Anteprima: “Travolti dal trash nell’immenso mare del brutto” di Matteo Fumagalli.

Orgoglio snob e pregiudizio del trash.

Se inventassero la macchina del tempo, la prima cosa che farei sarebbe tornare nel 2008 e prendermi a schiaffi. A quell’epoca ero in piena pubertà e la mia identità si snodava tra Netlog, Fotolog e MySpace. Inquinavo la home dei miei coetanei con canzoni di gruppi new wave polacchi e trailer di film thailandesi sottotitolati in slovacco. Il mio armadio spaziava dai mille toni del nero chiaro a quelli arditi del nero scuro. Ridevo come ogni sano e rispettabile portavoce di quella che mia nonna chiama «età della stupidera», ma le foto che mi ritraevano erano rigorosamente in bianco e nero e perfette per il più haute couture dei necrologi.
Urlavo al mondo di adorare i Joy Division, ma controllavo che le finestre fossero ben chiuse quando trasgredivo per crisi d’astinenza da Britney Spears.
Non avrei mai osato dire che è stata Regina George a addestrarmi alla sopravvivenza degli ultimi anni di liceo. Anzi, avrei detto che è stato merito di Pen-Ek Ratanaruang se ho visto la luce.
Uno dei più grandi problemi che affliggono gli adolescenti, anche quelli che si sorbiscono le sette ore e un quarto di Satantango senza pause pipì, è quello di far parte di un gruppo. Solo successivamente arriva l’angoscia della cotta non ricambiata (ma mai, ovviamente, dichiarata).
Vivevo nella provincia del niente, in un paesino riassumibile con «ci sono i laghi e poco più in là uno scintillante inceneritore»; potrete quindi immaginare cosa scatenasse in me lo sfarzo del sottobosco underground milanese.
Facevo in modo di essere amico delle persone più giuste che bazzicavano gli ambienti più giusti, creature illuminate da neon intermittenti che ascoltavano i Cure e che portavano gli occhiali da vista a montatura spessa. Ero incantato dal loro sguardo perso nel vuoto, dal cocktail sorretto con noia, dalla loro misteriosa androginia, dalle frangette che non erano né corte né lunghe, perfettamente simmetriche a metà fronte. Se portavano dilatatori e si commuovevano parlando del padiglione Serbia della Biennale, ancora meglio. Erano diafani e bellissimi.
Se dicevi loro di aver provato brividi forti di fronte all’ultimo capolavoro cinematografico del Bhutan, non ti guardavano mai storto ma sussurravano «fico».

Mi ci è voluto un po’ prima di capire che le nostre conversazioni erano solo un susseguirsi infinito di «fico» pronunciato a voce atona.
Ho provato, quindi, a entrare nella cricca dei cinefili più agguerriti e bacchettoni. Sarei stato a mio agio, pensavo. Da lì non si esce vivi. Per quanto possiate amare il cinema d’autore, ricordate di prendere le dovute precauzioni. È un universo popolato da spiriti che inquinano la vostra bacheca di Facebook (esattamente come facevo io) di cortometraggi indonesiani che, a loro dire, rivoluzionano in modo meta-post-tutto il linguaggio della settima arte, ma che voi non potrete mai vedere, perché sono sempre loro ad avere il contatto diretto con il regista. Nel caso in cui un malcapitato interessato avesse osato solo commentare i loro post con «Sembra un film intrigante, dove lo trovo?», questi avrebbero risposto, acidissimi: «Apriti un blog». Il cinema era vissuto da molti di loro come una conquista elitaria, non come una passione condivisa, a colpi di blog che nel nome avevano tutti cose come «immersione» e «contemplativo» e che ti citavano Deleuze persino in un pezzo su Alex l’ariete.
A una rassegna cinematografica d’essai, sui titoli di coda di Im Keller di Ulrich Seidl, un bel documentario su ciò che fanno quei birboni degli Austriaci nelle loro cantine, ho sentito qualcuno scandire distintamente l’espressione «con quale candore il regista…» nel discorso parlato. Candore? Ma chi usa la parola «candore» per dire a un amico che gli è piaciuto un film?
Stavo per impazzire. Mi tormentava l’incubo post- apocalittico in cui avrei definito «ieratico» o «viscerale» l’avocado toast da quindici euro al quartiere Isola. Avevo il terrore di trasformarmi in un mostruoso cliché.
Mi stava persino mancando il «fico» sussurrato a denti stretti e occhi morti.
Solo qualche tempo dopo mi sarei accorto che in quegli anni stavo producendo trash. È successo una mattina ben precisa.
Mi trovavo in un piccolo centro commerciale, unico baluardo della movida delle mie zone. Tre negozi in croce, oltre a un supermercato: Sephora, il GameStop e una piccola libreria. Quest’ultima rimane per me un luogo criptico, degno di un’analisi sociologica. Impossibile trovarci un libro che fosse uscito più di due mesi prima e impossibile scovare titoli fuori dalle classifiche. Nel caso riusciste anche solo a individuare una copia de L’alchimista tra cento edizioni economiche e cartonate di Cinquanta sfumature di grigio, avrete vinto.

Quella mattina, proprio lì, il mio sguardo è subito caduto su una sezione curiosa: filosofia.
Si dice che il pensiero dei grandi filosofi sia in grado di portarti su nuovi stati di consapevolezza. Così è stato. Lo scaffale «filosofia» si riduceva a due titoli: L’anticristo di Nietzsche e… un libro su come riconoscere il linguaggio del corpo di Barbara D’Urso. Accostamento peculiare, calzante. Mi sono chiesto se fosse opera di qualche cliente burlone o di un libraio particolarmente ispirato. La risposta si è dissolta nel vento, ma mi è bastato per illuminarmi nell’assurdo: «Non abbandonare il trash, alimenta la tua già viva curiosità e scava a fondo!».
La giornata, a quel punto, si è trasformata in un esperimento sociale: quanti libri improbabili esistono al mondo? Quanti vip discutibili si sono cimentati in opere letterarie grottesche?
Ho passato il pomeriggio a digitare su Google la formula magica «[nome vip improbabile] + [libro]». L’inizio di un tour de force. Prendete fiato. Un bel respiro. Inspirate. Espirate. Inspirate. Espirate. E ora, contate insieme a me.
Tre.
Due.
Uno.
Ho scoperto che esiste il campionario di consigli sullo stile di Lapo Elkann, una raccolta di poesie firmata Flavia Vento, il libro della zia di Britney Spears che rivela gossip scottanti sulla nipote, un fantasy young adult coscritto dalle sorelle Kardashian, un testo su come fare l’uncinetto con i peli di gatto, un giallo di Fabrizio Corona, un’autobiografia di Sara Tommasi, un manuale per perdere peso della signora Fletcher, un memoir erotico di Valeria Marini (con le pagine più piccanti da aprire con un taglierino), un sottogenere letterario che mischiava erotismo e dinosauri, un libro che svelava l’elenco di uomini con cui Moana Pozzi è stata a letto, una guida per rimorchiare le ragazze in modo consono a Dio e un’altra ancora per farlo spendendo meno di un dollaro…
Era tutto così strano, così bello. Stavo viaggiando nel lato oscuro dell’editoria, quello che i più ignorano entrando nelle librerie.
Come ho potuto, mi sono chiesto, non essere a conoscenza di certe cose?
Mi sentivo invincibile. Avevo conquistato il Sacro Graal, il mio amore per il trash era esploso. Volevo provare sempre di più quel senso di spaesamento tipico di chi si trova di fronte a qualcosa che sta involontariamente raschiando il fondo del barile.
Perché è quella l’essenza del trash: l’involontario.
A mettermi in ordine le idee è stato un signore chiamato Tommaso Labranca. Non lo conoscevo, nono-stante la sua enorme influenza negli anni Novanta. Quando ho deciso di prendere in prestito in biblioteca il suo saggio Andy Warhol era un coatto, era solo un nome stampato in copertina. Sono però bastate poche righe per catturarmi: la sua prosa al vetriolo mi ha svelato gli oscuri segreti del trash in modo chiaro, semplice e diretto. Il succo era l’assioma, la formula matematica del brutto: il trash è sempre involontario e deriva da un tentativo di emulazione fallita. Si fallisce nell’emulare un modello forte per mancanza di talento, di soldi o per essere arrivati troppo tardi. Un esempio facile facile: all’esplodere del successo della saga di Harry Potter sono seguiti i cloni letterari, tutti spariti nell’arco di una stagione. Il maghetto della Rowling è un modello forte, gli emuli sono trash.

Il fenomeno non si limita a cultura e intrattenimento. Imitare è insito nella natura umana; io stesso da adolescente, facendo il verso ai borderline hipster, ero trash. Capita a molti ragazzini di nutrire una fascinazione per il bello della classe, per un divo del cinema, per una cantante dal corpo d’amazzone e ispirarsi a loro per cambi look radicali, spesso a costo di uscire dalla propria comfort zone. Ne consegue quasi sempre un massacro: make-up orrendi, acconciature inguardabili, outfit ridicoli.
Ai miei tempi c’erano i clown che si credevano Jared Leto e Bill Kaulitz; oggi mi capita di osservare adolescenti tentare di avvicinarsi a Fedez & co. Sfilano come se fossero in una perenne fashion week, sfoggiando magliette Supreme tarocche e pompando sui mezzi pubblici la trap a tutto volume dall’iPhone X, senza cuffie, ovviamente. Supreme è un marchio che lavora per esclusività: pochissimi pezzi, prezzi vertiginosi. Quasi nessuno se li può permettere, ma è molto più importante urlare di appartenere a qualcosa, di avere riferimenti estetici chiari, anche barando.
Sono quasi certo che ci fossero dinamiche simili nelle generazioni precedenti, a colpi di paninari con le maglie Fiorucci e le borse Naj-Oleari. Di sicuro accadeva nel pop: negli anni Ottanta Madonna era catapultata nelle chart con la forza di un ciclone, diventando un’icona da venerare. I suoi cavalli di battaglia erano crocifissi, tutù, sguardo impertinente e ritornelli accattivanti. Per la ragazza media di quell’epoca, che naturalmente la imitava, Madonna era sinonimo di Like a Virgin. In pochi avevano capito, però, che se la carriera di quell’artista funzionava era (ed è) perché lei aveva il talento innegabile di mantenere il passo, in continuo aggiornamento, osservando scrupolosamente i trend e anticipandone altri. Questo è il segreto di un percorso artistico che continua a produrre successi anche oggi: prima ancora che una cantante, Madonna è un’agguerrita manager di sé stessa. Nel 1989, quella ragazzina tutta pepe era già sotto terra: Madonna era una donna matura ed era pronta a dimostrarlo, non a caso mora e non più bionda, con Like a Prayer, ottenendo ufficialmente anche il consenso dei critici e non solo quello delle radio. Il tempo delle «Holiday», «Celebrate» era sepolto da un pezzo, una nuova era partiva. E tutto questo quando le sue colleghe wannabe, stelline one-hit-wonder, erano ancora lì ad armeggiare con i rosari e con i doppi sensi sessuali. Promuovevano imperterrite una versione annacquata di un’estetica iconica, ma già superata. E ora, infatti, chi se le ricorda più? Giusto Touch Me di Samantha Fox ha vaghe speranze di essere riproposta in qualche serata disco-nostalgica di provincia.
Tutto questo è trash.
Del trash ci si vergogna, ma sono proprio le figuracce ad aiutarci a costruire la nostra corazza. Perché è meglio ricevere una bastonata subito che non osare mangiandosi le mani per tutta la vita. Poi la personalità si forma per tutti, si matura e si finirà per produrre altro trash, per sempre. È il ciclo naturale delle cose ed è splendido.


Matteo Fumagalli è un critico letterario, scrittore e youtuber.