Caducità del corpo bionico.

Proprio quando mi pareva di aver raggiunto una consapevolezza del tempo circostante, e una maturità critica ideale per addentrarmi — con una certa cognizione di causa — nell’attuale mondo fatto di pixel e rendering, alcune suggestioni mi hanno rivelato di non fidarmi dell’ennesima formulazione troppo frettolosa sullo spirito del tempo.
Decantare un passato di inalterabile purezza e presunta semplicità non mi ha mai affascinata: alle oasi naturali, ho sempre preferito le metropoli abbaglianti; alle lunghe passeggiate, ho sempre preferito mezzi di trasporto dai motori rumorosi; alle bellezze acqua e sapone, ho sempre preferito
quelle alterate; nella spontaneità, ho sempre ricercato il segno riconoscibile di un minimo artificio.
Tutte quelle persone che, al contrario di me, vivono credendo alla superiorità di oggetti “puri”, inalterati, a parer loro portatori di una verità primordiale, mi hanno sempre dato l’impressione di essere un po ingenue: c’è un’enorme leggerezza nel mondo digitale, una cruda realtà nell’incontro
tra media diversi, una certa purezza nella mutazione, una scorrevolezza nella pensosità, e — soprattutto — una pesantezza particolarmente opaca nell’elogio del gesto spontaneo.


La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.”


Mi sembra che oggi la cultura contemporanea abbia estratto quel che c’era di geniale nel controverso Manifesto Futurista, isolandolo dai princìpi bellicosi e intolleranti formulati da Marinetti, e si sia servito di quelle intuizioni per dare vita a una dimensione che esalti la velocità ma senza
escludere l’immobilità pensosa, che trovi spazio per la noia e la lentezza tra i codici di un server rapidissimo, che si serva del mondo oggettuale per dar voce al sogno; proprio come nelle immagini di un uomo che si riprende 24/7 mentre dorme o mangia, o come quel film sperimentale di Andy Warhol, Empire, in cui il bagliore accecante del grattacielo luccica instancabilmente per 8 ore e 5 minuti ore nel cielo di New York: la noia in un corpo mai spento e perennemente in mostra.

Eppure, io che sarei stata pronta a difendere il grandioso mondo virtuale dei social e l’arte digitale da chi li osserva con forti dubbi e pregiudizi, sono costretta ad arrendermi dinnanzi alle volontà dei miei compagni di viaggio: con l’evoluzione della tecnologia, tornerà di moda la “semplicità” e il
non-artefatto; i giovani ripudieranno il sarcasmo e preferiranno il romanticismo, escluderanno i nativi digitali e preferiranno gli obsoleti Millennials, si ricopriranno di stoffe e non di inserti metallici, smetteranno di voler somigliare a Grimes e vorranno somigliare più a Jane Austen, abbandoneranno i ready-made(s) e esalteranno l’arte classica.
Probabilmente, avrà ancora tutto inizio dalle dirette conseguenze di non riuscire a trovare l!umanità nell’artificio, dell’ipocrisia di non ammettere che abbiamo in realtà creato quasi tutto ciò che esiste, anche se non direttamente, e che anche le cose che non ci sembrano nostre fanno in realtà parte di noi, irrimediabilmente.
Tutto questo mi sembra riassumibile nella delicata immagine del poeta della mutazione genetica, il regista David Cronenberg, che guarda il suo cadavere in decomposizione giacere nel letto accanto a lui. Il signore assoluto dell’alterazione della materia, dell’esaltazione della macchina, della concretezza dei media digitali e della metamorfosi, decide che le componenti del suo corpo non potranno essere intercambiabili come quelle di un robot, che il suo involucro non cambierà forma per trasmutare in qualcosa di nuovo, e che la materia di cui è costituito sarà unicamente destinata a nient’altro che perire.
Forse il decadimento fa solo parte del processo, e l’operazione del regista non è che la certezza di cui avevo bisogno per essere sicura del fatto che, ad aver compreso dove risieda realmente il significato di umanità e di verità, siano solo coloro che non hanno avuto (e continuano a non avere) paura di addentrarsi nelle dimensioni apparentemente “artificiali” che sembrano lontanissime dalla purezza, quei luoghi virtuali in cui risiede la vera natura degli esseri umani.


Arianna Caserta è nata a Roma nel 2001. Si occupa di critica cinematografica, si interessa di cinema indipendente e sperimentale, e di musica elettronica. È spesso utilizzata per Character Development. Perfetta interprete delle suggestioni dei cari Death Grips, continua a dare <<buona idee alle persone sbagliate>>.