Una volta – più volte, a dire la verità – mi sono fatta infilare degli aghi nella pelle. Sotto pelle. La prima volta me la ricordo bene, è stato come rompersi l’imene una seconda volta, ri-perdere la verginità. Assestarmi su un nuovo equilibrio. Tutto il mio corpo trafitto nel silenzio di una camera da letto nonostante il rumore del sesso, ansimavo, sorridevo, ero spaventata. Ero felice. Piangevo. Cercavo quel dolore da tempo e finalmente l’avevo trovato. Quella sera non lo volevo né tantomeno me lo aspettavo. Dopo averlo agognato per tanto tempo e aver tentato di rinvenirne un germe nelle persone (negli amanti) avevo smesso di lasciarmi sopraffare. Ma a un certo punto era lì, quel dolore, sotto forma di aghi e lame che mi penetravano la cute e sangue sgorgante e mani amiche che cercavano di darmi sollievo. Ricordo il mio braccio non tatuato forato da aghi disposti in fila uno dopo l’altro, che disegnavano delle forme geometriche, rombi, o a forma di stelle, all’altezza dell’avambraccio. Era bello. Mi procurava una strana gioia vedere il mio corpo ricoperto di ferite. Ricordo gli aghi all’altezza dell’ombelico e lo spasmo fortissimo che avvertivo quando mi venivano introdotti nella pelle. Li ricordo sulle mie cosce, cinque da un lato e cinque dall’altro, sembrava volessero incrociarsi così da creare un solo organismo. Le braccia tenute ferme. La metamorfosi del mio corpo.
L’esperienza di un dolore talmente forte da farti sentire le vertigini a un certo punto finisce col diventare un tutt’uno con la tua pelle. La tua pelle e il tuo corpo non ne hanno mai abbastanza ne vogliono sempre di più non si accontentano. Lo esigono. Allo stesso modo mi è parso che lo ricercasse la protagonista-io narrante Lidia Yuknavitch in La cronologia dell’acqua, il suo ultimo libro, e che quest’ultimo sia un tentativo di ripercorrerne i transiti, senza mai volerlo esorcizzare. Credo che il bondage – una delle tante figurazioni plastiche del dolore di Lidia, la protagonista – sia anche questo: una forma di riappropriazione del (proprio) dolore, ma su questo altre studiose e studiosi vi saprebbero dire molto più di me. Per un po’ di tempo mi sono anche domandata perché desiderassi così ardentemente una simile forma di annientamento – spesso capitava che la pratica degli aghi nella pelle provocasse vera e propria sonnolenza (un’amica se li faceva mettere prima di andare a dormire) oltre che sfinimento psicofisico e debolezza. Quando te li tolgono perdi sangue, alcune volte anche tanto sangue, si formano dei lividi che restano per giorni. Forse la cosa che più preferivo era guardarmi allo specchio i giorni successivi ricercando le prove di quel dolore-piacere che mi era stato inferto.
“Il desiderio nel mezzo? Lo provavo nei lividi e nei tagli e negli arrossamenti impressi sulla pelle per settimane. La storia della mia pelle”. La storia della pelle di Lidia è diventata grossomodo anche la mia, man mano che andavo avanti nella lettura del suo ultimo libro. Ho sentito il suo dolore (e disagio) quando raccontava delle prime volte in cui provava eccitazione negli spogliatoi della piscina alla vista dei corpi delle altre ragazze; quando annullava sé stessa nell’alcol e nelle droghe o quando si abbandonava sott’acqua quasi morente ma “leggera e senza peso” durante una gita con il kayak o nell’oceano. O quando voleva farsi spingere al limite della morte e del proprio “io” nelle svariate sedute di bdsm consumate con una donna più grande di vent’anni: gli unici momenti in cui il suo corpo esplodeva in pianti purificatori e catartici.
Mettere in primo piano senza filtri e in maniera cristallina l’esperienza del dolore. L’esperienza del dolore sulla pelle e ciò che provoca sul corpo e sulla persona nel corso del tempo. È come se la spudoratezza con cui Lidia si racconta mi avesse “aiutato” – e lo sta tuttora facendo, a distanza di mesi – a tornare, senza ansia, su questa ricerca (del dolore) che porto con me da tanto; a capirne la complessità, gli intrecci, i caratteri anche più torbidi, quelli con cui solitamente non voglio avere a che fare. E credo non possa che essere diventata la storia di chiunque ne abbia fatto esperienza nella propria vita, ognuno a suo modo. Yuknavitch riesce a far vibrare la pagina e il dolore sulla pagina attraverso la sua scrittura. La sintassi spezzata, il ritmo incalzante di certi passaggi – i momenti meno “lineari” sono quelli in cui entrano in gioco gli ingranaggi della memoria a confondere e offuscare ancora di più le cose – e lo stile tragico e ironico anche quando a essere raccontati erano la dipartita del padre o la morte della figlia nell’utero sono solo alcuni dei caratteri che più magnetizzano. Anneghiamo nelle pagine di Lidia Yuknavitch così come lei annegava ogni volta che tratteneva il respiro o “risorgeva” in momenti particolari della sua vita. Raccontare il dolore significa raccontare qualcosa di informe e indefinito, come ha scritto Alessandra Castellazzi, la traduttrice di La cronologia dell’acqua, qualcosa che spesso si ha difficoltà a razionalizzare o a riportare agli altri. La scrittura è il solo mezzo, proprio perché “nelle sue contorsioni, nelle sue resistenze e bugie, nei suoi desideri interminabili, continua e continua”.
La scrittura è servita a Lidia per allontanare la voce di suo padre, di un padre abusante e violento che nel libro descrive come architetto premiato con le “mani delicate da artista” e allo stesso tempo “uomo di merda”. Caso che vuole che alla fine il padre perda le memoria – è anche sull’elaborazione di una memoria compunta e dei traumi e delle violenze che si dispiega il viaggio di Lidia – e che proprio quella figlia che aveva cercato in tutti i modi di allontanare quei ricordi attraversando più e più volte il dolore, ecco, caso vuole che proprio lei avrebbe dovuto salvarlo. Di nuovo. “Guardare il dolore e percepire il dolore era la cosa più importante che mi fosse capitata sulla pelle fin dall’infanzia”: guardando il padre che puniva lei la sorella e sua madre e la madre che si annebbiava nell’alcol e quasi tutte le sue relazioni finite male il corpo di Lidia ha appreso qualcosa. Ha registrato e cicatrizzato. Il corpo congelato dal freddo delle piscine olimpioniche, il corpo dilaniato da una rottura precoce dell’imene e il corpo materno inatteso. Prima della scrittura, quindi, c’era il corpo a “parlare” al posto della persona, portando con sé ciò che rimaneva di una donna spezzata.
Elvira Del Guercio studia lettere moderne. Ha collaborato con alcuni festival di cinema come giurata e selezionatrice e si occupa di studi di genere. È nella redazione del trimestrale di critica cinematografica Uzak e suoi articoli sono apparsi su Cinefilia Ritrovata, il magazine online della Cineteca di Bologna, Cineforum e Fata Morgana Web. Scrive di cinema e letteratura per Il Tascabile, Nido Magazine e Point Blank.