Ci sono cose che possono avvenire solo tra i ghiacci, al vento gelido dei poli, nell’oscurità delle foreste, durante la pioggia incessante di un anno senza estate, oppure, in un teatro. Non per una catena di causalità ma per dei rimandi più sottili, disposizioni che fanno scoccare la scintilla. Ci sono poi delle lunghe febbri o lunghe notti senza sonno, sovraeccitazione mista a prostrazione, le particelle vibrano veloci e qualcosa deve infine succedere.
Alexia Sarantopoulou è Mary Shelley, sul palco dà voce alle sue inquietudini, è una giovane donna con lunghi capelli che scrive china su un laptop. Si nutre di ghiaccio.
E in effetti è un pensiero siderale Frankenstein, che porta iscritta già un’ambiguità: Frankenstein il creatore o la creatura? Victor Frankenstein, lo scienziato, o il suo mostro?
Anche il gesto prometeico si sdoppia: Mary si concede la possibilità mostruosa della scrittura, Victor creerà dalla morte una nuova vita. Lasciare un segno nel collasso dell’arcaico e del futuribile: è necessaria la filosofia naturale degli antichi, solo da questo punto di vista la scienza moderna potrà servire a qualcosa. Si tratta sempre di un’opera di bricolage, un nuovo utilizzo dei resti, ma l’ispirazione è indispensabile. E dunque ci ostiniamo a scrivere, ma sui laptop.
Cosa ci rende umani? Possiamo spogliarci, strato dopo strato, di tutte le risposte. E la scenografia di questo Frankenstein (a love story) dei Motus sembra suggerire proprio la compresenza di tanti livelli, in un continuo gioco di coperture e svelamenti. Tutti e tre i personaggi avranno il loro momento di verità, di messa a nudo, fuor di metafora. Quella di Victor, in realtà, è piuttosto parziale; d’altronde lo scienziato interpretato da Silvia Calderoni si crede il deux ex machina ma in realtà è anche lui creatura, alter ego, seppur non cosciente di esserlo. È forse la figura che più ci rappresenta?
Assistere a uno spettacolo dei Motus significa ogni volta entrare in un mondo costruito per l’occasione, decidere di accettarne le regole: è la possibile declinazione di un teatro di fantascienza. Con Mary Shelley la compagnia è entrata in contatto con un universo molto affine. L’autrice, lo sappiamo, era figlia di due rivoluzionari, due pionieri del pensiero come Mary Wollstonecraft e William Godwin. Femminismo e anarchismo sono stati l’humus di Mary – due tensioni filosofiche che ispirano, in maniera non dogmatica, la poetica Motus – fino alla passione dirompente per Percy Shelley, con gli ideali che si tramutano in sentimenti.
Non sorprende quindi che lo spettacolo sia piuttosto fedele al testo, di per sé foriero di moltissimi spunti e punti di rottura. La densità delle parole è centrale, e al posto delle invenzioni visuali avvolgenti del recente Tutto Brucia la scansione è affidata ai capitoli che si susseguono e alla musica – ci sono Demetrio Cecchitelli, Dario Moroldo, Lynch, Wovenhand, Bon Iver, Djrum, Jon Hopkins, Arvo Pärt, Burial, Fontaines D.C., Dans Dans, Mechanical Cabaret, Bones, Jessica Moss. La compagnia non ha scelto una strada accattivante, catchy – seppure le composizioni iconiche e l’estetica rimangano un marchio di fabbrica, a partire dai costumi – la storia della creatura è già così ricca che si tratta piuttosto di farle spazio con delicatezza, con un impianto minimalista che si riflette nel paesaggio nordico desolato. Anche la forma del monologo, postura di enunciazione molto praticata dal gruppo, è mutuata dal libro – con il dialogo è più facile cadere nella mimica derivativa della “realtà”, a meno di non operare torsioni che inceppano la comunicazione, mentre da soli è impossibile distinguere tra allucinazione e testimonianza, il narratore è sempre inaffidabile. Nel Frankenstein di Shelley non ci sono veri e propri scambi di battute, ciò che si legge è una restituzione scritta, stesa per essere inviata per lettera, di un resoconto basato sui ricordi di Victor, su ciò che lui ha scelto di raccontare dei fatti presumibilmente accaduti. La mediazione è dunque fortissima e così il tasso allucinatorio.
Si possono isolare alcuni nuclei che il gruppo ha scelto di mettere al centro del suo Frankenstein: Mostruosità-Rispecchiamento, Generazione-Creazione, Amore-Odio.
La creatura è mostruosa. Così viene immediatamente definita, giudicata. Il suo ingresso nel mondo, e sul palco, è una rottura – o un ritorno? Nello spettacolo la creatura è Enrico Casagrande, fondatore di Motus insieme a Daniela Nicolò nel ’91, con cui anche stavolta, come sempre, firma la regia. Enrico era assente dalla scena da oltre due decenni (da Splendid’s del 2002, se non ci sbagliamo), la sua (forte) presenza in questa occasione rappresenta plasticamente tutto il corpus-Motus. I suoi interventi, che si fanno carico del dolore della creatura in quanto reietta, sono anche riflessioni su cosa significa essere una compagnia teatrale indipendente – Qual è il proprio posto? Cosa è ancora possibile, dopo tanti anni, mostrare? Cosa ci si aspetta di vedere? Cosa viene accettato e cosa rifiutato?
Il paradosso è che così la compagnia si rispecchia nella creatura tanto quanto in Victor – il creatore interno al racconto, perno dello svolgimento, mediazione indispensabile come lo è Silvia Calderoni – quanto in Mary Shelley, colei da cui tutto nasce. Questa chiave è esplicitamente consegnata al pubblico sia a parole sia visivamente, quando tutti e tre gli interpreti indossano la maschera del “mostro”, ma ci dice qualcosa di più rispetto al complesso rapporto tra autore e opera. Torna alla mente La cosa: nel film di John Carpenter gli umani vogliono a tutti i costi distruggere la cosa, ma lei in fondo non è che uno specchio, un modo per far venire alla luce i deprecabili caratteri propri dell’umano. Anche lì si era tra i ghiacci, anche lì un atto prometeico aveva “dissotterrato qualcosa” (che viene dal passato, ma che è nuova allo stesso tempo) senza però farsi poi carico delle conseguenze. Il creatore ha dato la vita alla creatura ma non può amarla, non può accettare lo scandalo che rappresenta, e in fondo non può rischiare di venire da lei superato – tutto il contrario di Bella Baxter, in Povere creature! la stravaganza viene riassorbita, complice il bell’aspetto, e la creatura finirà per portare avanti l’ideale scientifico del padre, senza rottura alcuna.
La creatura di Victor invece è irrimediabilmente mostruosa rispetto al canone “umano”. C’è la superficialità del far fede alle sole apparenze, la repulsione del deforme. Ma è in effetti l’abbraccio mancato, la paura dell’ignoto che ci abita a generare mostruosità. L’altro da sé, in realtà, chiederebbe una cosa sola: amore. Ma è qui che emergono tutti i limiti dell’umano, incapace di indagare le proprie profondità, di riconoscere e amarsi anche negli aspetti non graditi, che vengono così allontanati e trasformati in nemici. E si corre il rischio che poi nemici lo diventino davvero.
Il “mostro” chiede una compagna sua simile – ma Victor gliela nega. Ha paura che i due potrebbero dar vita a una “nuova progenie”, “la cosa aliena” potrebbe impadronirsi della Terra. Mary Shelley aveva solo 19 anni quando scrisse il libro nel 1816, ma aveva già dato alla luce due figli, di cui il primo morto dopo poche settimane dalla nascita. C’è senz’altro una riflessione sulla maternità tra le righe del libro, con questo legame inossidabile tra creatore e creatura, seppur caratterizzato dal rifiuto, dall’odio, dalla violenza, dal bisogno d’amore e dall’incapacità di darne. Da questo punto di vista, Frankenstein è un corpo a corpo.
Il dolore è un retaggio della natura, insito nel generare? Si dice, a un certo punto: «Se la natura è sbagliata, cambia la natura». Eppure, la creatura inizia a soffrire quando scopre il linguaggio, la gerarchia sociale, le colonizzazioni, la storia umana che gronda sangue, quando conosce il rifiuto – l’apprendimento delle parole è forse uno dei momenti più toccanti dello spettacolo. Sarà un’evoluzione successiva quella di Freaks o Elephant Man, dove del deforme si fa zimbello, merce da esporre, sottolineando una volta di più l’orrore della società umana, dei valori che appartengono ai cosiddetti “normali”.
La lettura Motus di Frankenstein invece è che solo nell’ibridazione, nella fuoriuscita da sé, nello scoprirsi costellazione con il circostante, sfumando i confini della forma, solo lì c’è una generazione possibile – nel doppio senso della parola. Nessuno ha il diritto di circoscrivere il perimetro di chi o cosa può generare. Ne verrebbero fuori altri assemblaggi, creature più complesse e meno scisse in una natura né vecchia né nuova, espressioni di possibilità da sempre virtualmente presenti ma finora dimenticate, come “la cosa” sepolta sotto i ghiacci. Come specie (o anche banalmente come gruppo etnico) vogliamo a tutti i costi difenderci, siamo sicuri che non sarebbe meglio farci contaminare? Sarebbe un mondo forse senza di noi, dove però sarebbe possibile danzare. In fondo, si tratta pur sempre di una love story.
Lucrezia Ercolani si muove tra teatro musica e filosofia. È una punk.