Partiamo da un assunto incontrovertibile.
Nel Novecento la Puglia, quasi a rivivere i fasti diomedèi del suo passato di Magna Grecia, ha donato all’Italia e al mondo due dei più grandi filosofi contemporanei, solo per un equivoco convenzionale relegati al rango, come fossero miseri mestieranti, di “attori”.
Sto parlando, ça va sans dire, di Carmelo Bene e Lino Banfi.
Ma mentre sul primo una renaissance di studi critici ha finalmente sancito, soprattutto nell’ormai prossimo ventennale della scomparsa, la sua statura di gigante della Cultura, riscoprendo e approfondendo le riflessioni deleuziane da lui ispirate, sul secondo ancora gravano stolti pregiudizi, retaggio di una vetusta distinzione tra cultura “alta” e “bassa” che speravamo il saggio “Apocalittici e integrati” di Umberto Eco avesse definitivamente spazzato via quasi sessant’anni fa.
Le recenti, patetiche polemiche censorie sul liberatorio grido infantile “Porca Puttèna!” espunto da un noto spot televisivo, sintomo tra i più grotteschi della deriva bacchettona del neo-puritanesimo progressista, mi hanno infine spinto ad assumermi il ruolo scomodo quanto glorioso di pioniere degli studi filosofici sull’opus banfiano.
Anche perché la stessa frase incriminata da questi sciocchi savonarola del pensiero debole aveva già rivelato la sua potenza mantrica in occasione della recente, imprevista viittoria europea degli Azzurri (simile potenza oracolare mostrò il già citato Bene in occasione di un Cesena-Sampdoria, stravinta miracolosamente dai romagnoli contro gli allora fortissimi blucerchiati grazie alla presenza del Genio, ma è altra storia).
Ma, si sa, da tempo la sinistra ha smarrito il senso del sacro e la meraviglia dell’irrazionale.
Siamo qui noi, praticanti di fedi da lungo tempo abbandonate, come canterebbe l’anziano Dylan, a risarcire il divin giullare, a dare a Lino ciò che è di Lino.
Chiarisco subito che in questa trattazione non mi occuperò dell’intiera carriera del genio nato ad Andria il 9 luglio 1936: sorvoleremo en passant sugli esordi acerbi ma già pregni di magmatico potenziale e, soprattutto, sulla deriva finale di icona nazional-popolare di Nonno Libero, anticipata dal grande successo di cassetta di fine anni ‘80.
No, ci concentreremo su quella che potremmo facilmente ribattezzare la Golden Age del banfismo, il decennio ‘74-’84: dopo il battesimo del personaggio di Pasquale Zagaria (vero nome all’anagrafe, fu il Principe De Curtis a indurlo a cambiarlo e Banfi fu scelto con tecnica quasi surrealistica https://www.youtube.com/watch?v=Hdbj9TwgY8g), che sanscisce l’avvento della dramatis persona banfiana dopo le prime, pur pregevoli, prove macchiettistiche degli esordi (era l’unico secondo Ciccio Ingrassia che poteva sostituire il prodigio tecnico di Franco Franchi), e fino alla cesura cruciale, quale ingresso trionfale nel mainstream, de L’allenatore nel pallone.
Dieci anni, quarantatré film: salve alcune incursioni nel cinema d’autore o di altro culto rispetto a quella che convenzionalmente appelliamo “commedia scollacciata anni ‘70” (film firmati da autori del calibro di Luigi Magni, come prima Steno e Nanni Loy, oppure Fernando Di Leo), la nostra attenzione si soffermerà proprio sulle opere considerate abitualmente minori, volgari, realizzate in serie, in un massacrante tour de force di trame fotocopia, sketch simili e battute in copia carbone.
Puro depensamento.
Esatto, avete capito: presidi tirannici in balìa di incontenibile lussuria nei confronti di studentesse sciocce e procaci, mogli isteriche e pedanti, femme fatale esperte nell’arte della profumeria, i mènage a trois falliti, storie di corna con donne nude, amanti sotto ai letti, mariti fedifraghi e a loro volta cornificati, equivoci grossolani e imbarazzanti, stereotipi sessisti come sostanza della weltanschaaung, gag in mutande, torte in faccia, schiaffi ad Alvaro Vitali, Edwige Fenech e Gloria Guida concupite invano, preda di giovani bellocci invece del povero protagonista, che si ritrova letteralmente cornuto e mazziato.
È proprio qui, nei bassifondi della produzione cinematografica, nella nigredo dell’ispirazione creativa, che risiede il valore iniziatico della figura banfiana.
Per sintetizzare la grandezza dell’impatto filosofico della figura di Lino Banfi prenderò in prestito da un intellettuale controverso quanto fascinoso quale Miguel De Unamuno una delle sue più celebri espressioni, “il sentimento tragico della vita”, da lui così profondamente esplicitata:
“Esiste qualcosa che, in mancanza d’altro nome, chiameremo “il sentimento tragico della vita”, che porta dietro di sé tutta una concezione della vita stessa e dell’universo, tutta una filosofia più o meno formulata, più o meno cosciente. Questo sentimento possono averlo, e l’hanno, non solo uomini individuali, ma interi popoli; è un sentimento che non nasce dalle idee, ma piuttosto le genera, sebbene dopo, è chiaro, queste idee reagiscano su di esso, fortificandolo.”.
Sono altresì debitore di numerosi, stimati interlocutori (Daniele Capuano, Francesco Di Giorgio, Dario Ruggiero, Francesco Fava, Alessandro Caroni, Luca Cruciani, Paolo Bassotti) con i quali negli anni mi sono confrontato sul tema: le mie riflessioni non sono altro che un mosaico dei diversi tasselli esegetici da loro offertimi nelle nostre conversazioni.
Tornando però al celebre passo di Unamuno, afferriamo il toro critico per le corna filologiche: sarebbe troppo facile riconoscere nei canovacci delle commedie sexy l’impronta delle commedie plautine; l’accostamento è di per sé evidente: commedia degli equivoci, personaggi fissi, allusioni maliziose, lazzi sconci, agnizione e scioglimento verso il “lieto fine”.
A uno sguardo attento, però, il finale negli apologhi banfiani è raramente lieto.
E se dobbiamo dare ragione a padre Dante nella definizione del suo sacro poema, per antifrasi s’impone la più scandalosa, per quanto logicamente conseguente, delle affermazioni: Banfi, ben più di Wagner nell’iniziale entusiasmo nietzscheano, è colui che ha riportato lo spirito della tragedia greca nell’era moderna.
Esagerazione? Vezzo intellettuale? Passatempo snob da noia salottiera?
Ebbene, abbiate il coraggio di rivedere, con queste nuove lenti critiche, un film come L’insegnante al mare con tutta la classe.
Indiscutibile è il riconoscimento della struttura di una tragedia greca.
Banfi, eroe mancato perennemente beffato dal Fato, incarna la hybris; infatti, per un attimo, durante il film sembra aver tutto: l’amante, la moglie, l’albergo, ogni obiettivo che si era posto, tutto il potere terreno pensabile: finirà in galera, faccia alla sbarra, con incombente alle spalle il molesto veneto ubriaco, da lui attratto en travesti quasi ad anticipare Bellifreschi, il futuro remake all’amatriciana di A Qualcuno piace caldo interpretato accanto a un folgorante Christian De Sica.
Ma non perdiamo di vista il senso più profondo: ecco rappresentata la perfetta Nemesi per un personaggio spesso, superficialmente, accusato di omofobia (chi si scandalizza per l’immortale stornello al ristorante “La Parolaccia” in Fracchia la belva umana si riveda il finale di Vai avanti tu che mi viene da ridere, che anticipa, come ha notato Federico Flai, una recente celebrata illustrazione trans friendly di Manara).
Importante notare come, ne L’insegnante al mare con tutta la classe, la svolta della trama in senso, appunto, tragico, è la sliding door rappresentata dall’equivoco notturno in cui il protagonista si ritrova nel letto Alvaro Vitali invece della prosperosa Anna Maria Rizzoli (destinataria ne La ripetente fa l’occhietto al Preside dell’immortale battuta “Sono stata un anno a Dire Daua”, “Si starà stanchèta!”).
Vorrei sottolineare come, specialmente a una visione frame by frame, in questa scena emerga il supremo talento attoriale di Banfi, in grado di passare in pochissimi secondi dalla sorpresa all’eccitazione a una furia omicida ben più spaventosa di quella di Jack Nicholson in Shining.
Ecco, sul ruolo di Alvaro Vitali, maschera felliniana eternata dall’Oscar di Amarcord, trickster burlone del destino catartico del protagonista, vittima prescelta e carnefice involontario, beh, ha già detto tutto Georg Wilhelm Friedrich Hegel nelle sue celebri pagine sulla dialettica servo-padrone anche se, su fronti filosofici avversi, talvolta ricorda il Leporello mozartiano con il (mancato) Don Giovanni che per Kierkegaard rappresentava l’apice e il fallimento del “momento estetico”.
Ma vale la pena di citare anche Il Briccone Divino, archetipo descritto da Radin, Jung e Kerèny, così presentato nelle note editoriali: “Burlone spesse volte burlato, singolare divinità fallica, forza istintiva della natura, il “dio Briccone” (trasfigurazione del coyote) è l’astuto e maldestro personaggio di questo libro (…) è natura cieca che crea, riproduce e distrugge, ed è insieme vittima – negli episodi di più marcato umorismo – del suo stesso slancio vitale”. Sembra una perfetta descrizione dei personaggi interpretati da Alvaro Vitali in pellicole come La dottoressa ci sta col colonello o L’infermiera nella corsia dei militari.
Nella ripetizione, appunto, kierkegaardiana più che derridiana, delle gag simili in film pressoché indistinguibili a uno sguardo profano si può leggere, oltre che la grande lezione sull’importanza dell’improvvisazione dei giganti dell’avanspettacolo come Totò, un punto di vicinanza con la “macchina attoriale” beniana. Anche se, probabilmente, il punto di maggior contatto è proprio il rapporto col Femminile: in quegli anni nel Riccardo III, memorabile non solo per la prodigiosa performance tecnica, CB metteva in scena manichini in guisa delle conquiste vane del potere, contraltare della corona sul nulla che è Fortebraccio, l’eroe “positivo” che riporta ordine illusorio alla fine di Amleto. Quel ruolo, paradossalmente, visto il loro essere fonte immaginifica dell’attività onanistica di ormai tre generazioni, lo incarneranno la meravigliosa Gloria Guida, la conturbante Edwige Fenech e, meno frequentemente, la già citata Rizzoli oppure l’indimenticata Nadia Cassini, ben prima di essere l’unica ad aver portato temporaneamente la pace, o quantomeno la convergenza, tra Biggie e 2Pac (ancora un’altra storia). Del resto, nel finale, quasi polanskiano, di Cornetti alla crema, Banfi anticipa proprio le ultime parole dette dal morente Makaveli.
In questi tempi ottusi dove sono necessari disclaimer for dummies, forse è necessario spiegare: tale contemplazione impotente della beltà femminile dal buco della serratura on è bieco voyeurismo maschilista, è la messa in scena del cortocircuito del desiderio.
Veniamo, dunque, al capolavoro Vieni avanti cretino, non a caso girato da quel Luciano Salce che proprio con Bene si confrontò in una memorabile puntata di Acquario del 1978, sotto gli occhi di un sornione e non ancora BaroneHarkonennizzato Maurizio Costanzo.
Lungi dall’essere un mero omaggio all’avanspettacolo (già citato come grembo artistico del Nostro), Vieni avanti cretino è fin dai titoli di coda un’opera iniziatica: nella sigla cantata dal Nostro i versi“Quando il Padreterno fece il mondo/ lo disegnò quadrèto però gli venne tondo” è la versione solo apparentemente bonaria dell’antica visione manichea, che dalla Persia zoroastriana è passata attraverso il demiurgo platonico alla grande tradizione gnostica, fino ai moderni eredi Kafka e Borges (per tacere di Blake).
Fin dall’inizio del film, nella negazione rovesciata del divismo hollywoodiano di cui Banfi è parodia e surrogato (appunto, il demiurgo Salce plasma la maschera grottesca rispetto al Mondo delle Idee della fabbrica dei sogni), dalla conversazione cimiteriale (allusione al primo grado dell’iniziazione massonica) l’opera si rivela perciò che è: forse la più aderente restituzione, ben più dell’applicazione a tavolino operata in Star Wars da George Lucas, del Viaggio dell’Eroe codificato da Joseph Campbell. Un film che racconta, come L’asino d’oro di Apuleio, diverse prove iniziatiche, le tappe del viaggio di compimento (la ricerca del lavoro = la Grande Opera), il mentore fraterno e severo Bracardi (fratello del genio Giorgio, testimone musicale e burlesco del gran teatro della quotidianità pubblica da Costanzo, anche in presenza della più celebre apparizione di CB), le tentazioni lussuriose che portano alla consueta Nemesi (“Cammela, onne stai?”), la gag vertiginosa e profeticamente anti-benignigiana dei caffè, la suprema commedia degli equivoci con uno stellare Gigi Reder (e sempre la castità diventa l’opzione forzata per il protagonista), lo sberleffo delle convenzioni e lo scandalo della verità (Filomegna!), tutto il senso complessivo dell’itineriarium è sospeso e poi rivelato fino alla sovrana critica ultraheideggeriana della tecnocrazia, accostabile al Chaplin di Tempi Moderni: l’eroe, forzatamente casto, è accompagnato sulla soglia iniziatica non a caso da Moana Pozzi, ancora cinematograficamente vergine: una Fata Turchina satanica che conduce il protagonista nelle fauci del Sistema (incarnato dalla confortante follia del Dr.Tomas), il quale attraverso la massima espressione personale della “macchina attoriale” decostruirà e svuoterà di senso, quasi rappresentando il frammento sulle macchine del giovane Marx, nel crescendo parossistico dell’accelerazione grottesca, la follia organizzata del sistema produttivo capitalistico.
Sorvolando sul culto apotropaico di Oronzo Canà, dopo la data fatidica del 1984 Banfi ci regalerà un ultimo sussulto esoterico con L’ispettore Lo Gatto, film girato dal maestro Dino Risi, che deve tanto ad Agatha Christie (l’introduzione progressiva dei personaggi, l’ambientazione esotica) quanto a Conan Doyle (con un notevole Maurizio Ferrini novello Watson come voce narrante), ma che è in primo luogo la risposta italiana a Velluto Blu: il legame con Lynch è cristallino, visto che la rivelazione del marcio occulto sotto l’apparenza borghese per molti versi anticipa non tanto, banalmente, l’epopea camilleriana di Montalbano, ma le atmosfere di Twin Peaks.
Del resto, il finale di Inland Empire è da sempre tutto contenuto in una qualsiasi gag del grande assente (quale divina presenza) della nostra trattazione: Jimmy il Fenomeno.
Per concludere da dove avevamo iniziato, come la saggezza uroborica insegna, miglior commento alla grandezza banfiana è nelle parole che Gilles Deleuze dedicò al conterraneo Bene: “È curioso che si dica (…): è un grande attore, complimento misto a rimprovero, accusa di narcisismo. L’orgoglio (…) sta più nel far scattare un processo di cui egli è il controllore, il meccanico o l’operatore (egli stesso dice: il protagonista) piuttosto che l’attore. Partorire un mostro o un gigante…”.
Un mostro gigante dai mille volti, rovescio dell’eroe campbelliano: Pasquale Zagaria, Commissario Auricchio, Pasquale Baudaffi, Oronzo Canà, Natale Lo Gatto.
O per tutti, Lino Banfi.
Adriano Ercolani è nato a Roma il 15 giugno 1979. Nel suo blog spezzandolemanettedellamente riversa furiosamente più di vent’anni di ricerca intellettuale e spirituale. Tra le sue collaborazioni: Linkiesta, Repubblica, Repubblica-XL, Fumettologica, Minima&moralia, ilfattoquotidiano.it.