Progetto #10.

CAPITOLO IX.

Rapporto n° 394

Roma 8/1/2014

Operatore Epicuro Tre

Orario operativo:  dalle 19.20 alle 22.18

Software utilizzati: Wavetranslator 2.0

I capelli sono folti e solidi, le poche ciocche gri­gie sulle tempie gli confe­riscono una specie di autorevolezza, nonostante il tutto sia unto di olio di visone e il taglio sia un caschetto lungo pet­tinato all’indietro.

« Lorenzo, cos’è che non ti piace della mia pro­duzione, la musica o le parole?»

Alex ti ha gelato. Non sai cosa rispon­dere. Lo guar­di mentre lui tira ampie boccate dalla si­garetta ed è intento ad accordare la chitarra. Sono già passati dieci secondi dalla sua domanda e la stanza si gonfia sempre più di muta attesa. Final­mente il suo­no del mi cantino, è lo spillo che fa esplodere questa bolla di nulla e, a se­guire, la sua voce dal­l’accento nordi­co:

«Se fossi l’uomo di vent’anni fa direi, nessuna delle due, capisci? Ora, inve­ce, ri­spondo: entrambe. Se questa roba non piacesse a nessuno o fosse di nic­chia, avrei smesso da un pezzo. Invece piace. Tre generazioni sono sintonizzat­e sulle mie parole e  sulla mia musi­ca. A volte, di notte, quando è estate, me ne vado al mare e mi apparto nel buio vicino a qualche falò, se sen­to suonare una chitarra. Nel cento percento dei casi suonano almeno tre miei pezzi, “Nono­stante te”, “Amori brevi”  e “Il volo del germa­no”. Prova ad immaginare che cosa significhi es­sere me. Io sono l’artefice, o per lo meno il testi­monial della maggior parte degli amori che si sono consumati in questa nazione e in quelle dove si ven­dono i miei dischi, capisci? C’è gente che sente una mia canzone alla radio e le riviene in mente il momento più fe­lice della propria esistenza.  Pensi che tutto questo non costi niente?»

Hai lo sguardo a terra. Il pavimento di questa stanza di hotel è una moquette folta come un pra­to. Roba extra lusso. C’è un odore d’incenso buo­no, sicura­mente giapponese, se lo fa spedire da Osaka, dove un suo amico, maestro  in­censore, miscela determi­nate essenze e resine apposita­mente per lui. Ti sta guardando la nuca, lo senti. Alzi la testa e incontri i suoi occhi.

« Non saprei» balbetti.

Poggia la chitarra su una sedia, si alza e si avvia ver­so la finestra. Guarda fuori. Cosa guarda non lo sai, c’è solo nebbia.

« Un giorno vennero da me due uomini e mi chie­sero, in maniera gentile e cari­na, di firmare un con­tratto con la loro casa discografica. Me lo la­sciarono su un tavolo, mi dissero di leggerlo e di ricontat­tarli in caso avessi voluto firmarlo. Il contratto era compo­sto di dieci punti. Non te li elencherò, per­ché dentro non c’era scritto quello che veramente fir­mai. Cede­vo loro la mia giovi­nezza in cambio del successo. Non so se oggi lo firmerei di nuovo»

«Perché? Non mi sembra una brutta vita, la tua»

«La bruttezza della mia vita è la man­canza di cose brutte. Ho avuto due ge­nitori stupendi, en­trambi in­segnanti, mi sono sempre sentito protet­to. Le ra­gazze non mi sono mai mancate, le rela­zioni serie nean­che. I soldi non li ho mai cercati: li ho sempre avuti. Salute di ferro… Ho quasi ses­sant’anni e ne dimostro quaranta. Ho due figli, due bravi ragazzi, che vivono con le loro madri. Il più grande non più. Ha da poco preso una casa e ci vive con la sua fi­danzatina. Tra l’altro è un bravo musicista… Capi­sci? La mia è una vita vuota. Non ho desideri,  for­se li dovrei inventa­re…»

Poi, si volta con un entusiasmo improv­viso.

«Ma perché non usciamo un po’? Ci fac­ciamo una birra, ti va?»

Dici di sì. Ti alzi e senti della cocacola friggerti nei capillari del piede, ti si è addormentata una gamba.

È dicembre, state a Como, lontani da casa. Sei triste, oggi Clau­dia non ti ha chiamato. Uscire con lui ti salverebbe dalla tentazione di pren­dere il telefono e disobbedire al tuo giura­mento: pro­teggerla dalle tue para­noie, dai tuoi ti­mori, dalla tua gelo­sia. Siete in strada, le quattro del po­meriggio, in questo non luogo chiama­to neb­bia a malapena si di­stinguono delle bocche nere dalle labbra a sesto acu­to, saranno le porte di qual­che cattedrale. Come fac­cia Alex a distri­carsi in quei vi­coletti del centro sto­rico è un mi­stero, anche se sono stranamente fami­liari. Sem­bra quasi di es­sere a Roma. Imboccate via Indi­pendenza, sembra de­serta, nonostante i vapori variopinti suggeri­scano le vetrine illuminate dei ne­gozi. Nessuno in giro, soltanto un uomo da­vanti a voi. È vestito da pesca­tore e ha un cane al guinzaglio. Il cane annusa il muro medievale del palazzetto, si ferma e piscia brevemente. Soddisfatto, con il muso alzato ad odorare, ricomin­cia a zampettare e il pescatore muto dietro di lui è immerso nella sua vita fatta di chissà quali pen­sieri. Un’insegna recita Caramelle, fate ancora qualche passo ed entrate in un bar. Uno schermo appeso alla parete, c’è un notiziario. Non senti quello che dice la speaker, noti solo la banda ros­sa sulla quale c’è scritto Breaking news e poi la parola Illeggittimi.

Il barista si volta verso di voi, gli si accende una fiamma di eccitazione   ne­gli occhi e esclama:

«Alex! Diosanto!» Fa il giro del banco­ne e vi vie­ne incon­tro con le braccia protese, poi abbraccia Alex, che ri­sponde con un laconico, ma garbato:

«Ciao»  poi si gira su sé stesso e guardandosi intorno: «Gran­di cambiamenti, eh?»

«Sì… ha cominciato ad andare bene da quella vol­ta che tu… Insomma, qui in città ormai lo chia­mano Bar Tarelli» dice sbuffando un sorriso dal naso.

Alex si schermisce grandioso come un im­peratore romano e rilancia:

«E quei buonissimi spritz? Li fai anco­ra?»

«Altroché! Due?»

«Due»

Vi mettete in una saletta appartata. Alex ha pat­tuito col barista che se riesce a farsi quattro chiacchiere in pace, poi dedicherà un’ora a fare auto­grafi. Il ba­rista ha subito chiuso la porta. La stanzetta è squal­liduccia, nonostante il restyling di cui parlava­no poco fa. Ad occhio e croce po­trebbe essere il posto dove qualche pensionato si viene a fare la briscola. C’è uno specchio  che oc­cupa tutta la parete di fon­do e un sentore di carta bagnata. Qualche tavolino con impronte a forma di cerchio. Sulle pareti sal­mone, ci sono dei qua­dri, una veduta del lago, il duomo con il Broletto innevato di­pinto alla Moran­di e una foto in bian­co e nero in cui c’è Alex con il bari­sta, che sorri­dono col pollice alzato. Si distingue una dedica fatta con un pennarello, “al mio amico Elio. Alex.” La foto ha qualche annetto, al­meno cin­que, perché i capel­li di Alex sono a spazzola e mesciati, por­tava anche un pizzetto bion­do a quei tempi. Ti sem­bra singolare essere qui con lui. Perché proprio tu? C’è Diego, il bat­terista, che sta con lui da sem­pre, si conoscono da quando erano ragazzi, e poi Gianluca, che ha inciso con lui due dischi e sta nella sua band ormai da dieci anni.

« Sei quello che conosco di meno, anche se so prati­camente tutto di te. Sono anni che… ma la­sciam per­dere, va’… Ti spiego. Ti ho detto che ho firmato un contratto. Loro mi dissero che da quel momento la mia unica preoccupazio­ne sarebbe stata quella di non andar fuori di testa e di conti­nuare a suona­re. Niente droga e niente alcool e il successo non sa­rebbe mai finito. Capi­sci? Io sono di Collecchio, un paesello vicino Parma, ero un ragazzo di provin­cia che sognava lo star system in con­tinuazione. La po­litica non mi interes­sava e infatti, i miei coetanei, a scuola, mi prendevano in giro. Alcuni mi davano del fascista, ma i fasci­sti dicevano che ero una zec­ca per via dei capelli lunghi, sai negli anni settanta era tutto o di destra o di sinistra. Io invece sentivo la musica ameri­cana melodica, quella che ti apre il cuore e che ti fa sognare gli spazi enormi sotto ‘sti grandi cieli… Facevo le cover degli Eagles, dei Chi­cago, dei Commodores.  Allora, con mio fratello, deci­demmo di mettere su un complesso. Lui si fece regalare una tastiera dai miei, poi rimediammo un batterista, Diego, e un altro amico si unì col basso. Dopo un anno che facevamo prove, ci fecero suonare alla festa dell’Unità di Collecchio. Il se­gretario ri­schiò di essere radiato, perché noi face­vamo musi­ca americana e la cosa non venne gra­dita da quelli della sezione. Invece, il concerto andò benissimo e le ragazze ci guardavano con dei bei sorrisi. Poi, il parroco, ci fece suonare alla festa del paese. Insom­ma, girava bene. Quando andavo a Parma qual­cuno mi riconosceva. Proprio lì conobbi altri musi­cisti e attraverso raccomandazioni e spintarelle ci fecero suonare anche alla festa cittadina dell’Unità. Fu un successone. C’erano circa trecento persone e noi eravamo vestiti alla moda, però con i baffi e i capelli lunghi in modo da sembrare di sinistra. Alla fine cantavano con noi le canzoni yankee che face­vamo. Si accesero gli accendini – ai tempi era una cosa che ancora non usava- e quando finimmo il concerto alcuni ci chiesero di unirci a loro, capisci? Dei ragazzi hippy, che avevano organizzato un falò per la notte. Suonai fino al mattino e conob­bi Rosanna, una rossa con le labbra sottili, che poi diventò la mia prima moglie. Con lei ho passato dei momenti meravigliosi e non la dimenticherò mai. Ora è un donnone di ottanta chili, ma nel mio cuore è rimasta imbalsamata quella ragazza lì, capisci? L’amavo, certo, ma non amavo quello che lei ama­va. Ciò che entusiasmava lei, a me era estraneo; quello che l’addolorava, per me era insignificante come una pietra. Insomma, lei sembrava vivesse per me, io vivevo solo per suonare. Un giorno mi chie­sero di suonare a Modena, al Picchio rosso, e lì ven­ni contattato dalla casa discografica. Da allora, non ho mai avuto più nessuna cosa storta. Il dolore è quello di non sapere cosa sia il do­lore. Quando morì mio padre, mi vergogno a dirlo, l’unico pensiero che mi passò per la testa fu la rottu­ra di scatole di rimandare un concerto. Quello di Milano. Mio padre, è una piccola notte nera, qui, proprio nel cuore. nient’altro.»

La sera passa. Avete fatto un piccolo bagno di folla, sono venuti un sacco di fans nel bar. Alex ha firmato vagonate di cd sempre col suo sorriso pubblico. È un uomo di metallo, non si è mai stancato, non un gesto di stizza. Addi­rittura gli hanno dato una chi­tarra e lui ha suonato due  bra­ni, lì, nel bar. La tua testa, invece, è totalmente at­tenta al minimo rumore di cel­lulare. Ogni volta che senti squillare un tele­fonino, porti automati­camente la mano alla tasca della giac­ca e tiri fuo­ri lo smartphone, che da qualche giorno è di­ventato il tuo telefono ufficiale. Niente. Neppure un mes­saggio. Aspetti domani.


Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.