Cum on my tears – Un breve racconto erotico

La prima volta che mi è capitato di piangere provando un orgasmo risale a qualche settimana fa. Le lacrime mi rigavano le guance e non potevo in nessun modo controllarne l’afflusso. Ero devastata. Non capivo com’era possibile; avevo letto di contingenze simili sono nei romanzi rosa che mi venivano proposti da amicizie senza senso durante gli anni di liceo oppure ne sentivo parlare da persone che mi raccontavano di essere venute insieme al loro partner e a questo seguivano le lacrime. Follia. Ma davvero? E come sei venuta? Con la penetrazione o con la stimolazione della clitoride? Mi chiedevo io – e raramente avevo il coraggio di fargliele, queste domande. Mi sentivo sbagliata: mi sono avvicinata all’autenticità del mio piacere quando avevo ventuno o ventidue anni circa (tardissimo?) e non riuscivo a capire perché questo stramaladetto orgasmo non riuscissi a provarlo insieme ad altre persone, a differenza delle mie “amiche” che vedevo come delle fiche cazzutissime perché oltre a far godere il proprio partner – uso il maschile perché si trattava esclusivamente di interazioni sessuali uomo-donna – riuscivano a godere realmente durante l’atto sessuale. Poi c’è stata Slavina, SessFem, InsidePorn e ho cominciato a capire che potevo farlo. Ma anche non farlo. E non ci sarebbe stato nulla di male.

Ma torniamo alle mie lacrime. In questi ultimi mesi si è creata una strana “intimità” tra me e le mie lacrime: finisco per piangere più o meno a cadenza fissa, due o tre volte alla settimana, e le sensazioni che causano questo fenomeno sono rabbia e inquietudine. Rabbia perché è come se un’entità sovrumana mi avesse strappato via la possibilità di realizzare i miei desideri – che siano erotici e non – ponendomi in una condizione di immobilità e paralisi così da far insinuare l’inquietudine (che più che inquietudine assomiglia a una strana fibrillazione/euforia sfibrante) tra i miei pensieri e le mie attività quotidiane che spesso non riesco a trovare il modo di fuggire. E soccombo. Immobile. Guardo il soffitto. Piango. Perdo la pazienza molto più facilmente. Mi dimentico le cose.

Ma che succede quando ti capita di piangere mentre fai l’amore? Mi interessa capire la fisiologia di quel momento. Così assurda e sconclusionata. Come quello che sto scrivendo in questo momento con Molly Nilsson a palla nelle cuffie per evitare il silenzio della mia città natale dove sono tornata per il consueto weekend pasquale. Provo a ricordarmi. D’altra parte è stata la mia terapeuta cognitivo-comportamentale a “impormi” di scrivere in prima persona in questo periodo. Obbedisco a Jessica (nome inventato: anche se in realtà qualche notte fa ho sognato di chiamarmi Jessica Forever, come il film distopico di Poggy&Vinel in un mio immaginario cyber profilo in cui monetizzavo vendendo contenuti espliciti). Dunque. Io e il mio compagno siamo stesi a letto. Lo spazio del letto ha una forza ambivalente in questo periodo: lo vediamo come un “nemico” perché rimanda a una condizione di immobilità, sua, che vogliamo in tutti i modi superare passandoci il meno tempo possibile nel resto della giornata e ne proviamo a recuperare (più io, forse) anche il potere distensivo.

Più che “solo noi due” a essere vicini in quel momento sono i nostri due corpi. Quando ami una persona vuoi starle vicino. È il corpo che lo esige. Toccarla. Percorrere e ripercorrere con i sensi ogni sua parte del corpo. Questa cosa normalissima c’è stata in un certo senso negata. I nostri corpi sono stati separati nel momento in cui i desideri di ciascuno stavano cominciando a congiungersi in questa esigenza. Ed è stata come una riscoperta graduale, da parte mia, del suo corpo. All’inizio in uno spazio inospitale e freddo dove anche parte del mio volto doveva essere coperta dalla mascherina (avevo smesso di usarla da più di un anno) per evitare di ferirlo ulteriormente. Ho rimosso quasi tutto di quei giorni se non per due o tre dettagli che riguardano il suo corpo. La sua faccia senza barba che era come se vedessi per la prima volta perché c’eravamo lasciati con lui e i suoi baffoni alla Raz Degan e le braccia e le mani che erano l’unica parte del suo corpo con cui potevo stare a contatto. In fin dei conti mi poteva bastare. Per un po’ di tempo il mio corpo poteva stabilire una connessione solo con le sue mani e braccia e poi lentamente con le labbra, il collo e le dita che hanno ricominciato a infilarsi nelle mie mutande perennemente zuppe. Per molte settimane avevo smesso di toccarmi. Cominciavo ma non ce la facevo. Ero bloccata. Mi veniva da vomitare e sopraggiungevano le lacrime. Ero solita placare la mia libido con i thriller erotici e guardando Mickey Rourke e Lisa Bonet scopare.

Le sue dita hanno cominciato a infilarsi nelle mie mutande. Ma soprattutto nella gola. Desideravo quella sensazione a metà tra l’estasi e il dolore del soffocamento perché così riuscivo a sentirlo – o mi illudevo – fino in fondo. E si creava una connessione tra le pareti vaginali e la mia bocca e la saliva che ne fuoriusciva ogni volta mi faceva da lubrificante. Poi ci annusavamo entrambi le dita. Io le sue. Lui le mie che pure provavano ad avvicinarsi alla sua bocca. Più che entrarvici disegnavano delle forme sulle sue labbra. Le bagnavo così e ricominciavamo finché non arrivavo all’orgasmo clitorideo. Non avevo ancora eiaculato. O meglio era successo la prima volta che avevamo scopato. Ho sempre eiaculato da sola. Fino ad ora consideravo l’eiaculazione come qualcosa di mio e basta le cui sensazioni potevo magari condividere con amiche interessate a capirne la dinamica. Ma mai con un uomo. Non ci volevo neanche arrivare con un uomo. Mi negavo a priori. Quello spazio era solo mio.

Alla fine le sue dita mi avevano fatto eiaculare. Solo una volta. E credo sia la prima volta che le dita di un uomo sono arrivate a toccarmi così radicalmente. Non esagero dicendo che le dita di tutti gli uomini con cui sono stata non hanno superato la barriera clitoridea quando c’era desiderio di capire dove fosse.

Non di rado le sue dita mi fanno anche piangere. Quando si spingono fino in fondo alla mia gola provocandomi conati di vomito le lacrime sono il liquido che fuoriesce più facilmente. Senza induzione alcuna. E poi sulla mia faccia si mischiano le mie lacrime insapori e l’odore della mia fica e quello della sua lingua. Dicevo all’inizio che sto riscoprendo il suo corpo. Adesso gli tocco il petto, le gambe, la pancia, il ventre, il bacino, ancora con un po’ di paura di ferirlo. Timidamente. Come non vorrei toccarlo. Non possiamo toccarci né averci nel modo in cui vorremmo. È una sensazione stranissima. Come se l’eccitazione fosse costretta a fermarsi e a percorrere altre vie. Appagante senz’altro ma strano quando dall’altra parte la possibilità di provare piacere è temporaneamente compromessa. E come fai a godere?

Lo tocco lì dove non vorrebbe mai essere toccato in questo momento e la mia lingua si avvicina lì dove lui ha paura che si avvicini. E la sua lingua pure si avvicina al mio seno e ai miei capezzoli mentre con le dita arriva a stimolarmi fino a farmi formicolare le mani tremare dalla fibrillazione e piangere da tutto il dolore.


Elvira Del Guercio studia lettere moderne. Ha collaborato con alcuni festival di cinema come giurata e selezionatrice e si occupa di studi di genere. È nella redazione del trimestrale di critica cinematografica Uzak e suoi articoli sono apparsi su Cinefilia Ritrovata, il magazine online della Cineteca di Bologna, Cineforum e Fata Morgana Web. Scrive di cinema e letteratura per Il Tascabile, Nido Magazine e Point Blank.