L’altro giorno sono andato a comprare un po’ di farina. C’era un po’ di sole, un po’ di pioggia, poi anche un po’ di grandine e un po’ di nevischio. Di sicuro faceva freddo. C’era uno, per strada, che di mestiere prendeva l’acqua: aveva due borse grandi e plastificate, blu, e un giubbotto grigio reso scuro dalla pioggia. Camminava di fronte ad una pensilina dell’autobus, ma non lo stava aspettando.
In corrispondenza di una delle ultime curve prima di raggiungere il molino, una visione: sul tetto di una sorta di magazzino dal soffitto alto prendeva posto una barca, e un’altra invece era collocata sul davanti. Smarrimento. Incomprensione del mondo. Uno scherzo.
Dentro il molino, per terra, c’erano almeno due dita di farina a impanare il pavimento. Con i miei piedi umidi creai una pastella succulenta, scura, buona da friggere anche così al naturale. Pensai però di utilizzarla per dei carciofi, una variante gourmet. Ma non ebbi il coraggio.
Un vecchio con la coppola aspettava di essere interpellato, mente mi guardava giocare come un poppante con la mistura golosa. Lo vidi e mi accostai alla sua scrivania. Vorrei un po’ di farina – gli dissi – di questa qui. Questa qui era una farina da filiera corta, prodotto fantastico. Quante ne vuoi? – mi disse il vecchio con la coppola – ce l’ho da dieci o da venticinque chili. Non riuscii a distinguere il suo accento. Ma da un chilo non ce l’hai? – chiesi io. E lui: si, ce l’ho. Pensavo ne volessi di più. Stai calmo vecchio – pensai – ma che ti metti a pensare. E poi gli dissi: mi bastano due sacchetti da un chilo, grazie. Vile del cazzo – pensai.
Pagai e uscii con la mia farina sottobraccio, come fosse una baguette, come se io non fossi in un paesino collinare senza senso, come se il cielo non fosse stupido e grigio chiaro, come se non scendesse ancora quel nevischio putrido buono solo a smerdare le strade strette e stupide di quel paesino collinare senza senso.
Lungo la via per tornare a casa, spuntò un sole. Poi passai per una via dove passavo tutti i giorni: oltre al sole spuntò anche una barca, poi due, poi tre barche. Mi ritrovai circondato da barche, sospese su ruote sgonfie. Non le avevo mai viste. Magia nera – pensai. Accostai la macchina, ancora velata del nevischio del paesino collinare senza senso. E scesi. Varcai un cancello aperto: mi sembrò di essere al camposanto. Spuntavano barche sotto ai miei occhi, ogni secondo, come ogni giorno, nell’orto del nonno, spuntano nuove foglie. Era la primavera, era il segno che aspettavo. Uscii trafelato da quel posto sacro, pensando e sperando di trovare un simbolo di religiosità o qualcosa del genere che mi fosse sfuggito alla vista mente entravo. Non lo trovai e decisi di porre rimedio. Mi fiondai in macchina, presi uno dei miei pacchetti di farina, lo aprii e tornai dentro il suolo consacrato. Iniziai a spargere la delicata e preziosa farina 0 macinata a pietra da filiera cerealicola a km 0. I rimasugli di pozzanghera assorbivano la polvere, nei punti asciutti l’erba e la terra si tingevano di purezza. Era la fertilità.
Finii il contenuto del sacchetto da un chilo di farina, dopodiché tornai in macchina: c’erano Benji e Fede a tormentare le memorie della funzione appena terminata. Spensi la radio.
Per strada, verso casa, vidi solo donne incinte, sorridenti, parzialmente nude.
Parcheggiai nel mio solito parcheggio e corsi di filata dal nonno. Nonno – gli dissi – mettiti il giubbotto. Si va a comprare una vanga nuova. Il nonno si alzò dal divano e mi disse va bene. La macchina è aperta – dissi io – aspettami dentro.
Con la farina sottobraccio come una baguette entrai in casa e annunciai la primavera ai presenti.
Poi misi la farina nella credenza.
Niccolò Protti non dimostra l’età che ha. Gli piace scrivere e cucinare. Suo nonno fa l’orto.