La bambina che leggeva i libri.

Era una mattina fredda. La primavera iniziava ad insinuarsi nei nostri nasi sotto forma di polline e di odori meravigliosi, ma faceva ancora freddo. Nonostante questo, il sole splendeva come non mai e sembrava irradiare un anno così oscuro che difficilmente saremmo riusciti a dimenticare. La pandemia ci aveva colti di sorpresa ed eravamo ancora totalmente impreparati a gestire una cosa del genere.

Io non potevo uscire la sera per prendere una birra o farmi inculare da un cane o una zebra in un parchetto, ma potevo andare al lavoro a servire i clienti e a farmi starnutire in faccia da mille sconosciuti. Inoltre il mio era un lavoro importante. Io ero un libraio. Il mio non era un semplice lavoro, ma una vocazione. Io non lavoravo per pagare l’affitto e perché provenivo da una famiglia povera come la merda, no!, io lavoravo perché nel disegno universale il mio posto era quello, deciso da qualcuno eoni fa.

In questa fredda ma soleggiata mattina stavo svolgendo il mio lavoro. Mettevo a posto i libri, l’oggetto che fornisce la possibilità agli esseri umani di approcciarsi al Sapere, alla Conoscenza. Alla Cultura. Gianrico Carofiglio, Massimo Gramellini, Bruno Vespa, Lorenzo Marone, Sallusti e Palamara, Alessandro D’Avenia, Francesco Sole, … Questi erano solo alcuni tra i profeti che grazie a uno sforzo intellettuale sovrumano riuscivano a forgiare pensieri da imprimere su carta.

Il sole filtrava dai vetri della porta automatica e i suoi raggi, oltre a illuminare il mio spirito, sprigionavano i colori più nascosti della bella copertina dell’ultimo libro di Beppe Sala. D’un tratto entrò una bambina. Avrà avuto sei anni. Mi disse che essendo di Piazza Bologna e quindi ricca aveva già letto sette volte la saga completa de L’amica geniale di Elena Ferrante, nove volte I leoni di Sicilia di Stefania Auci e nove volte Il capitale di Karl Marx. Harry Potter, disse, non le era mai piaciuto. Le credetti all’istante e iniziammo a discettare di letteratura e pensiero. Mi chiedeva se conoscevo Henri Michaux e io rilanciavo “Conosci Rudolf Bultmann?”. Era un palleggiare di sinapsi conoscitive, uno scambio di folgorazioni ermeneutiche. Uno scambio di emozioni.

Il padre della bambina, che finora non si era visto, si affacciò dalla porta e la richiamò. Disse di sbrigarsi perché aveva il suv in seconda fila. Tutti noi ci mostrammo dispiaciuti. Non potevamo tollerare tutta questa violenza. Ciononostante la bambina, che era educata e ubbidiente, oltre che sommamente intelligente, decise di eseguire gli ordini e tornare dal padre. Ma accadde una cosa strana. Non appena varcò la porta iniziò a diventare pallida e a perdere l’equilibrio. Si fermò e si toccò il capo. Sudava. Infine cadde a terra straziata. In brevissimo tempo si creò una piccola folla che intervenne prontamente a medicarla. I negazionisti stavano a meno di un metro, gli altri più lontani, ma comunque erano presenti. I vaccinati provarono con la respirazione bocca a bocca, ma niente da fare. La bambina non mostrava cenni di vitalità. I suoi occhi persi in chissà quale universo.

A un certo punto mi feci forza. Mi recai fuori. Presi la giacca che indossavo, la poggiai su una vetrina e dissi “AOH MA CA CASSSSSIO SSSATE A FA, AH FRACICONIII!?!?! MA CHE NUO VEDETE CA NUN S’ARIPIJA? LIMORTAAAACCCITUA! AOOOOHHHHHH!”

Preso dalla foga dell’argomentare – una mia qualità che avevo avuto modo di sviluppare presso l’università – misi la mia mano attorno alla mia bocca, con il pollice sotto al mento, quasi come a sorreggerla: a Montecarlo chiamavano questo gesto “a cucchiara”. Tutti capirono subito che ero determinato nel salvare la bambina, e poi lavoravo in una libreria. Quest’ultimo non era solo un dettaglio. I più lucidi mi dissero che avevano provato a salvare la bambina in vari modi. Io dissi che era inutile continuare con quei metodi scientifici e che avrei provato con altre maniere. Rientrai dentro e poco dopo mi riavvicinai alla bambina. Mi bastò avvicinarle alle tempie il tomo de La misura del tempo di Gianrico Carofiglio per rivedere i suoi magnifici occhi pieni di vigore. La bambina comprò ben 17 copie del libro e tornò dal padre che stava al telefono con l’architetto della loro quarta casa al mare. Io tornai al mio lavoro facendo zig zag tra la folla che nel frattempo era cresciuta e dalla quale ogni tanto si alzavano a gran voce le parole: “Evviva la Cultura”, “I libri ci salveranno”, “W il sapere”.

Mi girai verso di loro e dissi: “Ora lo capite quanto è importante la Cultura?”


Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui Not, Il Tascabile, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.