In memoria di Pellicci Aristide, detto Er Principe.

Principe era un cristone allampanato, con la faccia smunta ed ammuffita. Occhi arrossati simili al vetro vi erano infossati: persi nel vuoto che parevano spiritati. Il corpo smisurato, tanto ero lungo, sembrava raggrinzito e martoriato: ingobbito ed irrimediabilmente prosciugato dall’eroina, l’alcool, svariati esaurimenti nervosi ed altre innumerevoli disgrazie. Ultima delle quali, la morte della madre, amatissima e venerata sempre, al pari d’una Madonna. Una devozione ch’egli portava incisa sulla carne, con uno dei tatuaggi sbiaditi e dozzinali che ancora gli s’intravedevano addosso, e che recitava, con caratteri malfatti, «Mamma te amo».

Con movimenti fiacchi ed un incedere strascinato, sbilenco, quasi fosse in procinto di stramazzare all’improvviso giù per terra, vagabondava quotidianamente, senza meta, negli anfratti di una Roma assonnata e deserta, sospesa nell’afa e nel torpore pomeridiani. Alla ricerca di un qualche riparo dall’asfissiante arsura d’agosto, si aggirava, che fosse solo o in compagnia di qualche personaggio sghembo rimediato per la via, lungo sentieri occulti ed illogici, per quant’erano tortuosi. Formicolava, in quella porzione di città compresa fra Vigne Nuove, Talenti, San Basilio, Casal de’ Pazzi, e che si prolungava, talvolta, fino a Pietralata, senza trovare un attimo di requie. Si fermava, di tanto in tanto, in qualche bar, giusto per un Campari, un «caffeuccio» o una pisciata. Stravaccato su una sedia, con i piedi indolenziti sbracati su un tavolino, sbrogliava la nervatura intorcinata dalla stanchezza, sproloquiando con il padre eterno e scagliando, infine, con la voce roca e fuligginosa, ingiurie e trivialità contro la madre di Cristo. Alle occhiatacce intimorite, sgomente e, delle volte, anche apertamente ostili, di quelli che gli stavano a tiro, rispondeva con risate sguaiate, scoprendo la bocca sdentata e deforme da dietro una copia del Corriere dello Sport. Eppure, a Principe gli volevano bene tutti quanti, ché lui il tempo per un consiglio, una parola buona o anche, semplicemente, una battuta zozza da scambiare con qualcuno lo trovava sempre. A dispetto di quell’esistenza balorda e strampalata, che lo aveva inchiodato ai margini di ogni cosa, costringendolo a vivere alla stregua d’un cane rognoso, calpestandone ripetutamente e in tutti i modi i sentimenti e l’amor proprio, lui sembrava, infatti, aver conservato pienamente intatte la purezza d’animo e quella sua innata ed incrollabile bonomia, che, almeno all’apparenza, stridevano così duramente con i modi rozzi e scurrili con cui affrontava le sue giornate. Il candore fanciullesco ed uno spirito tenacemente allegro gli erano sopravvissuti, nonostante la porcheria in cui, suo malgrado, gli capitò di rimanere impaludato.

Gli piaceva intrattenersi con noi «regazzetti», dopo averci scroccato una «sigarettina» o un cappuccino alle tre del pomeriggio. Con bonarietà, pretendeva d’insegnarci la vita nei suoi aspetti più infimi e grotteschi, scandendo, in tono perentorio e con lo sguardo da paraculo, massime tratte chissà dove, proferite agitando l’indice in aria in segno d’autorevolezza: «Ricordateve sempre…», principiava con fare solenne. Chiosando, immancabilmente, l’orazione, fra una scatarrata e una bestemmia, con qualche sconcezza, perché – spiegava – «ce sta sempre bene!». Spalmati su Booster truccati o appoggiati su vecchi Ciaetti rugginosi, lo ascoltavamo divertiti, in attesa che sparasse la prossima cazzata. A modo suo, quel profeta sgangherato, enigmatico ed astruso ad un tempo, ci ha visto crescere. Fin da quando, di tutto gusto, rimirava concentrato frotte di bambocci ancora imberbi sciamare sull’asfalto, dietro un pallone, in un vecchio campetto scassato, incastrato fra palazzine gialle dalle facciate scorticate. Con un cappelletto sdrucito «daa magica» appena appoggiato sulla testa argentata, ci urlava appresso indicazioni sconclusionate su come disporci tatticamente o su come calciare il pallone, mentre fra le labbra screpolate assaporava una Merit, che lo faceva obliquamente rassomigliare a Zeman. «Ah Pagnotta, piega ‘ste cazzo de gambe», suggeriva a un ragazzino grassoccio arruolato in porta. «Ahò, c’hai le mano bucate. Ma chi sei, Padre Pio?», continuava bersagliando il povero malcapitato. Oppure, «Santini c’hai i piedi fucilati», gracchiava sgraziato a un altro.

Eravamo sullo svanire degli anni ’90. La Golden age del writing romano. Gli autobus a Roma erano ancora arancioni, con tag graffiate a pietra sopra le vetrate. La prima volta che m’imbattei in Principe fu proprio su un 211 scarcassato, scaraventato in volata verso la Tiburtina, lungo strade spopolate, attraverso quartieri sventrati dal caldo. Noncurante degli sguardi sdegnosi degli altri passeggeri a bordo, lo sentivo, in lontananza, raccontare a piena voce, a un suo amico mezzo rincoglionito, un tale chiamato Forbicetta, della sua detenzione in galera, in seguito ad una rapina finita male. Con l’aria da dritto, gli spiegava: «Quanno stavo chiuso a Regina, me li so’ fatti sulla tazza der cesso l’anni de bottega. Capirai, a quelli in cella co’ me je facevo fa’ de continuo er caffè aa Cicciolina». Interrogato dal Forbicetta su cosa fosse, rispose con stupore: «Come ched’è? Tu giochi a Tressette, e chi perde poi deve fa’ er caffè e servillo nudo, caa parannanza, mentre l’artri je danno ‘i schiaffi sur culo». L’autobus sbottò a ridere fragorosamente. Lui proseguì indifferente: «Ancora me ricordo quanno m’hanno scarcerato. Pensa, era la vigilia de Natale. Prima d’annammene, però, je faccio ar secondino: “Ahò, io mo esco. Te invece qua ce rimani, ah servo! Ah servitore doo Stato! E ricordate sempre che io qui so’ Er Principe”. Lui, allora, ‘o sai che m’ha risposto? “Qui dentro sei er principe. Ma tocca vede’ che sei lì de fori”». Al che lui, in un impeto d’esaltazione, con tono gagliardo e in segno di rivalsa, tuonò paonazzo: «Ahò, allora ‘n’hai capito: se qui dentro so’ er Principe, fori da ‘ste mura so’ er Re!». Questa magnificazione di sé stesso cozzava miseramente contro i calzoni sbrindellati e le ciabatte lerce. Ma Pellicci Aristide – questo era il vero nome del Principe – si sentiva realmente un sovrano in mezzo a quel verminaio pieno di mondezza. Con aghi nelle braccia e sorsate di umore nero, gli spasmi nel petto trafitto e il furore nel cranio arroventato, la nevrosi, le strade e poi la solitudine, la vita l’ha mozzicata per davvero.

Principe morì qualche anno fa. Stritolato da una cirrosi epatica non curata, che gli ha spremuto, a poco a poco, l’anima dal corpo, già crudelmente avvizzito. Fu ritrovato senza vita in quel tugurio trasandato in cui tornava, oramai da circa un decennio, solo per dormire, dopo peregrinazioni senza senso. Contorto su un giaciglio sudicio e striminzito: giusto una brandina, conficcata in una stanzetta disadorna, ricolma di mozziconi, stracci e ciarpame accatastato alla rinfusa. Quali elucubrazioni cacasse quella vecchia testa caliginosa, nel corso dei suoi deliri abbacinanti, resta tuttora un mistero. È dileguato senza lasciar traccia. In fondo, non gli è mai interessato niente.


Flavio Lepore è nato a Roma. Questa è la sua unica qualità. E’ laureato in filosofia.