Ogni giorno uno sparo in meno, un boato in difetto. Il fucile si sta scaricando, la ruggine, la motozappa ingolfata, le mani chiuse, i pugni chiusi. Piove.
Cuffie nelle orecchie, ascoltavo la composizione di un mazzo di fiori: uno bianco, uno rosso, poi ancora arancione e giallo, un amalgama sobrio e caldo, una sequenza di geni-termosifone sulla passerella delle frequenze, “siamo arancioni” ma non ne siamo convinti.
Il nonno sonnecchia sul divano. La sua postazione è sempre la solita: lato destro del divano biposto. La seduta ha la forma della sua assenza di sedere. È come se sul divano si accomodasse un comodino tedesco stereotipato, senza curve, composto esclusivamente da linee rette incastonate l’una nell’altra, erette ma distese, con le guanciotte rosse. Il telecomando in mano, scocciato, il volume finalmente accettabile.
È ottobre, quasi novembre. L’altro giorno dei manigoldi ci hanno tirato una confezione di estathè nel giardino. Potrebbe essere un messaggio – infami – un’ammonizione, un tentativo di sovvertire le leggi delle stagioni. O forse siamo noi a sbagliare, a tentare di ribaltare la natura. Che poi: cosa vogliamo ribaltare? Ne abbiamo la forza? POSSIAMO?
I pomodori. Abbiamo una fissazione per i pomodori, non ne possiamo fare a meno: li guardiamo, li portiamo all’altezza del cuore, proviamo un baratto d’organi che non può funzionare e poi ci accasciamo al suolo preda di malesseri evidenti. Questi sono gli ultimi due esemplari viventi, gli ultimi due scesi in terra. Sono qui e ora – è banale. Che fare?
Il nonno si sveglia. Ha in mano il telecomando. Si alza agile, getta il telecomando sul divano, nell’incavo creato dalla pressione delle piccole mele, e si incammina fuori. Non piove più. È un periodo di vento vero, lungo e maledetto, le mani sempre secche e brutte e crepate male. Per terra, sulla ghiaia scivolosa, capannelli di foglie scivolose.
L’orto è laggiù: vuoto e pianura.
Il nonno ha le mani secche di cartavetro. Gli propongo di provare la mia nuova crema per le mani, un affarone per soli quattro euro. La confezione è piccola, bianca, blu, rossa, il prodotto nella sua versione scented.
– Nonno, la vuoi un po’ di cremina per le mani? – gli dico.
Ma lui rifiuta: – Macchè!
Poi si allontana, esce dalla copertura offerta dal terrazzo e inizia a raccattare le foglie. A mani nude, mani che affondano nel crepitio dell’autunno, mani vere e non profumate di portento norvegese. Le mani prendono in mano l’autunno – che delizia! – e ne fanno un bazar marocchino. Le proprietà plastiche e prensili del nonno mi esaltano. Le foglie non mi bastano più: aggiungo terriccio universale, ghiaia finissima e variopinta, acqua grigia di pozzanghera. È velluto d’autunno, rappreso da un cattivo lavaggio, incartapecorito.
Devo aver sbagliato qualcosa. Sto in silenzio per il resto del tempo mentre ricomincia a piovere.
Uno sparo, ancora uno in meno rispetto a ieri. Questo silenzio è insopportabile.
Niccolò Protti non dimostra l’età che ha. Gli piace scrivere e cucinare. Suo nonno fa l’orto.