Vorrei tenere le tue mani tra le mie.

Quella notte il cielo aveva bisogno di un’autopsia. Chi sa se lo pensavi anche tu, tesoro, che ora te ne vai urlando da una stanza all’altra come un gatto in fiamme. Avvicinati. Ricordiamo il nostro primo incontro. Prova a calmarti, stai sporcando tutto. C’erano i fuochi in cielo, ricordi?, c’era un anno che sfilava via dietro i miei occhi gonfi e bagnati, dietro il tuo sorriso di ragazza che tanto ha riflettuto sull’importanza della propria realizzazione, che ha accettato un po’ di sano egoismo per stare finalmente bene con se stessa e allontanare la negatività, mentre magari intorno a te qualcuno è crollato come un vecchio edificio in rovina.

La nebbia cullava il ferro dei binari del tram sulla Casilina, avvolgeva le case basse abusive in quelle terre devastate cresciute all’ombra dell’acquedotto che collegano Pigneto e Tor Pignattara a pezzi di quartiere senza nome. Non avevo mai vista una nebbia del genere a Roma. In queste zone, però, non ha nulla di gotico. Ce lo avrebbe se fossimo, che so, a Via Nizza, dalle parti di Villa Albani, al Coppedè; insomma, in quei posti là, dove ci sono le signore con la tinta per capelli di buona qualità, almeno ottanta euro taglio compreso, non quella dei barbieri indiani a quindici euro taglio compreso, che nel giro di un mese fanno spuntare un’isola bianca al centro della testa, come una pianta con le foglie mangiate da un fungo.

Insomma, qui la nebbia è altra cosa. Assomiglia poco al fiato esalato da una terra maledetta. Mica Algernon Blackwood ci potrebbe ambientare un racconto da queste parti. Tra i materassi dei bangla vicino ai cassonetti – ma quanti sono, cosa ci faranno con tutti questi materassi – l’asfalto crepato, le pompe di benzina abbandonate, la nebbia sale come la polvere che si alza dalle macerie di una città distrutta.

Dovresti smetterla di urlare in questo modo, ti rende così brutta, ti si deformano i tratti, i fili di saliva collegano i denti e la tua bocca diventa una cella con le sbarre. Stai sporcando tutto il mio monolocale che, va bene, per carità, non è granché, ma almeno è pulito. Vieni qui, invece, continuiamo a ricordare. Costruiamo la storia del nostro incontro, e narrando la memoria, finzionando i ricordi, facciamo scomparire la morte.

Camminavo guardando per terra. Scuotevo la testa, parlavo da solo, bestemmiavo. I fuochi d’artificio sparati da chi sa dove davano alle nuvole un colore malato. Avevo finito il turno al bar da nemmeno un’ora, la faccia chiusa dentro il cappuccio del piumino come un eschimese. Probabilmente tutti gli uomini soli sui bordi di una strada ad alto scorrimento riflettono sui propri fallimenti.

Che bello il neon del Carrefour. Un’oasi nel deserto, una piccola Las Vegas che vive come un tumore brillante nel fianco della città sacra. L’ambiente che lo circonda sembra costruito apposta per farlo risaltare. Guardando dalla Casilina verso sud, un vecchio palazzone fa da contraltare alle luci del supermercato. Ha lo stesso colore del cielo quando la sera trattiene la pioggia da ore come un vecchio che cerca disperatamente di non pisciarsi addosso. Non conosco nessuno che ci abita, tranne un tizio che si fa chiamare Gionni Casilina ma di cui non so molto altro.

Adoro i posti che rimangono con le luci accese di notte quando sono chiusi. Mi hanno raccontato che ci sono persone che si nascondono magari nella sala dei contatori, aspettano che il supermercato chiuda, che i dipendenti tornino a casa, poi escono e fanno scorta di cibo, fanno le gare coi carrelli, corrono e giocano, a volte fanno sesso, oppure fanno finta di essere dei cassieri e dei clienti, insomma, per quelle poche ore della notte, prima di tornare a vivere nei condotti di areazione o nei magazzini sotterranei, sono felici; poi, con salami, dolci, utensili per la casa, ripagano l’addetto alla sicurezza incaricato di guardare i nastri delle telecamere a circuito chiuso.

Te lo ricordi, ci siamo incontrati più o meno a quell’altezza, dove ci sta il ristorante cinese coi noodles a due euro, buonissimi, chi sa se li hai mai mangiati, ma mi sa che tu non sei di queste parti, vero? A ogni modo, ricordi, io camminavo così, intabarrato, pensando alle cose mie, a cose brutte, cose che risalgono a quando ero piccolo, ma che si collegano a cose di quando ero grande, come un lungo filo che gronda merda e sangue. Era come se potessi sentire, intendo in forma di suono, quel paesaggio di nebbia e neon, di botti in lontananza che danno al silenzio un suo timbro peculiare.  Questa scena, che probabilmente tu non riesci a capire, perché per afferrare ciò che sto dicendo dovresti aver studiato i lavori di John Cage, aver ascoltato e compreso la musica post-industriale, Edgar Varèse, la fotografia di Antoine D’Agata e un sacco di altra roba di cui non sai un cazzo, era stato interrotto dalle risate di te e degli amici tuoi. Forse eri ubriaca. Camminavi come una scema. I tuoi amici mi hanno superato, tu ti sei fermata, mi hai sorriso, ti sei avvicinata e mi hai detto ciao. Avevi due pupille come una rana. Però eri bella. Io ti ho detto ciao. Ma con quel punto interrogativo che, se fossimo in un film pieno di meta-boiate tipo Quentin Tarantino, sarebbe spuntato accanto alla mia faccia. Mi hai detto buon anno, non essere triste, poi ti sei avvicinata, mi hai abbracciato, io ho sentito tutto il buono dei tuoi capelli color miele che hanno solo le ragazze di Piazza Vittorio o al massimo di Corso Trieste, poi con delicatezza mi hai preso il viso tra le mani, bellissime mani piene di anelli, con la pelle che vibra, io pensavo solo cose volgari, tipo quanti cazzi avevi preso tra quelle dita e se ne avresti toccati altri dopo il nostro incontro, ma tu, dicevo, con le pupille da rana, enormi e scurissime, il sorriso ancora più grande, mi hai detto che tutto sarebbe andato bene. Poi te ne sei andata.

Credo di non aver mai pianto per così tanto tempo di fila. Quando ho finito sentivo che avevo esaurito tutto, che non avrei più versato una lacrima fino alla morte. Non sai per quanto tempo mi sono caricato sulle spalle il peso del buio.

Dopo quella notte non ci siamo più incontrati, nemmeno nella folla, per qualche via o in qualche locale; me ne sarei accorto, perché ti ho pensata spesso, anzi, sempre, ti ho pensata sempre, fino a oggi il tuo volto è stato l’ultima immagine della veglia, la prima del mattino. Incontrarti dopo dieci minuti o dopo anni per me avrebbe significato lo stesso. Per questo, quando ti ho scorto oggi pomeriggio che guardavi la vetrina di una libreria, indecisa se entrare, pur a distanza di mesi, meno infagottata in sciarpe e guanti, non ho avuto dubbi. Eri tu. Nemmeno mi hai riconosciuto quando mi sono avvicinato. Avevi lo sguardo interrogativo, ma sei stata brava ad aspettare che io mi sbilanciassi, riportandoti alla mente quella notte, così che tu potessi dire “certo che mi ricordo, come stai”, ma lo so che il tuo ricordo è l’eco di un quasi nulla, di una parentesi di contorno alla tua notte. Le persone come te, vedi, cercano sempre un significato alle cose. Ma è proprio così che ti perdi tutto ciò che ti accade. Però anche io sono stato bravo. Ti ho detto che ero stato licenziato (pensa te, cominciare l’anno perdendo il lavoro, roba da prima pagina su Repubblica), e che quelle tue parole mi avevano fatto così bene, mi avevano dato una speranza. Tu hai sorriso; non avevi la bocca a cella come ora.

Dai, però, non te ne stare così, tutta accasciata per terra, ti stai inzuppando.

Per un attimo ho pensato di piacerti. Hai accettato facilmente di salire a casa. (A proposito, le poesie di Cristina Campo sono sullo scaffale vicino al citofono. Hai fatto bene a fartele prestare invece di buttare venti o trenta euro in libreria). Saremmo potuti essere una bella coppia, se non ci fosse stata la questione delle mani. Ancora sento quel tocco sulla pelle fredda illuminata dagli ultimi fuochi in cielo, salata da un pianto intermittente che andava avanti da tutta la giornata, o forse da tutta la vita, come la sabbia dopo l’alzarsi dell’onda in inverno.

Ma come ti può venire in mente di dire a uno sconosciuto andrà tutto bene, di abbracciarlo, fargli una carezza e poi andartene. Forse pensavi che stessimo in qualche fiction sulla RAI, di quelle che piacciono ai figli e ai nipoti di politici del centrosinistra, o in quegli spot girati da registi tipo Paolo Genovese. Tu non sai quanto una carezza sbagliata possa bruciare la pelle con un fuoco eterno e invisibile. 

A ogni modo, siamo entrambi vegetariani, come ti stavo dicendo poco fa, prima che cominciassi a strillare in questo modo. Ti avrei cucinato tante cose buone. Soprattutto adesso che ho comprato questa mannaia da un alimentari asiatico vicino casa. Mi piace che sulla parte piatta è inciso un ideogramma, come quelle dei film di kung fu dove il cuoco nei ristoranti è sempre anche un membro della Triade pronto ad agitare la mannaia con i baffi lunghi e sottili che si agitano al vento e la bocca aperta in un grido formato da due sillabe tipo uaaa. Con questa, ieri, ci avevo affettato dei funghi Shitake. Li avevo prima fatti bollire, poi li ho ripassati nel Wok e poi li avevo adagiati su quel tagliere che sembra la sezione di un tronco d’albero, lo stesso tagliere su cui prima hai poggiato le tue mani perché, dicevi, ti piaceva tantissimo, e volevi sapere dove l’avessi comprato, e dicevi che ti piaceva sentirne la consistenza, le fibre del legno, così ci hai steso le mani sopra, ben distese con il palmo adagiato sulla superficie, quelle mani che con il potere di una carezza avevano fatto scoppiare dentro di me una tempesta.

Il primo colpo non le ha tranciate entrambe di netto come invece mi sarei aspettato. Solo la destra, essendo la più vicina a me che ti stavo di fianco, e quindi quella che sono riuscito a prendere meglio, è caduta per terra sporcando più degli zampilli del moncherino. Ma tu eri talmente attonita che sei rimasta lì, immobile nella stessa posizione per qualche secondo, con gli occhi sgranati, un sibilo ti si è formato nella gola – non ancora un urlo, soltanto un sibilo, come larva di orrore –  e, premendo con forza da dentro, è fuoriuscito con un timbro affilato, come fosse sprizzato dai pori della pelle invece che dalla bocca. Ne ho approfittato, ho colto l’attimo, come si dice, e con il secondo colpo è andata via anche l’altra mano. È stato come lo sparo di una pistola sulla pista d’atletica. Hai cominciato a correre avanti e indietro, cadevi e ti rialzavi, ho pensato che ti saresti potuta fare male sbattendo contro qualche spigolo della casa, così mi sono avvicinato per tranquillizzarti, ma tu mi hai dato un calcio, provando poi a colpirmi con quei moncherini. Agitando le braccia in quel modo non hai fatto altro che riempire la cucina di schizzi e macchie rosse, pois gocciolanti sulle sedie e spruzzi sui miei vestiti. Eri buffa. Quegli arti incompleti sembravano due grandi pennelli; mi hai ricordato un video su Pollock che ho visto su YouTube in cui veniva spiegata la sua tecnica di pittura. Si chiama dripping, lo sapevi?, insomma, per spiegarti, grossomodo è quello che stavi facendo tu. Però il calcio mi ha fatto rimanere male, volevo solo aiutarti.

Ora vedo che ti stai calmando, forse sdraiarti un attimo ti ha fatto bene. I tuoi occhi sembrano più chiari, come se un velo di zucchero fosse comparso di fronte alle pupille. Ti prendo una coperta perché quei tremori lenti e regolari che hai intorno al busto non mi convincono, credo tu abbia preso freddo e ti stia per arrivare un bel raffreddore. Mi dispiace, saremmo potuti essere una coppia bellissima. Avrei imparato tante ricette da cucinarti. Se solo, se solo, se solo…

Però, che belle mani che hai.


Simone Sauza si occupa principalmente di cinema e critica culturale. Ha collaborato con L’Indiscreto, Linkiesta, Sky Italia e altri. Il suo Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale è stato pubblicato da poco per Nottetempo.