Questo pezzo non vuole essere un compendio esaustivo, non vuole ripercorrere la genealogia del movimento macchina chiamato drone (perché dronata suona proprio male). Vuole piuttosto portare all’attenzione uno specifico atteggiamento condiviso da pubblico, critica e industria nei confronti questo segno: si tende a chiudere un occhio, a passarci sopra come se non venisse notato o non fosse importante, a fregarsene, come se fosse un lasciapassare alla pigrizia di chi guarda (e di chi crea le immagini, che è anche peggio).
Bisogna intanto distinguere tra l’apparizione in scena dell’oggetto drone, ovvero quando è nell’inquadratura, quando è diegetico, comprendendo il passaggio a una sua eventuale “soggettiva”, e il drone extradiegetico, ossia il drone come movimento macchina, impiegato a volte per incuria, a volte per poca fantasia, altre per fare economia su elicotteri, dolly e crane oppure perché effettivamente dotato di uno scopo registico che non sia una banale scena di transizione tra due sequenze (il classico e abusato establishing shot ad altezza tropopausa di una città, di un casolare, o di quel che si vuole, la cui realizzazione è puntualmente relegata alle seconde unità delle seconde unità con piloti patentati per manovrare avanzi di modellistica).
Il punto, soggettivo quanto si vuole, è a un tempo etico ed estetico. A meno che non sia giustificato narrativamente o stilisticamente, il drone è segnale di negligenza e sciatteria: il drone fa schifo. Il movimento che ne risulta è fin troppo fluido, pulito, macchinico, quando va bene; nel peggiore dei casi è proprio mal fatto, scattoso, uno scarabocchio. Qualcuno potrebbe dire “ah ecco, vedi? Ha sporcato il movimento, ha una sua poesia” ma no. Una “carrellata sporca”, per citare Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis (registi di “Re Granchio”) in una loro intervista, è tutt’altra cosa: è figlia dell’arte di arrangiarsi sul set, del rifiuto di facili scorciatoie.
Proprio in “Re Granchio”, film dal budget tutto sommato contenuto, vediamo una sequenza aerea in sorvolo di un vulcano: hanno scelto l’elicottero, sebbene più costoso, perché il drone risultava troppo perfetto, troppo moderno.
Andiamo con la memoria a cent’anni fa.
Pensiamo a certi movimenti macchina entrati nella storia del visivo che hanno folgorato tanti cinefili più o meno disgraziati e altrettanti cineasti (due insiemi che a volte finiscono per intersecarsi). Iniziamo con il pre-dolly di “Wings” del ‘27 di William Wellman, frutto dell’ingegno all’opera del regista, del direttore della fotografia Harry Perry e dell’operatore E. Burton Steene: una rotaia sopraelevata sulla quale, a mezz’aria per tutta la stanza tra i tavoli, scorre la cinepresa, una Eyemo 35mm della Bell & Howell (all’epoca la più compatta in circolazione, caratteristica che la renderà la preferita per le riprese sui campi di battaglia durante la seconda guerra mondiale), con Steene sdraiato sopra per controllarla.
Cosa rende magica questa ripresa? Il suo essere mai vista prima, tocco originale di un regista sempre teso a trovare nuove soluzioni visive per dire anche solo un dettaglio (cosa comune fra gli sperimentatori del muto, sintomo di un linguaggio filmico preindustriale, ancora in assestamento, prima del consolidamento del cinema narrativo classico che va dagli anni trenta agli anni cinquanta, prima della rottura apportata da Welles) e sempre pronto a rinnovarsi: dopo il successo di “Wings”, altri registi adottarono questo tipo di ripresa, il che gli fece un po’ onco e preferì non usarla più.
La magia della scena – dicevamo – non viene solo dal movimento, dalla sua cinegenia intrinseca ma anche da come sia capace di restituire immediatamente l’atmosfera etilica della situazione, un occhio meccanico che vola tra vapori alcolici e festosi, tra i brindisi, tra i festanti che scompaiono lateralmente manco fossero rodovetri in un film d’animazione, per finire sul protagonista completamente brillo.
Continuando sui cammini della memoria cinefila, torna in mente come Howard Hawks abbia fatto un film sul volo, sul cielo, sull’aria e su chi la abita saltuariamente in “Only Angels Have Wings”, del ‘39. Qui vediamo il risultato di una precisa delega di Hawks alle seconde unità: effettuare delle riprese aeree d’impatto che rendano la drammaticità di un atterraggio sul terreno saliscendi della mesa. Di più: farne molte versioni. Ecco che entra in scena Elmer Dyer, il primo operatore della storia del cinema a specializzarsi in riprese aeree.
Grazie a una macchina da presa particolare, montata nella cabina di pilotaggio come se fosse una mitragliatrice, capace di inclinarsi in ogni direzione e aggiustare di conseguenza il mirino, realizzò delle riprese ultra-dinamiche da aereo ad aereo, come nella sequenza di discesa contenuta appoggiata qui sopra. A Dyer dobbiamo anche le magnifiche riprese di combattimento aereo di “Air Force” del ‘43, sempre per la regia di Hawks (la cui passione per i velivoli e l’aria veniva dall’adolescenza, quando lavorava come pilota acrobatico nei circhi volanti dell’epoca, cosa che lo portò a prestare servizio come aviere nella prima guerra mondiale).
Oppure, Murnau.
“Der letzte Mann” – meglio noto come “The Last Laugh” – del ‘24, in cui vediamo una macchina da presa lanciata nella hall dell’hotel dove lavora il protagonista, un semplice portiere, ai gradini più bassi nella gerarchia lavorativa dell’albergo, abituato a ricevere soprusi e insulti, scherzi e sputi, che può esercitare il poco di potere che ha solo sui facchini, sempre fuori dalla porta bardato a guerra, che sia sereno o nevichi controvento.
Qui grazie a Karl Freund (direttore della fotografia, tra gli altri, di “Metropolis” di Lang e anche regista del classico Universal “The Mummy” nel ‘32) avviene la rivoluzione: egli mette a punto la Entfesselte Kamera (più o meno “la macchina da presa scatenata”, “liberata”) ovvero mette in movimento le riprese. Con diversi stratagemmi, ad esempio con una bicicletta o una funivia, monta la macchina da presa su un supporto e la muove secondo il volere del regista, rendendo così possibili le prime carrellate, le prime panoramiche e i primi movimenti aerei (il dolly aveva ancora da venire ricordiamolo, di cui la unchained camera può considerarsi un antenato). Dopo la produzione di quel film niente fu più lo stesso.
Alla pellicola lavorò come assistente Hitchcock, che più tardi ricorderà il set del film come l’esperienza che gli cambiò il modo di pensare il cinema, quindi sostanzialmente la vita.
Proseguiamo con una sequenza che, per assurdo, fosse stata effettuata oggi con un drone, avrebbe perso qualsiasi credibilità ed efficacia: l’elicottero che dal piccolo totale di Callaghan (Callahan in originale, mai inteso il bisogno di aggiungere la g, forse per renderlo ancora più grezzo, vai a capire..), mentre tortura il serial killer Scorpio, si allontana allargando l’inquadratura, rivelando il Kezar Stadium di San Francisco immerso nella nebbia, lasciandoli soli nella notte di Frisco. Immaginatela con la glaciale fluidità dronica, senza quell’ondeggiare ventoso. Di questo si tratta: eliminare l’errore, anche non umano, oppure il caso; della volontà di controllare ogni parametro del set, di tentare di avere in pugno ogni possibile variabile, hybris tecnica ripagata con la freddezza percettiva che emette.
Tornando a tempi più recenti, un particolare utilizzo di riprese da drone (in questo caso si tratta di droni militari, o più propriamente aeromobili a pilotaggio remoto, strutturalmente diversi dai “dronini per videoripresa”) è presente in Good Kill di Andrew Niccol, del 2014, che racconta la progressiva alienazione del pilota Thomas Egan (interpretato da Ethan Hawke) passato dalla cabina di un caccia alla postazione di controllo di un drone da combattimento, quindi dall’essere presente nel momento del lancio del missile alla separazione tra l’occhio che mira e il dito che preme il grilletto (riguardo alla relazione occhio-proiettile, suggerisco la lettura di “Guerra e cinema. Logistica della percezione” di Paul Virilio, un classico ancora illuminante sul rapporto fra la tecnologia ottica e il suo impiego in ambiti civili e militari e su come vengono utilizzate le immagini che ne scaturiscono).
In Good Kill le soggettive dei droni sono irreali, punto di vista di un essere capace di muoversi tridimensionalmente nell’atmosfera e stazionare, irrealtà aumentata dalle zoomate scattose e dai frame che vengono continuamente ricentrati per mettere il bersaglio nel mirino, quasi a simulare i naturali assestamenti della retina stimolata dalle variazioni di luce.
In merito al carico politico dell’immagine dronica cito Alberto Pezzotta da un editoriale del settimanale FilmTv intitolato “Occhio di drone” (che parecchio mi ha ispirato in questa disamina): “In ogni caso il drone appare come un’estensione delle telecamere di controllo urbane e dei sistemi di guida dei missili cosiddetti intelligenti”.
Ed ecco che i droni di Good Kill ricordano le riprese a circuito chiuso di “Redacted”, opera del 2007 diretta da Brian De Palma, evocando una distanza tra la partecipazione emotiva implicita nelle immagini “classiche” e quelle di un’entità che esercita il controllo.
Sempre Pezzotta più avanti nell’articolo: “L’effetto di un drone, con il suo punto di vista non umano, è quello di far assomigliare la realtà a un’immagine digitale, di assottigliare la differenza tra reale e artificiale”.
Si potrebbe quasi pensare che le immagini prodotte da un drone siano i precursori delle immagini sintetizzate da un’intelligenza artificiale: lo straniamento perturbante delle ultime sembra una conseguenza collaterale dei tentativi di fluidità e della freddezza delle prime.
Ancora Pezzotta ricorda le riprese dall’alto effettuate negli anni ‘90 per filmare i “casermoni di periferia paradossalmente belli” – visti da lassù – “per le geometrie che nascondono la miseria sottostante”.
Impossibile non pensare ai titoli di testa di “Candyman” di Bernard Rose del ‘92: titoli che scorrono, tra le musiche di Philip Glass, sopra le strade di Chicago per portarci al megaquartiere residenziale di Cabrini Green, nel Near North Side, vero e proprio ghetto urbano (oggi abbattuto), teatro delle vicende del film.
Avrebbero avuto lo stesso impatto usando un drone? Forse sì, in questo caso specifico. Perché replicando l’estrema pulizia del movimento, la fissa fluidità dello scorrimento in plongée totale, non c’è molta differenza con le riprese (stabilizzate) dall’elicottero. Riprese simili si sono viste quest’anno al festival di Venezia, nel film di Stéphane Brizé “Hors-saison”, quando il protagonista, interpretato da Guillaume Canet, guida verso il centro termale dove tenterà invano di ritrovare sé stesso. Riprese talmente belle, e pulite, che forse viene anche il dubbio che abbia usato un elicottero, come in “Candyman”. Sempre a Venezia abbiamo visto altri droni magnifici, utilizzati da Michael Mann e il suo direttore della fotografia Erik Messerschmidt in “Ferrari”: durante le sequenze di corsa automobilistica vediamo l’immagine volare raso terra contro le macchine che sfrecciano, creando un livello di immersività unico. Anche in questo caso permane qualche dubbio sulla natura di queste riprese: a volte è difficile capire a occhio di che ripresa si tratti, se drone o elicottero.
Da ricordare anche la commistione tra droni ed elicotteri di Michael Bay in “Ambulance”, del 2022: per la scena dell’inseguimento in elicottero ne sono stati usati due, uno (truccato da elicottero della polizia) in scena che performava e uno che riprendeva il primo inseguire l’ambulanza protagonista mentre sfila via nel letto secco del fiume che taglia Los Angeles (location iconica di mille inseguimenti, presente anche nel capolavoro di William Friedkin “To Live and Die in L.A.”). La cosa divertente è che in più sequenze vediamo anche il secondo elicottero, quello che riprende la scena, “mascherato” da elicottero di supporto (vediamo palesemente la cinepresa che riprende, quasi fosse una mitragliatrice o altro) con riprese effettuate dai superdroni della LightCraft, che più che un drone ricordano la Little Nellie di 007.
Da un certo punto di vista il drone può considerarsi la realizzazione di certe teorie (o sogni) di Jean Epstein e Abel Gance: una macchina da presa capace di muoversi liberamente nelle quattro dimensioni spaziotemporali, disancorata dalle maglie della gravità (come quella scena di “Chronicle” di Josh Trank, dove il protagonista, che ha acquisito poteri telecinetici, fa fluttuare in aria una piccola videocamera, muovendola con la forza del pensiero) similmente alle cineprese virtuali dei software di modellazione tridimensionale.
Il passo successivo, forse, è una macchina da presa dotata di intelletto e volontà propri, capace di volare, di andare ovunque, per un cinema che si fa da sé. Che poi non è una prospettiva così irreale, ad oggi.
In fin dei conti questa querelle più che contro il drone in sé è contro il suo utilizzo casuale, contro la sciatteria registica. Perché, come ricorda Pezzotta, “c’è un’estetica del drone così come ce n’è una del pianosequenza”. Viva allora la sperimentazione, le riprese folli che il drone permette, purché non sia uno spreco di immagini. Congediamoci con una delle sequenze più belle di sempre, il finale di “The Crowd” del ‘28 di King Vidor.
Riferimenti
● “Occhio di drone”, editoriale di Alberto Pezzotta su FilmTv N. 22 del 2020
● “How They Filmed the Café Dolly Shot in ‘Wings’”, articolo di Meg Shields apparso sul blog Film School Rejects, disponibile al link: https://filmschoolrejects.com/how-they-shot-wings/
● Intervista a Matteo Zoppis e Alessio Rigo De Righi di David Katz pubblicata su Cineuropa, disponibile qui: https://cineuropa.org/it/interview/438130/
● Estratto di un’intervista a Craig Barron e Ben Burtt sulle riprese aeree di “Only Angels Have Wings”, tratto dai contenuti speciali dell’edizione Criterion Collection del film, visibile su YouTube: https://youtu.be/WfvKH9aFlEQ
Eugenio Fronteddu. Il cinema è tutto. Poi vengono il suono degli Appalachi, il vino, il jazz, i blob audiovisivi, Bazin, Mann, Ian Fleming, Daney, gli stoici, C.K., l’hardcore continuum, il western. Non necessariamente in quest’ordine.