia: a ogni sezione del cielo corrispondeva una divinità e quindi un certo tipo di responso. Questo tipo di approccio, fortemente basato sull’osservazione, sembra caratterizzare il pensiero etrusco, per quello che ci è dato di conoscerlo: per usare le parole di Christopher Smith “è interessante riflettere su quanto gli Etruschi credessero che il mondo fosse interpretabile”. E lo credevano veramente, come testimoniano molti dei loro miti, pieni di profeti e interpreti. Per ciò che concerne l’oltretomba, la presenza ricorrente di motivi fluviali, di porte fortificate e custodite, di figure psicopompe nelle decorazioni tombali suggerisce l’idea per cui la morte corrispondesse a un viaggio, per il quale era necessario partire preparati. Che cosa vi fosse giunti a destinazione non ci è dato sapere (stante la scarsità delle testimonianze letterarie) ma possiamo esser certi che gli Etruschi volessero arrivarci quanto più possibile preparati.

Ora, nonostante tutto questo, non credo che si aspettassero la possibilità di un ritorno/risveglio dall’oltretomba, e di certo non attraverso un disco. Eppure, in un certo senso, questo è quello che succede con Etrusca 3D (Discrepant, 2020), l’album omonimo del nuovo progetto di Spencer Clark e Francesco Cavaliere. L’idea di questo progetto nasce a partire da alcune illustrazioni tridimensionali (di quelle con gli occhialini) capitate tra le mani di Clark mentre si trovava a Caprarola (VT). A quanto sembra una vera e propria illuminazione, che ha portato i due, amici da tempo, a collaborare, muovendosi tra Anversa e Berlino nell’arco di due anni, in modo da poter lavorare il più possibile di persona. Da un punto di vista compositivo, l’album si sviluppa a partire da sample vocali di Cavaliere, che recita i nomi delle divinità etrusche. A partire da questa base sono stati poi composti i brani, utilizzando appunto queste registrazioni, che sono state passate attraverso computer e il programma di sintesi vocale che Cavaliere usa per i suoi lavori, insieme a un doppio tape deck giapponese e dei sampler. Il tutto poi passato attraverso l’Emax 2 di Clark.

Il risultato è un album molto compatto, al tempo stesso ricco ed essenziale, che colpisce in primo luogo per il suo aspetto “vocale”. Non sorprende, visto che l’utilizzo di sample vocali – pur in modi molto diversi – caratterizza i lavori di entrambi i musicisti. E però in questa occasione l’elemento vocale si arricchisce di una sfumatura ulteriore. I nomi delle divinità etrusche, campionati, rielaborati e destrutturati, divengono gli elementi costitutivi di un autentico rituale evocativo. Clark e Cavaliere si domandano se gli Etruschi, invece di essersi in qualche modo amalgamati con i Romani, non abbiano trovato la maniera di viaggiare verso altri mondi e altre dimensioni: Etrusca 3D è il modo in cui i nostri cercano di raggiungerli e di richiamarli indietro. Il disco è un cortocircuito tra passato e futuro, in cui la voce di Cavaliere (nato a Piombino e cresciuto a Volterra, quindi etrusco a pieno titolo), si insinua in modo da creare una traccia che permetta questo ricongiungimento.

Lungo questo percorso interdimensionale si assiste a un capovolgimento di alcuni stilemi più diffusi, tra cui quelli legati all’uso delle percussioni. Ovviamente molto presenti, in tutto il disco svolgono una funzione molto più atmosferica che propriamente ritmica, facendo sì che i brani spesso assumano una coloritura ritualistico-celebrativa. In alcuni passaggi, forse non casualmente in apertura e in chiusura del disco, si combinano con i campionamenti di synth più solenni finendo per richiamare le colonne sonore dei vecchi film peplum.

Ma quello che veramente colpisce del disco, come già accennato precedentemente, è l’utilizzo della voce. Attraverso un uso del sampler a tratti alchemico, le voci divengono gli elementi costitutivi dell’universo di Etrusca 3D, secondo differenti gradi di complessità. A questo proposito, si possono individuare tre differenti livelli di utilizzo dei sample vocali, in una scalarità incrociata nella quale ciò che è apparentemente complesso si rivela in realtà come semplice, in quanto intatto. In alcuni casi, la voce, pure pesantemente effettata, è narrazione, sia documentaristica (“Velathri”) sia drammatica (“Taitle”). In altri casi si esprime attraverso una singola parola, un nome divino appunto, attorno al quale si articola e si raccorda il resto della composizione (“Tuchulcha”, “Veive”). Vi è infine un livello più fondamentale che è al tempo stesso quello maggiormente artefatto, proprio nel senso dell’intervento umano. La voce e la parola divengono materia sonora, non ritornando a chissà quale carattere primigenio ma attraverso i processi di quantizzazione, a volte in maniera evidente (“Ennuha”), altre quasi furtivamente, presentandosi come elemento ritmico per poi rivelarsi solo successivamente (“Voltumna”).

Il titolo dell’album gioca contemporaneamente su più livelli interpretativi: da un lato vuole rappresentare le due anime del progetto, con l’etrusco Cavaliere e il tridimensionale (di nuovo, con gli occhialini) Clark; dall’altro riassume l’intento ultimo del disco, ossia quello di far tornare in questo mondo gli Etruschi dal mundus imaginalis in cui si sono trasferiti. Per usare le parole di Clark: “dire 3D è come dire evocare, far uscire fuori dalla TV”. E quale migliore metafora per descrivere il passaggio dall’immaginativo al reale?

Per approfondire:
Magnan, Oscar. “The Meaning of the Afterlife in the Etruscan Tomb Paintings of Tarquinia.” Ultimate Reality and Meaning 32, no. 2-3-4, (2009): 157-170.

Smith, Cristopher. Etruscans: A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University Press, 2014 (trad. it. Gli Etruschi. Traduzione di Barbara Belelli Marchesini. Milano: Hoepli, 2018).


Manlio Perugini è nato nel 1985, è dottore di ricerca in filosofia e vive a Roma, dove lavora come bibliotecario. Si occupa di filosofia del Rinascimento, di information literacy e spesso lavora come editor.