Il simbolo tace.

Il dio fanciullo e l’accordo supremo.

Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te.

Franz Kafka.

Quando la vista è stata dimenticata, la luce si fa infinitamente ricca. Quando l’udito è annichilito, il cuore si raccoglie nelle eterne profondità. Quando i sensi della percezione sono aboliti, l’uomo diventa capace di strapparsi da tutte le attrattive del mondo, di farsi puro, aperto, intero, in completa unione con il tutto, ampio, senza limiti, come un alito vivente, non più soggetto alle umane separazioni.

Dal libro La caverna a strisce rosse

Ho avuto un’apparizione.
Sono a caccia di una divinità antica.
In assoluto silenzio, palpebre socchiuse.

Vedo Aby Moritz Warburg intento a illustrare a una platea di uomini cosa intendesse con il termine pathosformel.
È il 5 ottobre del 1905. Assisto a una conferenza intitolata «Dürer und die italienische Antike» [Dürer e l’antichità italiana] e per la prima volta Warburg usa pubblicamente questa parola misteriosa.
In italiano è stata tradotta come ‘formula di pathos’e indica quei tratti simbolici, ricorrenti nella storia dell’arte e quindi della rappresentazione in generale, che riescono a condensare e sublimare le esperienze ancestrali degli uomini nella fisionomia e nelle caratteristiche di immagini archetipiche, di volta in volta replicate attraverso differenti canoni artistici e culturali. Queste immagini pervengono – rievocandone il sentimento – a una compassione primeva e universale, arrivando così a provocare una catarsi autentica nell’osservatore, la vera estasi.
In questa particolare occasione Warburg prende a esempio La morte di Orfeo di Albrecht Dürer; nell’opera riesce a cogliere come vi sia una specifica forma che si riferisce a un’esperienza originaria condivisa da tutti gli esseri di tutti i tempi. Solo lasciandoci toccare da quella forma, da quella evocazione, il mito può arrivare a ognuno di noi, poiché ci ricorda di ciò che abbiamo vissuto e sofferto.
Per questo motivo osservando il volto di Orfeo impaurito dalle verghe delle menadi, i muscoli tesi del suo corpo in ginocchio, la lira sulla nuda terra, potremmo sentire il bisogno di piangere.

La parola simbolo proviene dal greco antico. Il verbo συμβάλλω vuol dire «mettere (gettare, βάλλω) insieme (σύν)», da cui σύμβολον, col significato di «segno». Da questo viene la parola latina symbolum. Il termine greco esprime, a causa dell’uso pratico che se ne faceva, anche l’accezione derivata di «patto», o meglio di «accordo».
Non ci addentreremo nelle rigogliose foreste della semiotica, non faremo qui differenza tra segno e simbolo. Non prenderemo in considerazione alcun triangolo. Non è questo che c’interessa, quanto piuttosto il pathos, dal punto di vista warburghiano.
Il simbolo, o segno simbolico, cosa ci dice?
A volte urla scocciato,
poi lo guardo e torna zitto,
immobile.

Jacques Vidal, per introdurre alla lettura del Dizionario dei simboli tratto dalla mastodontica Enciclopedia delle religioni –diretta da Mircea Eliade con l’essenziale collaborazione di Ioan Petru Culianu – usa le parole con le quali André Lalande nel suo Dizionario critico di filosofia definisce il Simbolo: «Il simbolo è qualunque segno concreto che evochi, in un rapporto naturale, qualcosa di assente o che è impossibile vedere». L’evocazione dell’invisibile.

«Ogni icona è una rivelazione» scrive l’arciprete ortodosso Pavel Aleksandrovič Florenskij.
Questo è il punto di vista che vorrei fare mio.

Ho il compito di guardare un’immagine e cogliere la rivelazione intessuta nell’accordo dei simboli che la compongono.
«Le singole forme simboliche diventano così non imitazioni della realtà, ma organi di essa, in quanto solo per mezzo loro il reale può essere assunto a oggetto della visione spirituale e quindi divenire, in quanto tale, visibile» (Cassirer).
Devo quindi considerare ogni segno simbolico che compone questa immagine come un organo del reale poiché è tramite l’insieme di questi dettagli che potrebbe essere possibile leggere la realtà nella sua vera forma. Vedere la realtà, cioè, guardando – attraverso i simboli – oltre la realtà stessa. Ovvero tramite la catarsi esperita nel ri-vivere, attraverso l’immagine, il mito che essa raffigura, o meglio il pathosformel che essa esprime.
Apro gli occhi e lo guardo.

La parola e l’immagine mitica, che da principio si contrapponevano allo spirito come dure potenze reali, si sono spogliate di ogni realtà, di ogni attività effettuale: ormai sono soltanto una lieve aura, in cui lo spirito si muove libero e senza ostacoli. Questa liberazione non si compie in virtù del fatto che lo spirito si è spogliato dell’involucro sensibile della parola e dell’immagine, ma per il fatto che si serve di entrambe come di organi e così impara a comprenderle per quel che esse sono nella loro più profonda radice, ossia come le sue stesse autorivelazioni. (Cassirer)

Sì, parlo di apparizione. Ma per evitare un’interpretazione ambigua che confonda apparizione e apparenza, diciamo rivelazione, rivelazione del sacro. Sia la metafisica sia la pittura d’icone poggiano su questo fatto intellettuale o intelletto effettuale: nella rivelazione dall’alto non c’è niente di semplicemente dato, di non compenetrato di un significato, come non c’è neanche nulla di astrattamente edificante, ma tutto è significato incarnato e visibilità intellegibile. (Florenskij)

Florenskij era convinto che l’arte di dipingere icone fosse una pratica metafisica, una «metafisica concreta», una «metafisica dell’essere». Solo esperendo la rivelazione in ogni ambito della loro esistenza, gli iconisti ortodossi russi potevano dar vita alle loro opere e creare icone che avessero in sé il pathos di quella stessa rivelazione per poterla trasmettere a chi si fosse trovato a guardarle.

Credo che l’iconista di cui parla Florenskij possa essere interpretato anche come qualsiasi essere umano abbia tentato di dire qualcosa. Non intendo semplicemente: comunicare. Come non voglio significare unicamente: tramite l’utilizzo del linguaggio verbale. Intendo il dire come atto simbolico: esprimere la catarsi ancestrale tramite un’immagine, un insieme di segni, un composito sistema formale ricolmo di riferimenti. Non ha importanza il mezzo in sé.

La gente dice che stiamo cercando solo di dare un senso alla nostra vita. Ma io non credo che ciò che cerchiamo davvero sia questo, quanto piuttosto l’esperienza dell’essere vivi, così che le nostre vite fisiche abbiano una risonanza interiore e ci facciano provare il rapimento del vivere. (Campbell)

«Questo è tutto», diceva Joseph Campbell, «ed è ciò che le tracce mitiche ci aiutano a ritrovare dentro di noi». Scriveva che «i miti sono le tracce che ci guidano verso le potenzialità spirituali della vita umana». Pensava che i simboli – e i miti che rappresentavano – fossero delle indicazioni per raggiungere l’essere, nel senso amletiano del termine. E per questo motivo dedicò la sua vita allo studio e all’interpretazione dei simboli, delle mitologie, delle storie di ogni tempo e di ogni luogo del mondo. Credeva nel fatto che questi simboli potessero risuonare dentro di noi per sempre e che siano davvero in grado di risvegliarci e dirci qualcosa. Quel qualcosa che potrebbe diventare per noi l’unica cosa che abbia senso dire.

Arpocrate, il dio fanciullo.

Ho ricevuto il compito di dire qualcosa su questa icona sacra[1].
Cerco una rivelazione nei simboli di cui è composta.
Sono a caccia di un dio.

Il suo nome è Arpocrate – il fu Horus ‘fanciullo’ nel pantheon delle divinità egizie. Se chiudo gli occhi e chiedo cosa voglia dirmi, non sento nulla. È apparso e ancora non so perché, ed è per questo motivo che mi affido all’arte della venagione, seguendo le tracce di un essere sacro, dimenticato.

«Iside si unì a Osiride anche dopo la sua morte, e partorì un figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori, Arpocrate» scrive Plutarco nel suo De Iside et Osiride. Mi colpisce subito questa caratteristica del piccolo Arpocrate: «ancora imperfetto e immaturo» lo definisce Plutarco. Probabilmente poiché nato da un rapporto di necrofilia, seppur divina. Guardando l’icona non mi sembra che Arpocrate sia qui rappresentato come un bambino rachitico, eppure c’è qualcosa che mi incuriosisce, un indizio. Plutarco specifica, infatti, che Arpocrate «non va considerato come un dio incompiuto, infante». Sembra suggerire che la sua imperfezione, l’immaturità, l’incompiutezza siano caratteristiche fondanti delle sue capacità, del suo potere: «egli è il patrono e il precettore dell’umana attività di comprensione del divino, che è imperfetta e immatura e inarticolata» come lo stesso Arpocrate.

Credo che queste parole possano risuonare dentro chiunque. Provo a rivolgerle a noi nel modo più semplice in cui riesco: «le nostre imperfezioni sono il tramite per arrivare al divino», questo ci dice Arpocrate, almeno secondo Plutarco.

Dopodiché il De Iside et Osiride prosegue affermando che questo – questo suo potere che riguarda l’«umana attività di comprensione del divino» – è il motivo per il quale «il dio tiene il dito sulla bocca, come simbolo, cioè, della prudenza e del silenzio». In questo passaggio Plutarco parrebbe indicare una diretta corrispondenza: l’ingiunzione di tacere invita al lavoro spirituale e all’ascesi.
D’altronde anche Ovidio nelle Metamorfosi descrive Arpocrate come «colui che reprime la voce e invita col dito al silenzio».

Per questa ragione, infatti, Arpocrate è associato spesso all’alchimia, alla massoneria e ad alcune altre sette – come la setta gnostica dei carpocraziani –; e ai culti misterici in generale.

Noi sappiamo oggi che l’idea del dito che intima silenzio nasce da una sorta di fraintendimento del significato di questo gesto del dio.
Horus fanciullo – ovvero Arpocrate – presumibilmente teneva il dito in bocca alla maniera dei bambini, indicando sé stesso.
Nel mondo greco e latino, Arpocrate è stato reinterpretato come dio del silenzio a causa di quel dito; per gli antichi egizi era piuttosto l’incarnazione divina della nascita del sole, simbolo di buon auspicio. Simbolo, soprattutto, della resurrezione.

Vi è da specificare che, nel mondo egizio, Horus veniva identificato in due figure distinte: Horus ‘fanciullo’ e Horus ‘adulto’, con la testa di falco, ovvero il secondogenito di Iside e Osiride, concepito quando il padre era già morto (ucciso per mano del fratello Seth). Horus è colui che vendica la morte di Osiride, suo padre, affrontando lo zio in un furioso combattimento.
«Nella lotta, Horus aveva perduto l’occhio sinistro e Seth un testicolo. E proprio l’Occhio di Horus sacrificato, offerto alla mummia di Osiride, poté restituire la vita al dio» (Campbell).

Ci troviamo al cospetto di una morte e una resurrezione e scopriremo, andando avanti, che ognuno dei simboli in questa icona indica questo stesso percorso.

Proviamo a supporre che Horus fanciullo sia morto e risorto in Arpocrate. Potremmo provare a supporre che tutti i simboli debbano necessariamente intraprendere questa via, morire nel silenzio e rinascere nella parola. Nell’immagine, nell’icona.

Il paragrafo del De Iside et Osiride dedicato ad Arpocrate termina con questa precisazione apparentemente fuori luogo: «Di tutte le cose che la natura umana ha in sé, certo nessuna è più divina della parola, soprattutto della parola che cerca di comprendere la divinità: e niente ha più efficacia nella conquista della felicità».
Risuonano dentro di me le parole di Warburg, Florenskj, Campbell.
Sono convinto che Plutarco qui stia dando inconsapevolmente l’abbrivio a un lungo e articolato discorso sul linguaggio e sul silenzio. Una discussione che si protrae da millenni tra i pensatori di ogni epoca. Cosa è il silenzio della e nella parola? Cosa è il silenzio nelle immagini? Esse nascono dal silenzio e sono anche, in qualche modo, immerse nel silenzio; lo si trova in ogni interstizio: il silenzio corrisponde a ciò che vuole esprimere il linguaggio, e viceversa: sono i due opposti e si completano l’un l’altro.

Il simbolo riesce a «mettere insieme», ad accordare il linguaggio e il silenzio e, così, a esprimere il divino.

Il silenzio è il linguaggio di Dio perché contiene tutte le parole: è una inesauribile riserva di senso. L’uomo è invitato a fare silenzio dentro di sé, a ritirarsi dalle ordinarie condizioni della conversazione per udire una parola che non passa più attraverso l’interruzione delle parole. Ma l’ascolto della lingua divina non può realizzarsi senza una disposizione propizia da parte del credente che a tale ascolto si rende totalmente disponibile. (Le Breton)

Desidero ora tornare all’immagine.
A questa icona. Non sappiamo da quando e da dove essa provenga ma sappiamo che vuole dirci qualcosa. Per questo indaghiamo i singoli segni simbolici di cui è composta, per comprendere cosa, del cosmo invisibile che permea il nostro universo, essa desidera mostrarci, cosa può evocare in noi.
Vi sono molteplici raffigurazioni del dio fanciullo, che conobbe grande fortuna, soprattutto nel mondo latino.
Tuttavia, Arpocrate è apparso così come lo vedete, a me, a noi, tramite l’evocazione, la rivelazione metafisica di questa icona e non di altre: un dio fanciullo, nato dal fiore del loto, il dito indice della mano destra rivolto alla bocca, una squadra tenuta con il braccio sinistro tocca la luna, alla sua destra un ramarro lo guarda, la testa del dio è ornata di raggi, come fosse il sole; in cielo due stelle e uno spicchio di luna lo accompagnano nella rinascita.
Queste sono le tracce di Arpocrate.
Seguendo i segni lasciati nel tempo,
possiamo provare a scovarlo.

Le stelle.

Nella notte le stelle sono una guida.
Gli esseri umani si riferiscono alla volta celeste da millenni per trovare una direzione. Gli astri illuminano la via, rivelano la verità, indicano le risposte ravvivando i misteri. Trapassano l’oscurità per illuminare l’inconscio, ci dicono chi siamo. Abbiamo imparato a comprendere il loro linguaggio attraverso un complesso sistema di segni. L’astrologia dello zodiaco. Le stelle mostrano il presagio e la rivelazione. Sono anche il simbolo della notte, il momento dell’intuizione pura, della perdizione. Il tempo dell’imperfezione. Le stelle potrebbero suggerire proprio quella capacità spirituale, di comprensione del divino – che deve passare attraverso l’incompletezza e le ombre della notte – tipica di Arpocrate. Così il dio bambino, in quanto divinità dedita alla comprensione spirituale del divino, guarda le stelle e dimora nella notte; pur essendo stato Horus fanciullo una divinità tipicamente solare.

Nel mondo egizio le stelle erano gli «abitanti di Duat» ovvero del regno dei morti, difatti erano chiamate «seguaci di Osiride», colui che regnava sui defunti.

A differenza della tradizione del pensiero tipicamente occidentale, dove gli opposti traggono il loro senso dalla tensione che li separa, il dualismo di matrice egizia prevedeva un completamento più che un’opposizione vera e propria. In tale concezione la morte completa la vita, il buio la luce, il silenzio completa la parola e via dicendo, fino a poter pensare agli spettri stellari come lucciole capaci di illuminare il sentiero.

Siamo inevitabilmente ricondotti, guardando con attenzione le stelle raffigurate in questa icona, al dualismo e al numero due.
Mi piace molto la definizione di questo numero che troviamo nel Dizionario dei simboli di Eliade e Culianu: «Il due rappresenta la tensione tra polo positivo e negativo, tra sistole e diastole, inspirazione ed espirazione, maschio e femmina; in breve significa il contrasto che genera il flusso continuo della vita, dal momento che il mondo è costituito da coppie di opposti».
Nella stessa frase, in modo sottilissimo, è riassunta questa delicata discrepanza tra concepire il dualismo come una «tensione» tra poli opposti, e definire lo spazio tra due entità duali come il luogo nel quale si «genera il flusso continuo della vita».

Hans Biedermann suppone che «già all’inizio dell’epoca tribale l’esperienza dell’io personale rispetto al mondo esterno conducesse a una netta divisione del cosmo» in due parti, perfettamente simmetriche. Vuole suggerirci che la concezione dualistica del mondo possa essere conseguenza di un’esperienza ancestrale, condivisa e universale, il momento sacro nel quale, osservando l’altro, comprendiamo noi stessi e la vita in generale. La nostra cosmologia è fatta di opposti poiché noi esistiamo solo tramite ciò che differisce e si contrappone a noi, ciò che potrebbe completarci.
Gli astri s’illuminano vicendevolmente, sono gemelli.
Arpocrate è apparso con due stelle sul capo.
Lo indicano, ci indicano dove guardare.

La luna crescente – la luna calante.

Uno spicchio di luna, alla sinistra del dio fanciullo.
La luna è espressione definitiva del femminile e di ciò che è nascosto, nella parte scura del satellite, nella parte “morta”. Nell’antichità il moto della luna rappresentava anch’esso una morte – luna calante – e una rinascita – luna crescente –; essa risorgeva ciclicamente, ogni notte, dopo essere stata nel mondo dei morti. Difatti la luna è sempre stata legata a rituali funebri o di resurrezione. «Per vivere bisogna morire». Intendo dire che per vivere davvero, pienamente, bisogna «morire prima di morire». La luna – crescente o calante – ci invita a morire per poter rinascere. Ci induce a perderci nella notte senza sapere se ci sarà una splendida alba ad attenderci, oppure, un’eterna oscurità.

La luna riconduce al ciclo mestruale, oltre che al femminile più in generale. Ci riporta alla necessità simbologica, e quindi emotiva, di comprendere il ciclo mestruale, tramite il simbolo del ciclo lunare. Il ciclo è un fiume infinito di senso. Ci ricorda che bisogna guardare nel buio. Ci suggerisce di abbandonarci al nostro dolore, di imparare dal nostro dolore e di ascoltarlo. È una rivelazione: il ciclo mestruale è una rivelazione. Non solo per una donna, lo è simbolicamente per tutti gli esseri umani e gli esseri viventi, parallelamente al ciclo della luna. Ci costringe a rimettere sempre tutto in discussione, in ogni istante, all’infinito. Solo così è possibile risorgere e risplendere nel cielo notturno. La luna è trasmutazione.
La luna è l’ispirazione, l’ispirazione al cambiamento.

Per gli antichi egizi la luna era l’occhio perduto da Horus.
Horus adulto con la testa di falco, dio del sole.
L’occhio che permise a Osiride di risorgere.

Il corpo di Osiride si smembra in quattordici parti che corrispondono ai giorni di luna calante.
Per i greci Selene era la dea della luna. Figlia dei titani Teia e Iperione, era un essere «bellissimo e luminoso».
Selene irradia luce illuminando il buio.
Selene è anche la dea della magia.

Il sole – l’occhio.

La luna e il sole.
I due lumi fondamentali.
In questa icona l’astro solare è la testa di Arpocrate. Egli stesso è il sole. Il sole che muore, tramontando, e risorge all’alba di ogni nuovo giorno, illuminando ogni cosa.

Il dio con la testa di falco, Horus, era il dio del sole per gli antichi egizi, raffigurato accanto a Ra, divinità solare per eccellenza.

Il sole è simbolo di luce e di giustizia, simbolo di vittoria e di rinascita. Platone lo identifica come immagine assoluta del bene, nella sua manifestazione nel mondo delle cose visibili. Il sole è quell’ente che più di ogni altro simboleggia la purezza della luce, la vita e la divinità. L’occhio. L’occhio della divinità che tutto vede. Indica il potere divino. I culti dedicati al sole hanno attraversato ogni popolazione del mondo in tutte le epoche, poiché il sole incarna l’idea assoluta della vita sul nostro pianeta. È la vita stessa; pertanto è stato venerato dalle comunità umane, da sempre.

Esiodo nella Teogonia descrive Helios, figlio di Iperione e fratello di Selene, la luna. Un occhio che tutto vede, guardiano dei giuramenti, dedito alla vendetta, era anch’egli in relazione con la magia. Medea era sua nipote; Circe e Pasifae, «l’onnisplendente», due dei suoi figli. Una genia di maghi.

Nel mondo latino la religione solare ha una storia complessa e molto lunga, passa per il culto del Sol Indiges, incontra Mithra, venuto dall’oriente, e trova in Aureliano e in Eliogabalo i giusti vassalli per divenire Sol Invictus.

Apollo è il dio del sole e delle arti e soprattutto dell’illuminazione dell’intelletto. Arpocrate è l’illuminato, è l’illuminazione stessa.
Persino il sole deve morire per risorgere.
Il sole è dio e dev’essere ucciso.
Ecco la preda,
corre a nascondersi,
dietro l’orizzonte.

Il fiore di loto.

Il dio fanciullo emerge da un fiore di loto.
Il sole nasce da un fiore di loto blu nell’oceano celeste.
Questo credevano gli antichi egizi. Lo nominavano «il fiore nato all’inizio», emerso dalle acque primordiali. Oppure «sorto dalla luce». Il loto è legato sia al sole che alla notte stellata e alla luna. Torna nuovamente il dualismo – osserviamo i due boccioli ancora chiusi ai lati del fiore da cui fuoriesce il dio fanciullo, donano all’immagine una simmetria evidente che richiama il doppio. Il loto, questo fiore di loto è legato alla luce divina e all’oscurità dell’abisso, è insieme notte e giorno e viene prima di essi; dentro il loto risiedono, e da esso si sprigionano le forze opposte, maschile e femminile, vita e morte, luci e ombre.

La pianta del loto, molto spesso, nei racconti mitologici, è frutto di invenzione fantastica e non può essere identificata con nessuna specie presente in natura. Nonostante Erodoto, per esempio, ne dia una descrizione abbastanza precisa.
Non sappiamo esattamente nemmeno quale sia la pianta in cui si trasforma la Ninfa Lotide per sfuggire alle attenzioni di Priapo nelle Metamorfosi di Ovidio. Nonostante venga chiamata loto.
La pianta del loto è un mistero.
Si avvolge nel silenzio.

Hans Biedermann scrive che è «il simbolo dell’apertura spirituale» e aggiunge che i suoi otto petali indicherebbero l’armonia cosmica.
In questa immagine, però, non ci sono otto petali, ci sono due boccioli e un terzo dischiuso. Sono simmetrici alle stelle e alla luna e mettono in risalto ancora una volta questa necessità degli opposti, questa ricerca del doppio, di uno specchio che possa guardare dentro di noi e rivelare quanto sta nelle profondità liquide dell’esperienza di vivere. Questa potrebbe essere l’armonia cosmica da raggiungere tramite l’apertura spirituale.

Andando fino al fondo è possibile raschiare il cielo. Il luogo degli astri celesti e la profondità delle radici del loto sono le dimensioni della realtà autentica. Risvegliarsi significa scoprire quel flusso, generato dallo sfregarsi di queste due metà, dal quale si genera il mondo, significa vederlo e poterlo rendere visibile.
Il fiore di loto è il portale.
Dal quale Arporcate
è apparso.

La lucertola – il ramarro o la salamandra.

Alla destra di Arpocrate vi è una lucertola.
L’animale guarda il dio fanciullo, mentre si arrampica sul nulla.
Potrebbe essere un ramarro, una salamandra o una lucertola qualsiasi. Nella mitologia classica, la lucertola aveva significati ambivalenti e controversi. Simboleggiava la saggezza e la fortuna; tuttavia, veniva anche accostata alla figura del serpente e delle altre creature del mondo ctonio che strisciano nell’oscurità.

I latini, vedendo che durante l’inverno la lucertola andava in letargo per poi tornare a farsi vedere in primavera, la consideravano un animale mortuario, era presente nei riti funebri, rappresentava la morte e la rinascita.
Nel pantheon romano Apollo Sauroctono era il sole intento a uccidere la lucertola.

C’è una parte oscura e notturna nell’immagine della lucertola. Per esempio, nel Libro dei sogni Artemidoro ne interpreta l’apparizione onirica suggerendo una corrispondenza con «persone dappoco e spregevoli, ma tuttavia in grado di fare del male».
Eppure, d’altra parte, il modo in cui la sua coda ricresce suggerisce agli antichi un legame forte con il concetto di rigenerazione, onnipresente in questa icona.

Un’altra interpretazione vede la lucertola come un animale contemplativo. Il simbolo è quello di un’anima che cerca la luce. Quando la trova – ovvero quando incontra i caldi raggi solari – si ferma e rimane in estasi. Immobile, gode di quella luce, di quel calore, di quell’energia. Di quella catarsi trasformativa che le permette di rinascere. In questo consisterebbe la grande saggezza delle lucertole.

L’ambiguità che le contraddistingue consente loro di trovarsi sopra e sotto contemporaneamente. Nel palazzo dei re come nella mano di un uomo qualsiasi. La lucertola è un essere di luce che proviene dal buio, come il fiore di loto, come le stelle.
Il ramarro, in effetti, è una stella.
Tutti i segni indicano
lo stesso punto.

La squadra – il fuoco.

Arpocrate sorregge con il braccio una squadra.
Sostiene il fuoco sacro, la luce, l’immagine.
La squadra tocca la luna con la sua punta.
La squadra rappresenta lo spazio. Indica tutte le dimensioni, orizzontale e verticale. Tuttavia, si riferisce sempre e solo a uno spazio definito da regole precise, con angoli retti. Pertanto, è simbolo di rettitudine e del rispetto di leggi e regolamenti. Le leggi universali del cosmo come le leggi degli uomini, i canoni dell’immagine, il dogma dell’icona sacra. Uno degli angoli della squadra tenuta in braccio da Arpocrate in questa icona, tuttavia, tocca l’astro lunare. I due simboli si fondono, sono insieme.

Secondo Joseph Baurnjöpel, la squadra «rappresenta l’amore di Dio e del prossimo, amore di cui egli (il Maestro) dev’essere particolarmente ricco, e informa altresì ciascun fratello, al suo primo ingresso nel tempo, del fatto che il ricordo di questo monile, che include in sé ogni legge, lo deve spronare a usare tutte le virtù che sono possibili all’uomo».

La squadra, insieme al compasso, è simbolo massonico per eccellenza. Come dicevamo, molti dei segni simbolici rappresentati in questa immagine hanno un legame con la massoneria e con l’alchimia. L’occhio; il sole e la luna. La morte e la resurrezione.

Nella pratica alchemica il sole rappresenta l’oro. Così come la luna si riferisce all’argento. Il sole nero, sol niger, indica il primo stadio della Grande opera, la nigredo, l’annerimento del metallo.
Tutti i corpi celesti conosciuti dagli antichi sono legati a un determinato metallo, in alchimia.
Il fuoco, per gli alchimisti, è l’elemento centrale, ovvero l’Unità da cui si generano gli altri elementi.

La sua trasmutazione animale è una salamandra e ci fa pensare alla lucertola che si volge ad Arpocrate.
Se per Platone il fuoco era fatto di tetraedri, il simbolo alchemico del fuoco è un triangolo. E la squadra che Arpocrate imbraccia, altro non è che questo: una fiamma sacra.

Se l’alchimia è l’arte del fuoco e gli alchimisti, come molti testi ripetono, sono «artisti del fuoco», allora l’alchimista deve «conoscere» tutti i tipi di fuoco, le sue gradazioni, le sue fonti, i suoi combustibili. E deve essere capace di combattere il fuoco con il fuoco, usando il suo proprio fuoco per operare sui fuochi con i quali compie le sue operazioni. Lavorare il fuoco per mezzo del fuoco. La natura che lavora sulla natura. (Hillman)

La squadra tocca la luna – oppure – il fuoco illumina la notte.

Il fuoco ci riporta a Prometeo: può liberare gli uomini e contemporaneamente castigare un dio per l’eternità. Il fuoco è rivelatore: può illuminare, riscaldare, cuocere il cibo, allo stesso tempo può anche distruggere ogni cosa.
Nell’antico Egitto era simbolo di purificazione.

Nel celeberrimo mito della caverna il fuoco proietta sulla parete l’illusione delle ombre. Il fuoco cambia forma continuamente, non ne possiede mai una vera e propria, definita secondo regole matematiche e misure rette. Il fuoco è l’altra parte della squadra. Dove c’è una regola è insita l’infrazione di quella stessa regola.

Nell’oscurità del caos primigenio il fuoco definisce le forme.
«Lavorare il fuoco per mezzo del fuoco» significa provare a dare una forma definita a ciò che forma non ha. L’evocazione dell’invisibile. Questo è il significato ultimo dell’alchimia: trasformare il metallo in oro, ovverosia tentare di dominare l’indomabile, di esprimere l’inesprimibile, di «mettere insieme» gli opposti all’interno di uno stesso simbolo, di una stessa icona, dell’immagine sacra.

La squadra tocca la luna, diviene fuoco.
Arpocrate porta con sé la fiamma,
per illuminare la notte.

Il dito.

La mano è la divinità.

Le diverse simbologie adottate dagli uomini di ogni epoca tendono ad associare l’immagine delle mani agli dèi e al loro manifestarsi.
Per i popoli antichi la mano era riferita al potere creativo. Poiché la mano, prima ancora della parola, è l’organo tramite il quale l’essere umano costruisce, crea la sua realtà, il suo mondo. Il pollice opponibile delle mani di Homo sapiens è uno dei tratti distintivi caratteristici della nostra specie. La mano è diversa dalla zampa.

«Le mani danno e ricevono, afferrano e lasciano; colpiscono, proteggono, puniscono e carezzano. Fanno cenno, dicono ciao e arrivederci; mettono in guardia, ammoniscono e guidano, demoliscono e smontano, curano e riparano, mettono insieme, dividono e radunano» (Eliade e Culianu – il corsivo è mio). Le mani raccolgono il compito delle stelle, della luna e del sole. Sono le mani a creare l’icona mettendo assieme i simboli che ne fanno parte.

La mano può essere paragonata anche all’occhio: essa vede.
In psicanalisi, la mano che appare nei sogni è l’equivalente dell’occhio. Ci ricorda la Mano di Fatima, con le cinque dita aperte e l’occhio sul palmo.

Nel mondo egizio, a partire dall’Antico Regno, un amuleto a forma di mano serviva a respingere i demoni.
Nell’arte araldica del Rinascimento «le mani significano forza, fedeltà, diligenza, innocenza e concordia […]. Una mano con dita tese e separate significa discordia, la mano chiusa o il pugno, forza e concordia. Le mani strette una nell’altra indicano fedeltà e alleanza. Le mani ci nutrono, ci vestono, ci consolano; per tutte le opere dell’uomo bisogna ringraziare le mani» (Böckler).

Per l’astrologia tradizionale ciascuna delle dita della mano corrisponde a uno dei pianeti del sistema solare: il pollice è il dito di Venere, l’indice quello di Giove, il medio di Saturno, l’anulare è il dito solare e il mignolo il dito di Mercurio.

Il nostro Arpocrate indica sé stesso con il dito indice della mano destra. Il dito di Giove, il pianeta più grande del nostro sistema solare. Ovvero il corpo celeste che prende il nome dal dio reggente dell’intero pantheon delle divinità: Giove per i latini, Zeus per gli antichi greci. L’indice ha in sé tutte le caratteristiche della divinità: il potere, il dominio, la superiorità, la generosità e l’abbondanza.
L’indice di Arpocrate è il dito che rivela dove risiede il divino.
Non altrove, nelle stelle o sprofondando nelle acque scure da cui sorge il fiore di loto. Il divino è dentro e bisogna rivolgersi all’interno per poterlo raggiungere. Ancor più precisamente: il divino è nel dito indice, nell’atto stesso di puntarlo a sé medesimo piuttosto che altrove. Suggerisce l’autoanalisi, l’autorivelazione. Ci spinge a non guardare in molte direzioni diverse alla ricerca di un segno nascosto da qualche parte. Il simbolo è dentro.
Il dio fanciullo resta immobile, si arrende.
Ci invita a seguirlo fino in profondità.
Non sto cercando Arpocrate,
sto cercando me stesso.

L’accordo supremo.

Sono davanti al dio fanciullo.

La mia arma è la mia stessa mano.

Mi basta guardarlo e indicarlo col dito.

Resto in silenzio di fronte a lui, in assoluta contemplazione. Volto lo sguardo su questa montagna di libri che ho di fianco. Sono tutti attorno a me e ricambiano il mio sguardo. «Non si conosce la parola mediante la parola, ma attraverso il silenzio» scriveva un maestro dell’ascesi di nome René Daumal. Tutti questi libri non servono a niente. Tutte queste parole non hanno senso se non attraverso la loro assenza, bisogna dimenticarle. «Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace» (Pozzi). Il libro, esattamente come il simbolo, tace. Siamo noi a interrogare il suo silenzio. «Morta nel silenzio dell’ascolto, la parola rigermoglia nel silenzio fervido che l’avvolge. Assimilata e ricreata attraverso la meditazione, si delinea come un essere nuovo» (Pozzi). Leggere i simboli, le icone, è come leggere davvero un libro. Non ha importanza quanto di esso riusciamo ad assimilare mnemonicamente, il libro|simbolo ci parla in una dimensione spirituale più profonda, comunica con il nostro inconscio. Così, una volta assimilato un simbolo, o letto davvero un libro, se la sua sostanza è pregna di silenzio, contiene il tratto sacrale dell’interrogazione degli archetipi; e se noi siamo pronti a un ascolto totale e una successiva immersione nel perfetto silenzio; allora forse è davvero possibile intravedere un percorso.

La scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con moto inverso: l’una attinge dall’alfabeto il senso e lo affonda nello spirito; l’altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. È un cammino silenzioso. (Pozzi)

Nel tempo ho sviluppato la convinzione che l’atto primordiale di preparazione alla caccia, per tutti gli animali, fosse il gesto di porsi in uno stato di silenzio assoluto. Questa attitudine mi sembra accomuni l’attività del cacciatore a molte altre attività, tra le quali sicuramente leggere e scrivere, e più in generale qualsiasi forma di studio o di espressione artistica. Mi sembra un’idea piuttosto semplice ma sempre comunque rivelatoria. L’ho avuta leggendo Il Cacciatore Celeste di Roberto Calasso, un libro che per me è stato una guida e che continuo sempre a leggere e riportare ovunque.
Mi colpisce molto un passo che ho segnato tanti anni fa.
Parla di Plotino e della parola hēsychía (ἡσυχία) ovvero, insieme, «silenzio» e «quiete». «Silenzio perché precede ed è superiore al linguaggio; quiete perché contempla ciò che accade da un centro immobile» ci spiega Calasso. «Anzi, lo fa accadere». Nelle Enneadi «l’atto incessante che regge il mondo» è un flusso eterno ininterrotto, non c’è alcun demiurgo da venerare. Tuttavia, ponendoci nello stato di hēsychía potremo forse vedere questo «atto silenzioso, non visibile». Ovvero il «flusso continuo della vita» e forse lasciarlo accadere.

Per il Ludwig Wittgenstein del Tractatus solo l’atto di tacere è dovuto al vuoto oltre l’ultimo piolo della scala, oltre il linguaggio.

Trovandosi a Zürau, dalla sorella Ottla, consapevole della sua imminente dipartita, Franz Kafka scrive centonove aforismi su dei foglietti numerati. L’ultimo di essi è in epigrafe a questo scritto.
In uno dei suoi Quaderni in ottavo scrisse: «La contemplazione e l’azione hanno la loro verità apparente; ma solo l’azione procedente dalla contemplazione, o meglio ritornare in essa, è la verità».
Quando lavorava ai suoi racconti Kafka era solito stare ore e ore e ore seduto, senza mangiare, poteva evitare di alzarsi per giorni, mancare dal lavoro e passare le notti in bianco. La sua è una letteratura teologica, altamente simbolica. Doveva abbandonarsi alla rivelazione per dire qualcosa.

Arpocrate vuole dirci proprio questo: riconosci te stesso.
Riconosci te stesso tramite l’abbandono totale all’immagine, nel silenzio. Tutti i segni simbolici contenuti nell’icona ora si parlano. Il dio fanciullo, la nascita del sole, il patrono del silenzio. Nascita e morte, prendere e dare, maschile e femminile, notte e giorno.

Cos’è il simbolo? Vorrei usare le parole che il grande Sergio Solmi dedicò alla Poesia, scrisse: è l’«accordo supremo del nostro essere con sé medesimo». Fare poesia, scrive Solmi, accade «Quando la parola è accettata senza reticenze, quando la parola non forza nulla e le basta lasciarsi dire». Il simbolo è l’espressione di questa accettazione. Il simbolo è il risultato dell’«accordo supremo».
Questo ci insegna l’icona che abbiamo davanti, l’apparizione di Arpocrate e la caccia che abbiamo condotto fino a qui, sulle tracce di un dio bambino, scomparso da secoli; seguendo i segnali delle stelle e lo sguardo delle lucertole; ci suggerisce la potenza rivelatoria e poetica intrinseca nell’«accordo supremo», la capacità che abbiamo di mettere insieme gli opposti, di trarre giovamento dalla disgrazia, di illuminare nella notte, di ascendere al cielo invisibile tramite l’immersione totale nelle profondità delle acque, di morire e risorgere. Chiede il nostro silenzio poiché è l’unico luogo nel quale possiamo riconoscere noi stessi. Guardando il fluire del cosmo nelle distese interiori del nostro spirito, immersi nell’oscurità splendente dell’eterno abisso.

«La parola ora tace»
dice Qohélet. Colui che prende la parola.

Ora, quando appare il fanciullo,
ascolta come il simbolo tace,
scopri l’accordo supremo,
lascia accadere il divino,
conosci te stesso.


[1] Qui vorrei inserire il riferimento all’icona. Es: “l’icona raffigurata nell’immagine di copertina o alla prima pagina” a seconda di dove sarà messa.

Nota bibliografica.

Per condurre la stesura del presente testo ho consultato diversi volumi, lavorandone il contenuto in modo più o meno diretto. Per agevolarne la consultazione potremmo dividere le fonti bibliografiche in tre differenti aree.
Per ciò che concerne il concetto di simbolo e l’approccio all’icona si veda Aby Warburg, Il rituale del serpente. Una relazione di viaggio, Adelphi, 1998; Aby Warburg, Astrologica. Saggi e appunti 1908-1929, Einaudi, 2019; Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Abscondita, 2018; Ernst Cassirer, Linguaggio e mito, SE, 2006;Pavel A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, 1977; Pavel A. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, 2001; Pavel A. Florenskij, Realtà e mistero, SE, 2016; Joseph Campbell, Il volo dell’anitra selvatica. Esplorazioni nella dimensione del mito, Arnoldo Mondadori, 1994; Joseph Campbell, Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers, Guanda, 1990. Oltre all’influenza evidente delle immense opere di Ioan P. Culianu, Mircea Eliade, Robert Graves, Károly Kerényi, Edgar Wind e alcuni altri maestri che hanno forgiato lo sguardo di chi scrive nell’approccio alla mitologia e alle sue manifestazioni.
Quanto all’interpretazione dei simboli raffigurati nell’icona di Arpocrate qui analizzata ci siamo profusamente serviti di Anna Ferrari, Dizionario di Mitologia, UTET, 2019; Manfred Lurker, Dizionario dei simboli e delle divinità egizie, Ubaldini, 1995; Mircea Eliade, Ioan P. Culianu, Dizionario dei simboli, Jaca Book, 2017; Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti, 1991; Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, BUR Rizzoli, 1986; Yves Bonnefoy, Dizionario delle mitologie e delle religioni, BUR Rizzoli, 1989; Joseph Campbell, Le figure del mito, Edizione CDE, Milano, 1991; A questi abbiamo affiancato la consultazione di alcuni testi antichi quali Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, 2015; Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, 1985; Artemidoro, Libro dei sogni, Adelphi, 1975; l’opera intera di Platone e le Enneadi di Plotino, Mondadori, 2002; per alcune delle idee esposte nel testo, riguardanti gli archetipi e l’inconscio, si è ampiamente tratto spunto dall’opera di James Hillman, in particolare Figure del mito, Adelphi, 2014, Psicologia alchemica, Adelphi, 2013 e Il sogno e il mondo infero, Adelphi, 2003.
Infine, è importante citare alcuni libri che costituiscono le fondamenta del ragionamento che conclude e permea il testo nella sua interezza: Martin Buber, Confessioni estatiche, Adelphi, 1983; David Le Breton, Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, Raffaello Cortina, 2018; Giovanni Pozzi, Tacet, Adelphi, 2013; Giovanni Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, 1993; Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 2009; René Daumal, La conoscenza di sé, Adelphi,1972; Franz Kafka, Quaderni in ottavo, SE, 1991; Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, 2004; Roberto Calasso, Il Cacciatore Celeste, Adelphi, 2016; Sergio Solmi, Meditazioni sullo Scorpione, Adelphi, 2016; Qohélet. Colui che prende la parola, versione e commenti di Guido Ceronetti, Adelphi, 2001.


Andrea Cafarella collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto», «Kobo», «Singola» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria e filosofia. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola Antologia della peste (Ronzani, 2020), curata da Francesco Permunian, con illustrazioni di Roberto Abbiati. E ha curato l’introduzione a Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlon, 2020).