Il video è stato postato su Tik-Tok da un pastore hazara. Il sibilo del missile squarcia il mattino di un punto indefinito sul lato pakistano della Line of Control. Riprende il cielo terso mentre il fischio cresce d’intensità, il missile da crociera attraversa l’inquadratura, l’immagine traballa per la corsa del ragazzo che tenta di recuperarlo. Riaggiustato il fuoco, la bomba planante è scesa di quota. Non si vede dell’impatto, la telecamera dello smartphone non può zoomare più di così. Lo scoppio, la colonna di fumo e i detriti di laterizio che ricadono sul villaggio, le invocazioni del pastore, il terrore inconsapevole delle capre. Sarà la ventesima volta che vede il video. Il secondo più trasmesso dopo quello della famiglia indiana stipata in una giurassica monovolume schiacciata da un tank. Ogni volta che vede queste cose non riesce a non chiedersi quante volte l’abbiano già visto i bambini. Se non ne abbiano visti già troppi per sperare un giorno di capirne il significato.
Il foglio da ottanta pollici incassato nella parete trasmette per l’ennesima volta il servizio riassuntivo degli ultimi trentacinque anni di contesa sul Siachen. La guerra è scoppiata nell’ottantaquattro, tra India e Pakistan, per il controllo del secondo ghiacciaio più grande del mondo. Un susseguirsi decennale di cessate-il-fuoco, una di quelle guerre surgelate solo per essere scongelate quando serve. Il televisore rimane acceso per tutto il tempo in cui Theo manca da casa.
Gli attriti tra Cina e India sono ricominciati per la costruzione di una diga cinese sull’alto corso del Brahmaputra che ha ridotto del dodici percento la portata idrica del corso indiano. E del quarantadue gli approvvigionamenti idrici del Bangladesh, già stremato da otto anni di carestia e latenza delle piogge.
Stavolta, tutto è ricominciato per un aereo, e, per tutto l’anno scorso, l’hanno chiamata la guerra degli aerei. Un giorno un missile terra-aria a guida laser aggancia un obiettivo non identificato ottomila metri sopra la catena del Saltoro, all’interno dello spazio indiano. Qualche settimana dopo, il mondo ha saputo che si trattava di un Embraer Phenom 500, un business jet pilotato dal figlio ventiduenne di un ricco imprenditore pakistano, partito per un’escursione non autorizzata da un aeroporto militare.
La Cina richiama il personale diplomatico dall’India, accusandola di aggressione ai danni dell’amico Pakistan; meno di un mese dopo, un Tupolev-154, unico apparecchio operativo per i voli a lunga percorrenza della Tajik Air, decolla da Dushanbe con destinazione New Dehli. Primo aereo acquistato dalla nuova gestione cino-kazaka che l’ha rilevata dopo la seconda bancarotta. Tre caccia cinesi Chengdu in forza all’aviazione pakistana affiancano il volo TJK620 durante il sorvolo dell’Hindu Kush. Nella registrazione, i piloti si offrono come scorta fino ai confini dello spazio aereo indiano. Segnalano attività di gruppi paramilitari nella propaggine di Afghanistan che separa il Tagikistan dal Pakistan. Le perizie rivelano che la turboventola del Tupolev è stata raggiunta da una raffica dei cannoncini automatici causando il distacco dell’ala destra. Dei centocinquantaquattro passeggeri a bordo, solo una trentina sono indiani, cui s’aggiungono oltre sessanta cittadini cinesi. Undici giorni dopo, l’Air Tajik dichiara la terza bancarotta in tredici anni e Pechino rescinde i contratti militari siglati col Pakistan.
Delhi accusa il Pakistan di aver violato per una seconda volta la sovranità indiana. Ventiquattrore dopo, una colonna di ducento chilometri di blindati muove verso nord seguendo il corso del Brahamaputra, mentre, a est, i nuovi Iskander-9 termobarici colpiscono le postazioni pakistane sul ghiacciaio. Il Pakistan risponde col lancio di razzi non guidati e missili cruise del sistema Rubezh contro villaggi e installazioni all’interno della zona de-militarizzata del West-Ladakh, nel Kashmire indiano. Il sesto giorno di guerra, cinque missili Agni-V a lungo raggio con testata convenzionale risalgono i silos della base off shore di Wheeler Island per bucare l’atmosfera a dodici km/s. I China Killer,che tanto entusiasmano la stampa occidentale, si liberano del secondo stadio appena raggiunta l’orbita terrestre bassa. Il primo ricade sul bersaglio oltre il regime transonico: l’Accademia per allievi ufficiali della Marina, a Karachi. Il secondo s’abbatte contro un grattacielo di proprietà di una holding delle telecomunicazioni, il terzo contro un parcheggio multipiano. Uno non rientra in atmosfera e un altro affonda inesploso a largo di Guadalcanal.
Il Ministro degli Esteri indiano avverte: la prossima volta, potrebbe essere nucleare. L’aviazione pakistana replica vomitando duemila tonnellate di napalm e più di duecento proiettili al cloruro di cianogeno nelle acque del Brahmaputra. A contatto con l’acqua, il processo di idrolisi libera grandi quantità di acido cianidrico. Per aggiungere enfasi dove non servirebbe, i voice over dei cronisti di tutto il mondo concludono i servizi ricordando trattarsi dello stesso Zyklon B utilizzato nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Per la prima volta dopo secoli, la natura diviene un obiettivo sensibile. Ghiotto. Per l’India si tratta di un crimine contro l’umanità e la Terra stessa; per il Pakistan, un’inevitabile risposta all’utilizzo di missili balistici a lungo raggio contro obiettivi civili.
Il centro Simon Wiesenthal rimbrotta il mondo sull’utilizzo a sproposito del termine olocausto, invitano alla cautela e, possibilmente, all’invenzione di nuovi termini che non ledano la paternità di quelli già esistenti. La comunità internazionale teme che i reciproci pacchetti di sanzioni tra Delhi e Pechino possano allargare l’escalation al sopito conflitto dell’Aksai Chin, aperto nel sessantadue e ancora privo di firma conclusiva. S’aggrava l’emergenza idrica nello stato del Nepal.
Nei titoli a scorrimento compare l’annuncio delle Nazioni Unite sull’invio di un nuovo contingente di pace in Ladakh, da aggiungersi ai novemila soldati dell’Esercito Comune dell’Unione già stanziati – unico intervento internazionale reso possibile dal momentaneo ritiro del veto cinese.
La Commissione europea invita le parti alla pace ed esprime tutta la sua indignazione per la pioggia di fosforo sul villaggio indiano di Uri. L’India promette ritorsioni anche verso l’Unione se dovesse persistere del rifiuto di aderire al fronte economico anti-cinese. L’Unione predispone ottanta miliardi di aiuti per contrastare l’inflazione e il rincaro energetico, ma resta saldo il rifiuto di ogni richiesta di rottura della neutralità. Ieri, le prime vittime tra i Caschi Blu. Un autoblindo per il trasporto truppe è stato raggiunto da un missile balistico a corto raggio MGM-140; il veicolo colpito apparteneva all’Esercito Comune dell’Unione.
Nessuno che conosca, pensa lei. Riesce a disprezzarsi per questo picco d’egoismo per dieci secondi abbondanti. Poi, tutta la fatica che il solo sforzo di vivere riesce a strapparle arriva ad assolverla. Vivere è sempre più complicato, i problemi sempre più problematici, le soluzioni sempre più straripanti di numeri, le cose che vorrebbe, sempre più lontane.
È pomeriggio, alle sette di mattina il caldo ha già raggiunto la quota dell’insopportabile – e non piove da centosedici giorni. Ha due figli, una piccola e uno non ancora grande, si stanno preparando per andare al supermercato come se fosse l’apice della giornata. E, in effetti, lo è.
Il motorino dell’avviamento sfrigola, l’auto fatica a mettersi in moto. L’utilitaria coreana ha l’età di Marcel, il primo. Dieci anni. No, undici, deve correggersi. Tenere conto della crescita dei figli è più complicato che ricordare la data del parto, e ancora si stupisce di quante volte rimanga ferma all’anno precedente o salti al successivo. I trentasette gradi del pomeriggio sembrano sciogliere lo stagno. Qualche metro oltre la porta di casa il gel comincia a squagliarsi in una colata vinilica sulla fronte di Marcel. Mamma, ti prego, metti in moto, Julia boccheggia alla ricerca d’ossigeno mentre il fratello la assicura al seggiolino. La mamma insiste con la chiave fin quasi a piegarla, serra le mascelle per trattenere parole che non è pronta a spiegare.
Quand’era piccola i supermercati erano molto più grandi. Di tutti gli stravolgimenti avvicendatisi nei suoi quarantasei anni, la riduzione della superficie calpestabile e della dimensione degli scaffali è la cosa che più balza all’occhio. Raccomanda a Julia di non fare dispetti al fratello, vorrebbe portare a termine la spesa nel più breve tempo possibile e senza olocausti familiari. Cercate di essere amici, se non sapete essere fratelli. Lo schiaffo dell’aria condizionata li colpisce appena varcate le porte automatiche. Julia starnutisce, la prende in braccio per soffiarle il naso e la supplica di non prendersi una bronchite con questo caldo. Di non prendersi nulla che sicuramente passerà a lei. Il venerdì sera le scorte raggiungono il minimo prima dello scarico delle nuove forniture la domenica notte. Problemi di dazi doganali ed embarghi – il telegiornale ne parla tutti i giorni, tutto il giorno. Colpa del gigantesco fiume asiatico in via di desertificazione che lei non ha saputo indicare ai figli senza l’aiuto del satellite. Un fiume che dava da bere a mezzo continente, il continente che forniva al resto del mondo gran parte delle cose indispensabili alla sua sopravvivenza. Come possa l’emergenza idrica far impennare gas e petrolio è un mistero per molti. In ogni caso, una volta arrivate alla cassa le ragioni sono del tutto ininfluenti. Quando lievitano i prezzi degli idrocarburi, lievita il costo della corrente; e, se sale il costo della corrente, sale il costo di qualunque cosa. Ma l’acqua è un’altra storia. Per l’acqua tutto è possibile. Tutto è lecito.
L’acqua la prendiamo per ultima, dice. Selezionano gli articoli puntando la pistola ottica verso i codici a barre, si fermano appena raggiunti i centoventi euro. Sei euro e trentacinque per cinquecento grammi di pasta, sedici per una confezione di falafel vegani, nove per le Pringles al gusto avocado e gamberi di Marcel, ventisette per settecento grammi di fesa di vitello. Per l’acqua devono superare le casse automatiche e percorrere il tunnel che porta all’impianto – isolato in un complesso apposito da una legge dell’Unione, per ragioni di tutela ambientale. Inserisce la scheda nel totem, il display mostra la quota d’acqua spettante e un tasto virtuale aziona il nastro trasportatore. Dodici bottiglie d’acqua fino al giovedì successivo, più la mora per non aver riconsegnato i vuoti.
Il televisore è rimasto acceso sul canale di breaking news, gli stessi servizi trasmessi a rotazione continua, in attesa che una sciagura dell’ultima ora fermi la ruota. Un reportage sulla terza generazione di torri di sorveglianza del confine li accoglie appena entrati. Strasburgo rassicura che la costruzione delle barriere di dissuasione migratoria non si fermerà, nonostante i tre milioni di indo-pakistani fermi alla frontiera con l’Iran e altri ottocentomila trattenuti in Bulgaria. Rinnovato il presidio ONU sul fiume Indo, a seguito di ulteriori riduzioni dei volumi. Sempre più duro il prezzo imposto all’Unione europea dal conflitto tra India, Cina e Pakistan per il controllo del bacino idrico del Brahmaputra e del Siachen. Triplicato il prezzo dell’alluminio dopo le drastiche riduzioni delle esportazioni di bauxite verso l’Europa imposte dal governo indiano. Il prezzo di riso e frumento cresciuto di diciotto punti percentuali nel primo trimestre. Qualche ingegnere rilancia il mai dimenticato progetto di prosciugamento del Mediterraneo chiamato Atlantropa. Per qualche avveduto, ancora l’unica idea virtualmente capace di consegnare l’Europa all’indipendenza idrica. Dal millenovecentoventisette, solo qualche fumettista ha osato riesumarlo. Continua l’occupazione di migranti siriani, yemeniti, indiani ed eritrei dell’isola di Lesbo, nonostante le ripetute raffiche delle fregate greche impegnate nel blocco.
La Terra non è più posto in cui far crescere i figli. Il che, in qualche modo, spiega abbastanza bene perché gli europei abbiano smesso di farne.
Il desiderio di Julia di aiutare sua madre non l’aiuta a raggiungere il frigorifero, rimbalza interdetta tra la porta del congelatore e il forno, senza riuscire ad afferrare niente. La mamma chiede a Marcel di darle qualcosa da fare. L’accontenta stizzito e la porta con sé sul divano, di nuovo davanti al telegiornale. Un uomo ha ucciso la famiglia col gas e si è gettato con l’auto da un ponte.
Quante volte ve l’ho detto, non voglio che guardiate il telegiornale!
Ma tu e papà lo guardate sempre, che cazzo!
Ma come parli? Chi te l’ha insegnato?
Tu. E papà. Le pareti sono sottili.
L’esternazione raggela la madre come se a pronunciarla sia stato un caustico omino verde nascosto nella bocca di un bambino.
Comunque, non voglio che tu le dica. Cambia canale, metti i cartoni, una di quelle trasmissioni in cui insegnano a disegnare, un film. Quello che ti pare ma non il telegiornale. Sei l’unico bambino di dieci anni che preferisce il Tg ai cartoni, bofonchia, affrettandosi a incastrare i surgelati in congelatore.
Ne ho undici.
Julia si è alzata, ha attraversato la sala come un gatto ed è sparita. La madre non nota anomalie passando accanto alla porta del bagno. La prima volta. Lo scroscio dei rubinetti aperti, l’acciaio appannato dalla condensa, nel bagno si consuma una delle tante sciagure che i bambini non sono capaci di riconoscere. Quelle che accadono un mese, e si pagano quello dopo.
Ma che cazzo stai facendo! Allunga il braccio per chiudere il rubinetto della vasca nella quale Julia si sta rotolando vestita. Il timer ha quasi raggiunto i venticinque minuti, un quarto della disponibilità giornaliera per uso igienico del nucleo famigliare. Cazzo, cazzo, merda! Potrebbe vantare un vocabolario più ricco, ma sono le uniche parole che giudichi accettabilmente ripetibili dai figli; non immagina quanto siano scesi a fondo nell’esplorazione delle orribili espressioni che gli adulti adorano usare. Mette il tappo alla vasca e strizza all’interno gli asciugamani usati per tamponare il pavimento. Stasera lo fai tu il bagno in questa pozzanghera.
In cucina, ferma Marcel intento a riempire un bicchiere da bibita sotto al rubinetto. Cazzo, cazzo, merda, tuona ancora cervello, ma le labbra non si muovono.
Ti ho preso l’aranciata! Dammi una mano almeno tu che capisci quello che dico.
Ma è in frigo da cinque minuti, sarà piscio.
Non diventerai grande più in fretta, parlando in questo modo.
Julia ti capisce, solo che decide di non ascoltarti. È come un gatto.
Tutti i figli diventano gatti, prima o poi. Lei si è evoluta presto.
Sì, mamma, accondiscende Marcel, senza il minimo interesse. Inclina la bottiglia e innaffia la gola con una cascata di sciroppo vermiglio al gusto di arancia rossa e destrosio. Il volto si storce fino a catalizzare tutte le volgarità che conosce.
Adesso sparite in camera e accendete il condizionatore. Devo telefonare a papà, cercate di fare i bravi. I bambini imboccano le scale, lasciano sfumare la minaccia. Rovista nella borsa finché le dita urtano contro qualcosa di squadrato, estrae il telefono e chiama Theo.
La connessione del pilotaggio remoto salta di continuo. A Theo servono tre tentativi per connettersi al drone Sentinel sganciato da un C-130 a mille e rotti chilometri dall’autoblindo sul quale è seduto. Un metro fuori dal quadrante satellitare evidenziato in rosso sul secondo monitor, le Nazioni Unite non possono garantire il rispetto degli accordi internazionali. Alle spalle di Theo, il capitano della III Brigata telecomunicazioni dell’Esercito Comune riceve in cuffia il suo superiore che si serve di lui come fosse un amplificatore. Spostati sul quadrante otto, sali un po’.
Salgo a quota milleseicento, conferma Theo.
Segui il corso del Brahmaputra verso monte. Ecco, ora scendi di nuovo sulla risaia.
L’occhio dell’aeromobile sorvola una distesa di bufali d’acqua affossati nel fango, l’obiettivo indugia sulla sagoma raffreddata e senza calore di un ragazzino.
Nessun foro di proiettile o cratere da esplosione, comunica Theo.
Hanno usato ancora il soman sul bestiame, commenta il secondo operatore.
Venti munti dopo, l’occhio dell’aeromobile è tornato sul fiume. Le rapide rigonfiano la barriera di schiuma gialloverde ostacolata dalle rocce.
Di nuovo il fosforo giallo, questi sono i pakistani, dice Theo.
Meno speculazioni, li redarguisce l’ufficiale. Se avete ragione, tra qualche ora lo scopriremo. Gli indiani si vendicheranno.
Lo hanno fatto anche sul Nubra e sullo Shyok, incalza l’altro operatore.
A che punto è la tua compilation di esplosioni? Hai scelto la colonna sonora?
Sono a quota centosessantuno. Le migliori sono quelle sopra i seimila. Non c’è mai stata una guerra combattuta tanto in alto. E la tua, Theo?
Mi sono stufato dopo la quinta.
Il collegamento salta di nuovo, Theo lascia cadere le cuffie e dice al suo secondo di riconnettersi. Il Sentinel ha altre quattro ore di autonomia prima che il sistema inizi di default le manovre di rientro. Sente vibrare il cellulare nella tasca e smonta dal blindato per rispondere.
Lui esordisce con un amore mio che, per una volta, non ha nulla di rituale. Ci arriverà un’altra multa, annuncia lei; niente preamboli. Altri duecentosessanta, precisa, la seconda della settimana. Fa caldo anche qui, sono bambini, questo è l’unico mondo che conoscono. La lontananza aiuta lo spirito di comprensione: comodo così, vorrebbe rispondergli. Gli ricorda che il gas è aumentato del quarantasette percento, e che devono ancora saldare le rate delle scorse vacanze. E il divano, e il televisore. Sapevamo che sarebbe potuto succedere, Theo: dobbiamo vendere la casa. Questa ha due bagni, non possiamo permetterci due bagni, da quando hanno messo i timer l’acqua costa come mantenere un’altra macchina, e pure quella sta tirando gli ultimi. Cerca di stare calma, Matilde. Il caldo rende difficile fare piani. Sì, il caldo, inspira lei. Un attimo di silenzio per ricomporsi in un falsa rassegnazione. Ma il freddo non ci aiuterà.
Il freddo non aiuta mai.
Muoviti, tenente, è successo qualcosa. Il capitano spalanca il portellone del blindato a otto ruote. Theo tronca la telefonata senza congedarsi e rimette in tasca il cellulare. I sistemi funzionano, ma non c’è segnale. Nessun segnale. Theo sale due pioli della scala per affacciarsi sopra il tetto. L’antenna a dipolo ha smesso di girare. Il bagliore lo acceca. Ma non è un bagliore. Non si può chiamare bagliore qualcosa che persiste come una piccola stella fissa, una nana bianca che divora la luce piuttosto che emetterla. Un soffio di polvere desertica lo sferza. È calda, ma non tanto calda da spiegare quanto riesca a penetrare in profondità nella carne, quasi fosse nudo davanti a un falò e non indossasse dieci chili di materiali di protezione. Intorno è buio, buio davvero. Il capitano lo trascina di nuovo dentro al blindato. Il gambo assottigliato s’impenna dal suolo, si delinea l’anello, perfettamente regolare, di quelli che i fumatori professionisti fanno schioccando la lingua. Appena sopra, le nubi che rigonfiano il cappello sembrano risucchiare se stesse in una bocca di polpo. E pare quasi cosa viva.
Giacomo Cavaliere nasce a Torino il 16 luglio 1995. Si è occupato di esposizioni collettive e personali d’arte contemporanea, sia in qualità di curatore e addetto stampa, che di autore di critiche e recensioni per spazi espositivi e gallerie. È stato membro della redazione storica di Frammenti-Rivista e si è occupato di editing per altre riviste. Alcuni racconti sono apparsi su l’inquieto, Bomarscé, Malgrado le mosche, Sulla quarta corda, Waste, Narrandom, Neutopia, Il mondo o niente, Blam, Spaghetti Writers. Quaerere e altre. Riceve il Premio della Giuria del concorso “InchiostroNoir 2022” della Città di Verona, indetto dalla rivista Inchiostro. Nello stesso anno compare tra i finalisti di “Mensa in Fabula”, premio organizzato dall’Associazione Internazionale Mensa.