In I had nowhere to go, la raccolta diaristica di scritti di Jonas Mekas che ricopre la vita del regista dall’abbandono della terra natia fino all’esilio e infine lo stabilimento in America, appare tra le note sparse un brevissimo racconto:
“A SHORT STORY
There was a man who kept searching for a melody he thought he had heard somewhere long long ago.
Then—he found it.
It was only one note, one tone.
One tone, one note he had heard once: It was his own brief cry in a dream.”
Invio il racconto ad Alex Zhang Hungtai. Qualche mese prima ci siamo sentiti per concordare e svolgere un’intervista in cui mi ha raccontato di essere ossessionato da un sogno ricorrente dove una materia oscura, accompagnata da un ronzio che vibra fortissimo, lo inghiottisce completamente. Ho conosciuto la musica di Alex grazie a Water Park Ost (2013), rilasciato sotto lo pseudononimo Dirty Beaches; si tratta della colonna sonora del film Water Park di Evan Prosofksy, un cortometraggio su un parco acquatico canadese. Un perfetto nonluogo, di sinistra tranquillità apparente o di confortante frenesia e viavai, in base al modo in cui lo si percepisce. Ma la musica di Alex restituisce, o meglio aiuta a penetrare, un altro aspetto ancora: la strana sensazione di familiarità nei confronti di uno spazio che sembra di aver già attraversato, un luogo sospeso nel tempo che riemerge dai detriti della memoria collettiva in quanto ricordo condiviso.
Anche Alex, come Jonas Mekas, si descrive come una «displaced person». Nato a Taipei, vissuto a Montreal, Lisbona, Los Angeles, Vancouver, Honolulu. Arrivato, in ultima istanza, proprio a New York, là dove anche il regista lituano si sarebbe stabilito per rivoluzionare i circuiti del cinema sperimentale. E anche la figura artistica di Alex è mutevole: da Dirty Beaches a Last Lizard, a continui cambiamenti nel sound fino alla musica improvvisata. Il percorso di Alex risente di certo degli spostamenti fisici, ma più di tutto risiede in una certa liminalità che fa apparire le tappe della sua vita (e carriera) come i tasselli di un quadro più ampio, che coinvolge il suo sentirsi parte di un reame più grande, comprensivo, che possa legarlo ai ricordi del mondo attraverso piccoli portali che passano inosservati e che richiedono una particolare concentrazione per accedervi.
Continua Jonas Mekas nel suo diario:
Humanity went through periods of being nomads and settlers. They have retained these characteristics even today. Myself, for instance, in many areas such as religion, ideas and my life style, I’m a nomad. While most of the people around me are settlers, in all three areas. […] Sometimes by chance you touch a tone, a note—and everything reverberates through all the spaces with incredible nuances. As Dostoyevsky said, we are alive in the glimpses, seconds, when souls really speak, really meet, really see.
L’idea di una nota che si scorge quasi per caso, e che si espande in modo del tutto sorprendente nello spazio circostante, generando altre famiglie di note connesse da un filo rosso e probabilmente mai più replicabili. C’è un tono fondamentale da cui parte tutto, una radice, un momento che Jonas Mekas chiama “istante paradisiaco.” Sento, nella musica di Alex, che anch’essa funziona come un’architettura; una struttura che ha inizio da una fonte primaria, un momento ancestrale che contiene in sé i caratteri dell’infinito e della mutevolezza. Un’immagine-trauma: concetto intorno a cui gravitano le riflessioni sul cinema intero, come da scuola del regista francese Chris Marker che meglio di chiunque ha indagato il rapporto tra arte cinematografica e inconscio collettivo.
Scrivo all’indirizzo mail di Alex che contiene una storpiatura del nome del regista di Hong Kong Wong Kar Wai. Gli invio le mie domande con la speranza di essere riuscita a stabilire una connessione con un mondo interiore così vasto e complesso. Senza poterlo prevedere del tutto, è Alex a parlarmi per primo di memoria collettiva, ed è lui a svelarmi di essere rincorso, praticamente da sempre, da un’immagine traumatica che re-incontra ogni notte da quando è bambino.
Ciao Alex. Come stai? Ti senti a casa dove ti trovi ora? E qual è il tuo rapporto con il concetto di “casa”?
A: È la domanda da un milione di dollari, eh? Credo che tutti, da Edward Said a Jacques Derrida, abbiano cercato di rispondere a questa domanda. Tutti coloro che sono immigrati, esiliati o sfollati, o che hanno semplicemente ereditato lo sfollamento dal trauma familiare, conoscono questa sensazione. Il mio rapporto con la parola “casa” cambia nel tempo, ma la mia interpretazione attuale è che, al di là della storia familiare, ci sia in gioco una funzione sociale molto più ampia.
Lo “smarrimento” («displacement») è spesso il risultato di giochi di guerra geopolitici tra Paesi potenti. La mia famiglia è solo un’altra famiglia senza nome nella storia delle migrazioni di massa e degli esili. Di certo ciò ha chiarito alcune angosce astratte che avevo da adolescente. Certo, non risolve tutti i traumi, ma documentarsi sulla storia aiuta. Attualmente vivo a New York, probabilmente la città migliore del mondo in cui vivere per uno straniero perché ci sono tante persone diverse e di ogni estrazione sociale. Casa mia è qui in questo momento.
In passato hai detto che interagire con gli strumenti è per te come toccare corde e lati diversi di te stesso, e che è un po’ come scegliere quali voci vuoi ignorare e quali vuoi lasciar entrare. In questo momento, cosa ti aiuta a trovare questo equilibrio? Cosa ti permette di assecondare le voci che desideri lasciar entrare?
A: Nell’improvvisazione – e nella vita in generale – mi trovo costantemente a negoziare con ciò che sfugge al mio controllo. Che si tratti di emozioni, sentimenti astratti o influenze esterne che alterano il modo in cui percepisco l’ambiente circostante: ascolto, improvviso e poi mi adatto alla situazione. A volte la mia prospettiva personale non è sufficiente quando suono con persone o gruppi diversi, e questo mi riporta al dojo (Dōjō, 道, luogo per la ricerca della via) per allenarmi a sviluppare più “voci” per comunicare meglio con gli altri in nuove formazioni. Pauline Oliveros ha pubblicato un bellissimo libro sulla sua pratica, intitolato Deep Listening, che consiglio vivamente; mi ha aiutato ad ascoltare di più ciò che mi circonda e a considerarmi una piccola parte di un ecosistema più grande, invece che separarmi dall’ambiente circostante.
Sono curiosa di sapere, se sei un tipo solitario o una persona che lavora meglio in gruppo?
A: Sono stato un solitario per tutta la vita, ma da quando mi sono trasferito a NY sto incontrando molti amici con cui suonare e mi sto divertendo molto. Spero che i miei 40 e 50 anni si concentrino in questa direzione. Contribuire e appartenere a una comunità.
Una cosa che adoro della tua musica è che sembra possa trasportarti in spazi in cui non sei mai stato, facendoli stranamente sentire come tuoi. E’ come se la musica stessa accetti a lasciarsi sorprendere, a lasciarsi avere un’epifania. Qual è una cosa che hai capito ultimamente e che ti ha fatto fermare e cambiare prospettiva su qualcosa?
A: Un anno fa mi sono reso conto che spesso vado alla ricerca di nuovi suoni cercando tra le librerie e saltando maniacalmente al suono successivo senza fare alcuno sforzo cosciente nell’ascolto. Questa realizzazione mi ha spinto a cambiare il mio approccio, ad ascoltare più intensamente e a lasciare che le cose vadano e facciano il loro corso in modo naturale, invece di cercare di imporre una certa direzione o di interrompere prematuramente qualcosa a causa di insicurezze o disillusioni. Spesso comunichiamo male con le persone che ci circondano, ma sbagliare nel comunicare a noi stessi ciò che si sta cercando di ottenere è deleterio.
Mi interessa sapere se c’è qualcosa che ti ispira in questo momento, a parte la musica. Film, arte visiva o magari un libro.
A: Libri: Carlo Rovelli – L’ordine del tempo, Ursula Le Guin – I reietti dell’altro pianeta, Italo Calvino – Le città invisibili. Non vedo film che mi abbiano cambiato la vita da un po’, mentre ieri ho scoperto un’artista surrealista di nome Leonora Carrington che fa sculture e dipinti pazzeschi.
Ricordo di aver ascoltato Water Park OST e di essermi chiesta come avessi fatto a racchiudere l’essenza di un luogo così multiforme in composizioni di note. Ti capita spesso di iniziare a scrivere partendo dall’idea di un luogo fisico?
A: ”La psicoacustica è la branca della psicofisica che si occupa dello studio scientifico della percezione del suono e dell’audiologia: come gli esseri umani percepiscono i vari suoni. Più specificamente, è la branca della scienza che studia le risposte psicologiche associate al suono (compresi il rumore, il parlato e la musica). La psicoacustica è un campo interdisciplinare che comprende molte aree, tra cui psicologia, acustica, ingegneria elettronica, fisica, biologia, fisiologia e informatica[1]”.
– Wikipedia
Non sono assolutamente uno scienziato, ma molto del mio lavoro riguarda il modo in cui i ricordi plasmano la mia esperienza di ascolto. In breve, cerco di identificare una certa combinazione di frequenze che trovo adatta a quei luoghi e ascolto la reazione del mio corpo a queste frequenze. Una volta designate alcune frequenze come “casa base”, le composizioni orbitano intorno a queste fino a quando l’architettura si stabilisce. Tutto parte da una singola nota che fa da radice.
Pensi che la musica funzioni per te come uno strumento per raggiungere una dimensione spirituale o ancestrale? Oppure è il contrario?
A: C’è una ragione per cui la musica fa sempre parte dei rituali e delle feste cerimoniali, ed è perché invoca e dialoga con il nostro inconscio collettivo, un’altra forma di accesso ai ricordi condivisi, forse. È una pratica potente che può aiutarci ad avventurarci in questi terreni psico- geografici inesplorati. Ma ci sono tanti percorsi che raggiungono tutti la stessa fonte. Ognuno ha il suo percorso.
Sono curiosa di sapere se esiste un episodio particolare della tua infanzia o adolescenza che continua a ispirarti. Una sorta di immagine ricorrente, un’immagine-trauma. Ma non deve avere necessariamente un’accezione negativa.
A: Da bambino facevo tantissimi sogni ricorrenti, tipo essere inseguito da un aggressore sconosciuto, saltare da luoghi molto alti e svegliarmi giusto prima di toccare terra, ecc. Ma ce n’è uno che continuo a fare ogni tanto. Il sogno inizia con me che dormo all’interno del sogno, c’è una frequenza bassa che ronza, sento il mio corpo ricoperto da una sostanza nera simile al catrame o alla melassa che si diffonde nell’ambiente circostante, inghiottendo tutto ciò che incontra sul suo cammino. Alla fine, come se fossi asceso, mi vedo dall’alto, inghiottito da questa enorme entità fatta di materia oscura. Più mi allontano dal mio corpo e più mi rendo conto di quanto sia grande questa entità, che ricopre essenzialmente l’intero globo, fino a raggiungere lo spazio cosmico. Mi sveglio e sudo come un matto. Secondo la mia comprensione attuale, interpreto questo sogno come l’incontro con l’inconscio collettivo. Molto di ciò che faccio a livello creativo è direttamente collegato a questa immagine. Mi avventuro in questo regno inconscio e cerco di rimanere cosciente e di affrontarne il contenuto il più a lungo possibile, prima che il mio io cosciente possa venire inghiottito. Ogni concerto che ho fatto, ogni album che ho registrato, implica la sopravvivenza a questo processo.
Arianna Caserta è nata a Roma nel 2001. Si occupa di critica cinematografica, si interessa di cinema indipendente e sperimentale, e di musica elettronica. È spesso utilizzata per Character Development. Perfetta interprete delle suggestioni dei cari Death Grips, continua a dare <<buona idee alle persone sbagliate>>.