CAPITOLO VIII
Rapporto n° 393
Roma 5/1/2014
Operatore Epicuro Tre
Orario operativo: dalle 23.12 alle 9.17
Software utilizzati: Wavetranslator 2.0 e Dreamtranslator 5
Nota dell’operatore:
Il soggetto sviluppa nel corso delle operazioni attività onirica spontanea, per la quale si è reso indispensabile l’utilizzo del software di decodificazione Dreamtranslator 5
Una luce bionda vela tutto l’ambiente. Il cameriere dal cranio rosa vi poggia i piatti davanti.
«Signora… Signore…» e se ne va. Signora. Che strano sentirla chiamare così. Eppure, sì, Claudia è una signora per un estraneo. Non è la ragazza fine che conosci tu. Sono due mesi che stai in tournèe e l’hai sognata già tre volte. Quando hai visto il suo messaggio ti è mancata l’aria. “Sono qui, a Reggio Emilia, per un incontro sul documentario d’ autore. Ci vediamo dopo il concerto?”
Hai suonato benissimo stasera, sapendo che era lì a vederti. Alex era particolarmente felice, anche se gli hai tolto un po’ di palco per l’assolo di “ Amori brevi”. Anzi, dopo non faceva altro che sottolineare ogni tuo assolo di chitarra, con entusiasmo, saltando come una rockstar di vent’anni. Peccato che la sua musica ti faccia schifo.
All’uscita, lei. Ha cambiato taglio di capelli e le sta molto bene. Glielo dici e lei risponde con un sorriso. Avete camminato un po’ per arrivare nel borghetto di case antiche dove si insinua la via Emilia. Lei tutta incappottata si è stretta a te. Così, con nonchalance, come una vecchia amica. Tu pure facevi l’ uomo di mondo, protetto dal lungo giaccone che nascondeva una fastidiosissima erezione. Più di una volta, hai dovuto, cercando di non farti notare, spingere il culo all’indietro per liberarti dei peli pubici che imbrigliavano il tuo coso in un allaccio doloroso. Finalmente avete trovato il ristorante che vi ha consigliato il giornalaio della stazione e, dopo tanta nebbia e freddo, tagliatelle al ragù.
«Come sta Francesco?» dici, per sopprimere un attimo di silenzio che fa tanto coppia bollita. Lei ferma la masticazione, poggia la forchetta e afferra il bordo del tavolo con tutte e due le mani. «Io sono Claudia. Non sono Claudia e Francesco, ok?»
È scura in volto e ti guarda in tralice, tu alzi le sopracciglia.
« D’accordo»
Riprende a masticare ma è come se si fosse rotto qualcosa. Non sai come riacciuffare la conversazione. Ci pensa lei.
«Ti ho sottratto a qualche groupie?»
Sorridi.
«Groupie? Io? Non mi conosce nessuno…»
«Bè, io sì»
Senti un rumore sotto il tavolo. Il suo tic della scarpa. È intenta a guardare il piatto, tu non rispondi, non sai come comportarti ma quando alza gli occhi su di te fa un sorriso torbido.
«Vuoi che ti faccia da groupie, stasera? Così… in amicizia»
Prende il bicchiere e beve senza toglierti lo sguardo di dosso. Continui col tuo imbarazzo da deficiente.
«Io non so… Ma come facciamo con Francesco?»
Sai che adesso sbotta e infatti lo fa, ma sottovoce e senza scenate.
«Tu faresti passare la voglia anche ad una ninfomane. Vedi Francesco qui in giro? Ma tu sei mai stato con una persona per dieci anni? Lo sai cosa vuol dire sapere esattamente dove ti bacerà, come ti prenderà, in quale posizione vorrà finire?»
«Senti, non l’ho scelto mica io…»
«Ti ho già detto che periodo stiamo passando. Sono sei mesi che non scopiamo. Lorenzo, siamo a Reggio Emilia, lui è a Foggia, di cosa ti preoccupi? Ti devo raccontare tutti gli affari di famiglia?»
La guardi, lei ti guarda, poi prende il suo bicchiere e con il mento indica il tuo:
«Alla nostra!»
“Le mucche, i prati, il sapore del mare e della pioggia. Perché? Non lo so, ma questo mi viene in mente, ora che sono sazio. Il tuo corpo un po’ etrusco,la tua pancia liscia oltraggiata dalla mia lunga cicatrice fatta di schiuma di lumaca. Il nostro fiatone e la luce scabrosa dell’albergo. Nessun senso di colpa, è un atto dovuto questo nostro confonderci i corpi. Era già scritto nella storia del mondo. Ci apparteniamo da sempre, ci eravamo soltanto persi ma ora ci siamo ritrovati. Proprio qui, in questa stanza dall’odore di lisoformio. Francesco mi appare per un attimo nella mente ma si scioglie subito, non è nessuno. Nessuno. Io e te siamo il mondo, tutto il mondo, e lui soltanto un’immagine, una vernice su un corpo qualsiasi. Tu non sei sua, amore mio, non lo sei mai stata, mai più lo sarai. Le tue gambe sono le mie gambe, le mie spalle sono le tue spalle. Simmetria perfetta. Per sempre.”
«Come stai?» fa lei, sorridendoti e guardandoti in faccia con la testa poggiata su una mano.
«Come un dio appena partorito. Ho la sensazione che il mondo mi appartenga, che la mia vita sia proprio la mia vita. Mi hai liberato da qualche demonio stronzo che avevo dentro.»
Sbuffa un sorriso e ti bacia.
Affondi una mano nel grano dei suoi capelli e ti ci perdi, sei lì dentro, hai cinque anni e i pantaloncini corti. Corri come un pazzo verso il cielo immenso che si sciupa dietro quel poggio e senti la vita gorgogliare nelle gambe, sai che arriverai a toccarlo quel telone azzurro. Infatti, appena in cima, allunghi un braccio e distendendo l’indice riesci a sentirlo sul tuo polpastrello. E quello fa partire, dal punto di contatto, delle onde concentriche. Il cielo è come l’acqua. Ecco, ora lo sai.
Ti sveglia un suo bacio. Claudia è contro di te e tu la stringi, anzi, la circondi col tuo corpo che a te sembra diventato enorme. La vorresti avvolgere, come una coperta di carne e muscoli, perché questa donna prodigiosa, ti fa sentire colossale e forte. La difenderai da tutti, soprattutto da te stesso.
«Posso dirti una cosa?»
«Di’…»
«Non mi sento sporca. È la prima volta che mi capita di tradire. Ma ho la sensazione che l’unica ad essere stata tradita sia io stessa. Tradita da me, ovviamente. Sono dieci anni che mi mento e non lo sapevo»
«Io invece ho una paura terribile che tu possa svanire così, puff, da un momento all’altro. Rimani qui?»
«Sì. Prendo il treno delle 15 domani»
«Ok»
Ti si stringe il cuore, ma hai giurato di proteggerla da te stesso. Non le darai neppure un momento di disagio. La sua libertà è la tua libertà. Simmetria, per sempre.
#3
Si sentivano due ventenni, avevano fatto la doccia insieme, avevano fatto l’amore, si erano coccolati in quella stanzetta d’albergo, lei le aveva spremuto i punti neri, come una giovane scimpanzè, lui aveva ricambiato facendole l’amore per l’ennesima volta, come un giovane bonobo. Uscirono dall’albergo. Andarono a sedersi al Parco del Popolo, c’era un chiosco che vendeva brioches ripiene di gelato, nonostante il freddo. Il sole era lattiginoso, ma a loro bastava per sentire che il primo giorno che passavano insieme da coppia era benedetto. Lei parlava dei suoi e delle sue due sorelle, lui dei suoi e di sua sorella e il tempo volava, l’angoscia della partenza era lì, dietro l’angolo. Si alzarono e si avviarono verso la stazione a piedi. Davanti a loro un monumento con la Lupa capitolina, Lorenzo la guardò domandandosi che cazzo ci facesse lì. La superarono e si ritrovarono su un piazzale glabro, tipicamente emiliano, senza neanche una cicca a terra. Il Teatro Valli, vanto cìttadino, si stagliava ottuso vicino a loro. Attraversarono quella spianata di basalto, scesero le scale e furono in Via Secchi, casette basse, del quattrocento, o giù di lì, alternate ad orrori sovietici degli anni sessanta. Improvvisamente un gruppo di casupole a tre piani, più o meno degli anni trenta, gli fece venire in mente le palazzine popolari del Quarticciolo, ma bastò fare una cinquantina di passi ed ecco una costruzione in acciaio verniciato di rosso bruno e vetri. Roba istituzionale. Dei cartelli affissi sulle porte annunciavano trionfalmente Città Sicura. Lei lo baciò e il disturbo di quella vista si addolcì.
E poi, ad un certo punto, la via si trasformò in Via Dante Alighieri. C’era una chiesetta, piccola piccola, col sagrato minuscolo, fatto di lastroni di pietra ognuno di un colore diverso, dei tornelli di marmo a proteggerlo dagli automobilisti, sembrava che ci avessero passato della cera. Guardandola, non seppe il perché, gli venne un groppo in gola. Man mano che proseguivano, le case diventavano sempre più brutte, segno evidente che si stavano avvicinando alla stazione. Un commissariato di polizia, la targa di marmo diceva accigliata “Reparto prevenzione crimine” e a lui venne in mente la Stasi. Giunsero in Via Eritrea, sulla sinistra case gialle con cortiletti circondati da inferriate, negozi di alimentari pieni di bengalesi, sulla sinistra soltanto un muro di cortina, oltre il quale ogni tanto spuntava la sagoma di qualche enorme cassone di ferro: la prova definitiva che la stazione era a pochi passi. Infatti, dopo qualche minuto si trovarono sullo squallido Piazzale Marconi. Nel lato opposto al loro, un parcheggio sotterraneo. Sulla sinistra, la stazione. Era un agglomerato di tre costruzioni, quelle laterali avevano la facciata a mattoncini e le tapparelle verdi sbiadite dal tempo, e, quella centrale, aveva lastroni di travertino con una serie di rettangoli di vetro in mezzo. Al centro della piazza, una rotonda con delle aiuole curate, e qualche arbusto di mortella. Non riuscivano a credere che si sarebbero salutati proprio lì, in quell’ambiente coagulato che sembrava un dipinto di De Chirico. L’urlo di una motrice si sparse nel freddo, c’era odore di nafta. Si voltò a guardarla, voleva vedere i suoi capelli ondeggiare, ma nulla si muoveva in quella ottusità ghiaccia. Tutto era piatto, spoglio, sordo: la pianura Padana. C’era un’edicola lì vicino, l’accompagnò a prendere qualche rivista. Appena fatto, lei disse:
«Salutiamoci qui. C’abbiamo il cuore strapieno di roba, l’addio al treno risparmiamocelo» e gli sorrise triste.
«Hai paura che corra appresso al treno urlando il tuo nome, come in un film in bianco e nero?»
«Ne saresti capace»
«Lo credo anch’io»
Tirò su col naso, gli sembrava di scorgere in quella donna fatta, l’eco lontano della bambina che era stata, nonostante il viso stanco per la nottataccia e quelle rughe ai bordi degli occhi così muliebri. Allungò una mano verso di lui e accarezzandogli una guancia:
«Ecco dove t’avevo visto… Ti sognavo.»
Lorenzo alzò un sopracciglio, con una domanda muta.
«Sì, proprio così, ti sognavo, ma non t’avevo mai visto. Però, la cosa strana è che nel sogno ti conoscevo… Oddìo, perdo il treno! Ciao»
Si interruppe, lo baciò e girò le spalle verso Roma. Lorenzo avvampò,avrebbe voluto sapere tutto ma la guardò soltanto andare via. D’un tratto lei si voltò e, sorridendo, lo salutò con la mano
«Scusami, sono patetica…»
Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.