Le chiavi della sua prigione.

Liborio sguscia pistacchi davanti al Pc. Occhi famelici sullo schermo, divorano filmati di scontri tra sbirri e manifestanti. E si vede là, nei tumulti, anche se è seduto al buio e non fa altro che masticare e cliccare, ossessivamente.

Mattino incandescente, gli cuoce il cervello dentro il casco, gomito a gomito con gli altri in tenuta antisommossa, che scalpitano. Sul fronte opposto i precari del lavoro, una marmaglia nervosa che sbraita ingiurie contro il governo, muovendosi come un corpo disarticolato. In mezzo una lercia lingua d’asfalto ed esalazioni di violenza.

Non lo interessano le ragioni della protesta. Si sente come un bambino alle giostre, quegli slogan ammuffiti lo fomentano. Vogliono combattere qualcuno che non può essere sconfitto? Tanto meglio. Aspetta di fare un giro sulle montagne russe al loro primo errore. E loro sbagliano sempre.

Alcuni esagitati incendiano cassonetti della spazzatura e li spingono verso il cordone della polizia che risponde con un lancio di lacrimogeni, ma quelli non si disperdono e iniziano una sassaiola. Liborio alza lo scudo per proteggersi, come tutti, poi sente il comando di caricare e il casco diventa un elmo, il manganello è la sua spada, scatta in avanti e la festa finalmente comincia.

Corre trafiggendo il fumo mentre tossiscono alla cieca. Nessuno può vederlo, scatena una raffica di colpi su chiunque non gli somiglia. Diffonde terrore sul malcontento, insegna il rispetto per le regole, soffoca l’esasperazione. Crede di essere il braccio armato del potere, la sua capacità di gestirlo. I rapporti che non si basano sulla fiducia tendono all’autodistruzione, riflette, bisogna averne sempre, soprattutto in chi è al comando; è obbligatorio averne, lui lo precisa a ogni manganellata e ogni calcio, se non lo capiscono peggio per loro.

La marea in divisa investe la contestazione, devastandola con inesorabile brutalità. Si accanisce su ogni persona, percuote tutti, anche donne, ragazzini, facce rugose e giornalisti, che devono farsi gli affari loro, se non sono dalla loro parte. Quelli adesso provano a fuggire, ma dovevano pensarci prima, ora è tardi, ora devono soltanto subire. Poi si ferma, nel caos avvista suo padre, ma non può essere lui, è morto. Gli va incontro facendosi largo tra i pestaggi come un blindato, lo osserva da vicino, nel panico che lo ha paralizzato, eppure nessun altro sembra essersi accorto della sua presenza. L’uomo gli sorride candidamente, come fosse lì per caso. Ma smette di sorridere quando vede il braccio di Liborio sollevarsi oltre la spalla e piegarsi all’indietro, con il manganello stretto in pugno. Si abbatte sulla testa del ricordo di suo padre con tutta la forza che ha, fracassandogli il cranio. Disprezza quel fallito, gli ha lasciato solo debiti.

Si credevano furbi, ma adesso che vengono sbattuti nei furgoni capiscono di non esserlo mai stati. La libertà concessa serve a tenerli buoni, ne è convinto, finché l’illusione d’averne avuta diviene trappola. Quando arrivano in caserma la gabbia che chiamano vita si chiude. Liborio vuole custodire quelle chiavi, perché la galera gli sembra essenziale quanto l’acqua e l’ossigeno, rende possibile l’esistenza umana. Immagina di guardare la società dal suo cuore di ferro, di sputare su chi parla di abuso di potere, che è un ingenuo incapace di accettare la realtà. Si sta dentro la gabbia o fuori, non esiste alternativa, soltanto chi possiede quelle chiavi è davvero libero.

La porta della stanza che le ha attrezzato per lavorare si apre e Sara si muove piano verso il bagno. Indossa soltanto un asciugamano e puzza di sudore.

«Hai già finito?», le domanda con severità, ruotando sulla sedia.

«Sono le otto, devo prepararti la cena», risponde stancamente.

«Ah… non c’è fretta, non ho molta fame».

«Allora posso telefonare a mia sorella?»

Liborio abbassa lo sguardo e si massaggia il collo. Ci sono gusci di pistacchi sulla scrivania, sulla tastiera, sul pavimento. «Prima pulisci qua», le ordina.

Sara dice di sì con la testa e va a prendere pezza, scopa e paletta, mentre lui controlla gli accrediti giornalieri dal telefono. Oggi ha guadagnato un centinaio di euro; giornata scarsa per la sua camgirl personale.

Entra nella camera pornografica e la ispeziona. Tutto dev’essere pulito e in ordine. Il letto rifatto, il computer spento, la webcam scollegata, la finestra bloccata, la biancheria erotica nella cassettiera, gli strumenti del finto piacere al loro posto. Spegne la luce, chiude a chiave e rimette in tasca il mazzo. Anche la sua postazione adesso è ripulita.

La raggiunge in bagno, si sta facendo la doccia. È ancora molto eccitante: belle tette, belle gambe e culo sodo; un corpo che gli serve. In polizia lo hanno respinto tre volte e ormai ha superato i limiti d’età.

«Tutto regolare oggi?», le domanda mentre quella si asciuga.

«Sì, come al solito».

«Patetici segaioli, menomale che ci sono loro», e la lascia sola.

Apre il mobiletto chiuso a chiave, prende il cellulare a cui ha rimosso tutte le funzioni e lo attiva. Nella memoria di quella SIM c’è soltanto il numero di telefono della sorella di Sara. Non le è permesso chiamare nessun altro. Appena ha finito di rivestirsi glielo passa e le fa cinque con le dita di una mano. Lei fa di sì con la testa e chiama.

Liborio si accomoda sul divano e accende la televisione, mentre lei parla all’unica persona sulla quale non ha ancora trovato niente di concreto con cui minacciarla, per escluderla dalla sua esistenza. Sa che sarebbe capace di denunciarne la scomparsa.

Interrompe lo zapping su una trasmissione sportiva, ma non riesce a seguirla. Sentire Sara mentire con tanta naturalezza lo irrita. Parla di un lavoro che non fa, di amicizie che non ha, di cose che non compra. La prima volta che ha sentito uscire una menzogna da quella bocca rifatta gli è sembrato sensato, finzione su finzione. Ora invece la scruta con durezza, considerando che se è diventata così brava a mentire potrebbe farlo anche con lui. E gli fremono i tatuaggi fascisti sulle braccia, ramificazioni della sua rabbia.

Si alza in piedi, erigendosi come una colonna di pietra senza tempo, e le punta addosso occhi feroci come fossero pugnali. Sara conosce troppo bene quell’espressione, così inventa subito una balla, interrompe la telefonata e gli restituisce il cellulare scusandosi.

«Per cosa ti scusi?», le chiede con tono secco.

«Ehm… forse ho superato i cinque minuti».

«No, ti restava un altro minuto».

«Allora… ehm… sono stata brava», dice in modo infantile, sperando di non dover scoprire cosa lo ha fatto arrabbiare stavolta.

È una serata dalla temperatura mite, Liborio invece non lo è. Stringe i pugni e avanza, fino a toccarle la punta del naso con il mento. Lei indietreggia con cautela, in quella casa senza pietà, trasformata in una prigione. Soltanto lui ne possiede le chiavi, un uomo ingordo di nefandezze e azioni purificatrici. Sara raggiunge la parete con la schiena, non può allontanarsi oltre, non sa cosa fare. Ma con un gesto le viene ordinato di andare in cucina.

Sara apparecchia la tavola e la imbandisce: pane, vino rosso, carne ben cotta, verdure grigliate e frutta di stagione. Liborio non si vede ed è preoccupante quanto vederlo.

«La cena è pronta», gli annuncia.

Lui si presenta vestito da poliziotto. Sara si siede mal celando l’angoscia. Sa cosa la aspetta. Mangia a fatica, non riesce quasi a ingoiare il cibo, ma deve compiacerlo. Liborio trangugia tutto come se dovesse uccidere quello che c’è nei piatti. Al termine del pasto fa un potente erutto, si pulisce la bocca con il tovagliolo, con un cenno le ordina di sbarazzare, si alza e si chiude a chiave in bagno.

Si ammira allo specchio come chi vuole lanciarsi in una rissa. Con la divisa si sente invincibile, un animale possente, che si gonfia, che può sbranare chiunque. Stringe i pugni, tende i muscoli delle braccia e si colpisce al petto. La rabbia gli cresce dentro, fluisce, si espande. Tira fuori dalla patta dei pantaloni il cazzo duro, il prolungamento della sua bestialità. Lo maneggia con vigore, lo impugna come un’arma, e si osserva mentre lo fa, mentre brandisce se stesso. Tira fuori anche le palle per vedersi completo, per essere perfetto.

«Davanti a questo devi tremare di paura. Guarda quanto è grosso», dice puntando la testa violacea contro il proprio riflesso, immaginando la sorella di Sara inginocchiata, e gli va addosso con il suo sfollagente di carne.

Lo afferra per la pelle ed è come trattenere al guinzaglio un cane da combattimento. Prende un cotton fioc, sputa su un’estremità, lo poggia sulla fessura della cappella e lo spinge dentro fino a metà. Il dolore gli fa inarcare le spalle. Apre una scatola che contiene degli elastici e, uno dopo l’altro, li avvolge all’asta, sentendo le vene pulsare, strizzando gli occhi, finché lo ricopre interamente, comprese le palle lisce. Sbottona la camicia e con due aghi si infilza i capezzoli, che versano lacrime rosse. L’armatura è compiuta.

Quando Liborio spalanca la porta lei ha appena finito di lavare i piatti. Le strappa i vestiti di dosso, la schiaffeggia, la piega su una vaschetta di plastica a terra, strattonandola per i capelli, e la obbliga a pisciarci dentro. Deve guardarlo dal basso, nella sua superiorità fisica, che le stringe la gola e le sputa in faccia. Caduta l’ultima goccia la solleva e le torce i seni, le calpesta i piedi nudi con gli anfibi e la bersaglia di insulti. Sara si dibatte e prova a urlare, ma lui le tappa la bocca, poi gliela riempie con un brandello della sua maglia, estrae da una tasca una lametta e la taglia sul petto, tingendo il pavimento, sporcando la vaschetta, così ha un’ispirazione. Le immobilizza le braccia da dietro, la costringe a piegarsi sopra la vaschetta e la sfregia a ripetizione sul ventre e sulle tette, creando un miscuglio giallo e rosso. Appena è soddisfatto la getta a terra sfinita, va in camera e torna con uno strap-on. Le intima di indossarlo. Sara piange e sanguina.

«Fallo, se no ricomincio con un coltello».

Ma deve muoverla per farle allacciare la cintura con il cazzo di gomma, è terrorizzata. Liborio la scuote e la raddrizza, poi si cala i pantaloni fino alle caviglie, si mette a quattro zampe come un toro imbizzarrito e si fa afferrare ai fianchi. E Sara fa quello che deve fare, come gli ha spiegato che deve farlo, sa che soltanto così il tormento finirà. Gli sputa sull’ano e lo penetra. Liborio si morde le labbra e prende a pugni le piastrelle, fino a scorticarsi le nocche, al suono del bacino che sbatte contro il suo sedere, nell’invasione dello sfintere anale, nella tensione che gli sale lungo la spina dorsale.

«Più forte, scopami più forte».

Sara lo incula con tutta l’energia che le rimane, sperando di sfondarlo a morte, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa da conficcargli nella nuca. Ora vuole essere colpito sulla schiena, lo dice a gesti, così gli dà delle manate che riecheggiano nella stanza, ma non gli basta, deve continuare a picchiarlo.

«Gettamelo addosso, ora!», grida in estasi, e lei stende un braccio verso la vaschetta, l’afferra e inonda di piscio e sangue il suo carceriere, anche se vorrebbe soltanto ammazzarlo.

Liborio si trascina i liquidi in bocca con i pugni spaccati, la scalcia fuori da sé, si solleva, tira fuori l’antenna dal cazzo ancora duro e le spruzza in faccia il suo bianco lattiginoso. Un attimo dopo la assale come una belva idrofoba, con tanta furia da illuderla che la fine dell’agonia è arrivata. Ma è stremato, si accascia sul divano e riprende fiato. Sara striscia in bagno, verso la cassetta del pronto soccorso che le ha lasciato sul tappetino. Una premura per la sua unica fonte di guadagno.

Il salotto è deturpato. Non gli importa, le farà pulire tutto domani. Si spoglia, sfila gli aghi, toglie gli elastici e si sciacqua nel lavello della cucina, fiero dei nuovi impulsi sessuali. Per un po’ non potrà farla esibire, ma ne è valsa la pena.

Sente delle urla di donna dalla strada. Va alla finestra, ma da quel lato della casa scorge soltanto della gente che indica qualcosa che non riesce a vedere. Torna in salotto e fruga nelle tasche dei pantaloni, deve uscire in balcone per capire cosa sta succedendo là sotto. Le chiavi non ci sono. Si volta di scatto verso il bagno. Gira la maniglia, ma la porta è chiusa. Fa saltare la serratura con un paio di spallate: Sara non c’è, la finestra è aperta e il lucchetto che la bloccava è nel lavandino. Si affaccia e la vede giù, nuda tra i curiosi inorriditi, schiantata sul marciapiede dopo un volo di cinque piani, con il suo mazzo di chiavi legato ai capelli.


Marco Corvaia è nato a Palermo nel 1980, autore di Pino se lo aspettava (Navarra Editore) e Post Somnnium (Ensemble). Suoi racconti sono apparsi su Pastrengo, Il rifugio dell’Ircocervo, L’irrequieto, Neutopia, La nuova carne, Spore, Spazinclusi, Split, Suite italiana, Altri Animali, Malgrado le mosche e altri ancora.