La regina muore

REGINA ELISABETTA II: È la fine. Io muoio. La regina muore. Speravo di pronunciare qualche bella frase storica. Mi attribuiranno belle espressioni altrui. All’occorrenza le inventeranno. Ciò che deve finire è già finito. Dimenticheranno prima.

E il popolo? II popolo è informato? L’avete avvertito? Popolo, io devo morire!

Ho mal di testa, per soprammercato. E quelle nuvole… Avevo proibito le nuvole. Nuvole! Basta pioggia. Ho detto: basta. Basta pioggia. Ho detto: basta. Non c’è più tempo. Il tempo si è sciolto nella mia mano. Dicevano che avrei avuto tutto il tempo…

Credo di essere la prima a morire. Ma ciascuno è il primo a morire. È la fine. Mi restano soltanto 393 parole e qualche aggettivo.

Ho fatto centottanta guerre. Alla testa dei miei eserciti, ho partecipato a duemila battaglie. Prima su un cavallo bianco, con pennacchio rosso e bianco, molto vistoso, e non ho avuto paura. Poi, quando ho modernizzato l’esercito, in piedi su un carro armato o sull’ala di un aeroplano da caccia, alla testa della formazione… Senza parlare di tutte le guerre disastrose. Mentre i miei soldati ubriachi dormivano, di notte, o dopo i copiosi banchetti delle caserme, i vicini spostavano i paletti di frontiera. Il territorio nazionale si è rimpicciolito. I miei soldati non volevano più combattere.

Che io esista, magari col mal di denti, per secoli e secoli. Non si può lottare contro la fatalità. Ahimè, è la fine. Ciò che deve finire è già finito. No, non si piange abbastanza attorno a me, non mi si piange abbastanza. Che tutti sappiano a memoria la mia vita. Che tutti la rivivano. Che scolari e sapienti non abbiano altro oggetto di studio all’infuori di me, del mio regno, delle mie imprese. Che si brucino tutti gli altri libri. Il mio ritratto in tutti i ministeri, negli uffici di tutte le sottoprefetture, presso gli esattori delle tasse, negli ospedali. Che si dia il mio nome a tutti gli aeroplani, a tutte le navi, a tutte le macchine da guerra. Che tutte le altre regine, guerriere, poetesse, filosofe, soprani, siano dimenticate ed io sola sia in tutte le coscienze. Che s’impari a leggere sillabando il mio nome. Un solo nome: E-li-sa, Elisabetta. Che tutto muoia con me, no, che tutto resti dopo di me.

Ritornerò forse? Forse ritornerò. Che si conservi intatto il mio corpo, in un palazzo, sul trono, e che mi si rechino libagioni. Quanto tempo durerà il ricordo, se ci si ricorderà di me? Voglio che duri sino alla fine dei tempi. E dopo la fine dei tempi, ventimila anni, duecentocinquantacinque miliardi d’anni… Così comincia il delirio. Ma è già la fine.

C’è una crepa nel muro. Anch’io crepo.

Tutto è passato. Persino oggi era ieri. Non abbiamo tempo per prendere tempo. Finiti i folleggiamenti, finiti gli spassi, finiti i giorni belli, finite le scorpacciate, finiti gli spogliarelli. Tutto finito. Io muoio. All’inizio del mio regno, c’erano nove miliardi di abitanti.Erano un po’ troppi. Non c’era più posto…

Non ho più un momento da perdere, evidentemente, dato che è l’ultimo. È già finito.

Testo adattato da “Il re muore” di Eugène Ionesco, tradotto da Gian Renzo Morteo, pubblicato per Giulio Einaudi editore nel 1963.

Alessandro Sbordoni è nato a Cagliari nel 1995. Alessandro collabora con la rivista inglese Blue Labyrinths e la rivista italiana Charta Sporca per cui ha pubblicato estratti del suo lavoro più recente, la Semiotica della fine. Per DROGA ha pubblicato Semiotica della fine: vaporwave e capitalismo. Alessandro vive e lavora a Londra.