Cari Drogafan,
Come avrete probabilmente saputo, negli scorsi giorni è venuta a mancare al nostro abbraccio una stretta collaboratrice del nostro magazine, Claudia Rae Acciarino. Le parole in questi casi sono uguali a una specie di sonno di ore e ore che non è mai ristoratore, anzi è un sonno che non ti dà pace: Claudia è stata una colonna portante della scena romana, una moderna amazzone che si caricava sulle spalle il giusto peso delle responsabilità. Soprattutto una grande amica, leale e ironica, compagna di battaglie musicali e politiche, a volte vinte a volte no, ma portate sempre avanti con il gusto per la vita – intesa non come slogan da decerebrati ma come possibilità random di azione, in quanto tutti siamo nati dal caos, non decidendolo. Gran parte dei suoi progetti musicali, come ad esempio Cassandra e Godog, nei quali sondava il rumore più profondo e il crossover Hc più ironicamente grottesco, sono mossi da questa scintilla qualitativa che parte da non si sa dove, ma che ha la determinazione di saper dove andare, forte del suo background filosofico. Il suo lavoro al fondamentale circolo Dal Verme e poi nel negozio di dischi/fucina culturale chiamato Inferno, assieme all’amica Martina, è stato indefesso, e mirato a far crescere un’intera collettività: la scena underground di Roma senza limiti di genere – anzi se c’era un limite era quello di non averne. Potremmo stare ore a parlare di Claudia come succede in questi casi, ma è arrivato il momento di far parlare proprio lei: tramite la sua rubrica su Droga, Drug me to hell, che riproponiamo in tutti i suoi episodi. Chi ha avuto il piacere di conoscere questo bellissimo individuo possa riempirsi il cuore delle sue parole, e chi non ha mai incrociato la sua via possa finalmente farlo e goderne. È in questo modo, d’altronde, che il famoso sonno che non ti dà pace porta al risveglio: perché come la stessa Claudia diceva, “Non ci si sottrae alla catastrofe”; affrontiamola, dunque. Ma lasciateci dire che da questo momento ci sarà un pre-Claudia e un post-Claudia per la scena: dove finalmente sarà l’ora di decidere da che parte stare, perché il proprio recintato orticello – alla lunga – si secca.
Buona lettura a tutti.
Demmy The Voice e DJ Riccardone.
È così. Non sono costruttivo, io sono disumano, tifando la catastrofe, predicando lo spopolamento mondiale, l’abolizione della massa, l’immolazione delle folle cieche. Sono immorale, direttore d’orchestra nello scuotere l’asse dei valori, invertendo segni convenzionali. Voglio essere il colpevole, riconoscere i miei torti verso il pensiero ragionevole. Essere fiero della consapevolezza di essere nato senza averlo voluto o desiderato, di essere casualità e in quanto uomo essere inadatto all’attualità, allo stato di essere, al naturale scorrere delle cose, incapace di accettare la fine e la finitezza dell’aggregazione del materiale e dell’immateriale, alla conservazione del ricordo. Quando finalmente il tempo non sarà più, e il l’“intemporale” diverrà il quotidiano, allora non sapremo e non capiremo, ma saremo.
È così. Non ci si sottrae alla catastrofe. La massa è sempre colpevole di un’azione condivisa e mai personale, per questo è comoda in cui stare, giustificatoria, facile da usare, annullare il sé a favore del tutto impersonale, del tutto decolpevolizzante. Fare parte della massa, non fare parte dell’individuo che sceglie, agisce da solitario. L’altro è nemico dell’individuo ma allo stesso tempo la necessità imprescindibile di un’espiazione collettiva delle scelte sbagliate, delle posizioni prese, dell’indoleza, della pigrizia, dell’insuccesso, della frustrazione, della consapevolezza, del capire che non siamo e mai saremo, se non essere qui ed ora. Questa ovvia e quanto mai banale impossibilità e limitata incapacità di vivere, l’incapacità di capire il mondo. Questa dannazione condivisa sarà sempre nell’ordine delle cose, la dannazione sarà sempre. Essa coinvolge necessariamente l’accozzaglia di solitudini abortite che la compongono in una spirale senza volto. L’aspetto malvagio del meccanismo spinge inesorabilmente verso la moltiplicazione degli “individui massa”, in quanto più uomini vi sono e meno varrà l’uomo. L’essere umano non sarà mai abbastanza raro.
Chi si isola, chi si distacca dalla massa, chi sceglie di attraversare e vivere la solitudine vedrà dove sono diretti gli altri. Altri più disperati dei ciechi e dei sordi ne gettarsi della rupe della coscienza, dalla rupe del tempo, riempendo i propri occhi di consapevolezza e di impotenza divorante. Amen.
Quando ci diranno che possiamo tornare alla normalità, noi alla normalità non ci vorremo tornare.
Viviamo in una realtà malata e non certo per una polmonite, la SARS-CoV2.
È altamente probabile che stiamo vivendo l’era, quella dell’Atropocene, in cui c’è meno accettazione della malattia fisica e del trapasso, l’accettazione della nostra morte e di quelli che sono intorno a noi. Insomma questa roba non sembra sempre essere una cosa normale. C’è un’anomalia. Qualcosa che sfugge al nostro sistema, ai nostri codici, alla nostra realtà.
Finché il problema è lontano non ci tocca, è come parlare di un mito, di una leggenda; ma adesso che invece lo viviamo a pochi passi da noi si parla di Trincea.
Una Trincea che viene raccontata in diretta senza uno stop, senza un respiro.
La Trincea in Diretta.
Ma il luogo della Trincea sono le nostre menti, in nostro reale-virtuale attaccato al computer, allo smartphone, all’adsl.
Il nostro essere umani è immerso in un sistema ormai fuori schema che di finge caos.
Questo schema che mai è stato così lontano dalla natura e dal naturale.
Cosa ne sarà dell’abisso asistematico dell’equilibrio cosmico?
Eppure è chiaro che non possiamo ormai tornare troppo indietro, non certo all’età della pietra, ormai abbiamo fatto tanti di quei giri di boa da esserci persi nel mare delle certezze snocciolate.
Ci renderemo finalmente, forse contro, che per avere un prodotto confezionato sugli scaffali dei supermercati, ed è solo un esempio, quello insomma che compare come creato da Dio in persona così com’è, sì proprio pensato e quindi direttamente creato, magari perfettamente sterilizzato, dietro c’è una catena produttiva infinita (essenziale?), una complessità, una realtà a parte, una realtà costruita, ma fatta da chi? Ma da noi chiaramente. Compresi gli schermi in cui ci guardiamo oggi, ci scriviamo oggi, ci inventiamo un’altra personalità oggi.
E allora? Dove vuoi arrivare?
Al senso intrinseco, forse non subito evidente, ma assolutamente fisiologico delle dirette di Inferno Store Roma, tenute dalla sottoscritta Claudia Rae.
E cos’è Inferno Store Roma?
Nato tra le mura dello storico Hellnation di Roberto Gagliardi, Inferno Store è un negozio di dischi, libri, fumetti, stampe, cinema, abbigliamento e accessori particolarmente attento alle produzioni indipendenti e artigianali, un punto di riferimento per le sottoculture giovanili della capitale e tanti appassionati di musica.
Quindi ricapitolando, vista la situazione e i decreti, il negozio l’abbiamo chiuso, sospeso attività e abbiamo sospeso anche le spedizioni, anche se non tenute strettamente a farlo, fino a nuovo ordine.
Però è come se ci mancasse qualcosa in questa scelta, un tassello comunicativo, non col mondo, di cui francamente non ci frega nulla, ma in generale un qualcosa da chiarire meglio in primis a noi stesse.
Che cosa è davvero Inferno?
Inferno è un luogo, non luogo di realtà.
Perché dovrebbe, allora, smettere di esistere, in questo frangente in cui tutto si ferma? Anche solo momentaneamente, per lasciare spazio all’altra realtà malata della SARS-CoV2?
Il punto è questo.
Già mi aspetto la replica di qualcuno: “ma sei comunque parte del sistema”.
Certo che siamo parte del sistema o meglio dell’eco-sistema, comunque la vogliamo mettere, e allora?!
All’interno di un sistema ed eco-sistema ognuno ha il suo ruolo da giocare per sovvertire le regole e cambiare il corso del letto del fiume.
Eccoci, dunque, alle dirette della Trincea della Mente di Inferno Store, questo è il nostro non luogo, la nostra realtà.
La nostra non è una Trincea Fisica, anche se qualcuno ce la vorrebbe spacciare per tale, ma nella maggioranza dei casi siamo solo un ammasso di materia grigia ammuffita costretta nelle proprie case pronta a fare i capricci, a fare della morale, a fare gli impauriti, o una materia schizzata ed esplodente di chi non ci si sente comodo in questa situazione, ma non ci sentiva neanche prima.
La trincea della diretta è un Inferno puro, la contro-cultura vs le massa impaurita e forcaiola.
Qui la paura non ci piace, non ci fa sentire a nostro agio. Qui la paura, il dolore, l’odio non vengono dimenticate e forse neanche del tutto esorcizzate ma vengono spostate, vanno in un’altra dimensione, quella della creatività generale.
Usa gli stessi mezzi della cultura di massa, ma inserisce contenuti diversi.
Una necessità prima di tutto espressiva, forse egoistica, all’appannaggio di pochi, ma la rivoluzione non è per le masse, amici miei! Certo neanche per le élite, capiamoci bene.
La rivoluzione è di chi la vuole fare. Non si può convincere nessuno, lasciamo perdere.
La rivoluzione deve essere una cosa “subdola” anch’essa, come un virus, si deve propagare velocemente, fare contagiati tra chi è predisposto a ricevere, portare le anime dalla propria parte, non solo fare prigionieri col corpo.
Deve insinuarsi nelle menti.
Cambiare i processi di produzione, di distribuzione e di valutazione, di beni e servizi si può. Non per tutti, ma per parecchi sì.
Evitare l’alienazione da adsl, evitare un mondo virtuale, un mondo in cui la vita sarebbe ridotta a non vita si può. Non per tutti, ma per parecchi sì.
Nelle mie dirette, quelle della follia già di gran lunga manifestata in passato, di una persona che sembra prossima al Tso, c’è tutta quella lucidità che manca alle persone “normali”, a chi vuole tornare alla “normalità”, beh non c’è nessuna “normalità” a cui tornare.
Bisogna spiegare che la televisione, Netflix, Amazon, ipermercati e centri commerciali sono la normalità da non replicare, che non si risparmia in nessun termine comprando in questi posti o usando questi servizi. Che le piccole realtà piccole, alle piccole produzioni, la varietà e la creatività, sono quello a cui agognare, il cavallo su cui puntare, basta veramente poco per sopravvivere, per ridividere, per cooperare e continuare a fare un lavoro su tanti livelli che è anche consapevolezza di sé e dell’altro, che anche è anche lo spasso e la spensieratezza, che è anche riflessione profonda e superamento della merda nel cervello.
Spiegare che quando ci diranno che possiamo tornare alla normalità, noi alla normalità non ci vorremo tornare. Possiamo modificare noi il sistema, rendere il capitalismo per come lo conoscevamo semplicemente sterile, snellendolo e alleggerendolo, con l’aiuto della tecnologia stessa che di per sé può essere un alleato e un punto di forza, un passo in più che ci insegnerebbe come, iper-stardardizzazione del prodotto (vedi grandi marche, brand, grandi fabbriche, ikea etc), consegne on-line di cose che trovi a 5 mt da casa tua, ipermercati, centri commerciali, siano l’espressione della realtà malata in cui viviamo, quella della SARS-CoV2.
Volete curarvi, volete estirpare il virus, beh c’è solo un modo, il virus della “normalità” mettetelo a tacere.
Consecutio Temporum Solitudinis. Il mondo contemporaneo e l’esercizio mancato della solitudine.
SOLITÙDINE s.f.
[dal lat. Solitudo – dinis, der. di solus
“solo”]
La condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggiera o duratura.
Non troviamo nessun giudizio morale, nessuna accezione positiva o negativa di questo sostantivo femminile o maschile. Solo la sua mera descrizione.
Roma Antica:
Per Seneca “la solitudine è per lo spirito ciò che è cibo per il corpo”.
Europa Moderna:
Per Schopenhauer “Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, sé stessi”
Il significato di solitudine si modifica e prende forme concettuali specifiche, psicologie più complesse, con accessi diretti alla morale, l’etica collettiva. La psicologia (scienza e conoscenza dell’anima) sfocia su lidi legati ad una socialità sempre più articolata, ma forse dovremmo dire disarticolata, sempre più innaturale, sempre più estrema. I modi di vivere, di conoscere, gli spazi di condivisione fanno il nuovo, modellano e modificano.
Contemporaneità:
Restare in dialogo e relazione con sé stessi?
O vivere l’abbandono altrui come forza, dunque esaltazione dell’isolamento, dell’auto esclusione sociale, è veramente sempre realmente voluta o sottilmente subita?
E se fosse tutto un grande bluff mediatico? Un nascondersi, un fuggire semplicistico? Una mera tattica sociale e non un esercizio, una pratica del sé? Se non fosse una vera volontà, una necessità quasi imprescindibile dell’essere umano, una vera consapevolezza di avvicinamento al sé, complesso, non stereotipato, non “di reazione”, ma determinate (o meglio, autodeterminante), non un riflesso, il sé stesso capace di essere reale nella sua sconfinata interezza?
È oggi intendiamo la solitudine esclusivamente come una sé-parazione, pensiamo dagli altri, ma nella fattività è una bugia che raccontiamo. Non consideriamo che la solitudine contemporanea, al contrario di quello che si possa pensare, è la separazione da sé, questo perché gli altri sono diventati sempre più il nostro specchio deformato e deformante.
“Essere soli” di oggi è uno stato mentale, più che fisico, completamente orientato agli “Altri”, che siano individui idealizzati, standardizzati o al meccanismo della società, il “solo” è immerso in una moltitudine chiamata mondo, assolutamente deprivata e incapace dell’esercizio della solitudine.
L’estremo abuso della tecnologia e della connettività – via etere, dell’iper-connessione, dell’iper-comunicazione. Ecco, non si stacca mai realmente dagli altri e dal mondo, una distanza fisica non è sempre è più una variabile agirabile, viene colmata e stracolmata di vicinanza interattiva virtuale. Effetto placebo per alcuni versi, discrasia per tutto il resto.
Questa virtuale proiezione, possibilità estrema di raggiungere tutto e tutti ha portato l’umanità a un totale abbandono dell’esercizio della solitudine e a moltiplicare allo stesso tempo individui soli.
Questa necessità dell’altro è diventata così patologica, la più pericolosa delle dipendenze e se non dipendenza, se rifiutata come tale, la peggiore delle schiavitù, di una grottesca sindrome di Stoccolma.
Tutto il resto diventa un riflesso passivo-aggressivo, una casa degli specchi, del sé.
Gli altri ci raccontano, ci modellano, ci cambiano, gli altri diventiamo noi. Viviamo degli sguardi, delle emozioni, delle cause, degli obiettivi altrui, siamo docili attori del contemporaneo, immersi nella dinamica marxista del “servo-padrone” delle attenzioni, della remunerazione non più esclusivamente economica, dei like, dei cuoricini snocciolati sotto un post, sotto una foto truccata.
L’esercizio della solitudine (separazione dall’altro, verso il raggiungimento dell’unione e della pace con sé stesso) viene annientato e sostituito dall’esercizio della se-parazione (l’allontanamento da sé stesso) e nociva impossibilità di liberazione dall’altro. Il disagio provato dunque non è più un esclusivo appannaggio della socialità con l’altro, ma ciò che si prova principalmente con sé stessi, lo s-mostramento interiore.
L’impossibilità del restare soli realmente, diviene così il distanziamento dall’altro, quella teca impenetrabile, l’allontanamento da tutto quello che è naturale pulsione e naturale sopravvivenza; l’accettazione della morte, l’accettazione della fine in quanto fase vitale, l’accettazione di sé stessi come esseri immersi nel nulla-infinito. Un impigrire vegetativo agli stimoli esterni, non dettati da altri essere umani, dall’azione diretta del non-fare, dalla società.
Anche quando si spaccia al pubblico un’elevazione data da un’“eremitismo” di ritorno, volto alla ricerca della “pace interiore” o “consapevolezza”, lontano dalla società caotica e opprimente, parliamo di una posa, di una reazione di distacco dalle passioni, più che un reale riavvicinamento alla Natura, la nostra Natura, come invece un esercizio di solitudine dovrebbe suggerirci. Quel nutrimento per l’anima di cui parla Seneca, ad esempio, un nutrimento di cui dovremmo essere voraci, il contrasto all’individuo inaridito dall’impossibilità sociale in una socialità esasperata.
La solitudine non è dunque separazione dall’altro, ma sintonia e piacere nella dissonanza, una possibilità comunicativa autentica.
Una dimensione solitaria di riconoscimento, in sé stessi. La dimensione del compimento individuale, una possibilità quanto mai estesa di Amicizia, l’individuo interconnesso con tutto quello che ha intorno, dunque il totale contrario dell’isolamento contemporaneo, nutrimento di un terreno fertile e variegato dal quale crescere e accrescere, alimentare, seminare, arrivare al culmine, perire e ricominciare il ciclo vitale. Questa mancanza di esercizio della solitudine, questa mancanza di sé è quello che porta al all’impossibilità, all’incomunicabilità, all’aridità contemporanea, alla negazione dell’Amicizia.
Il ciclo esistenziale del palindromo.
In questo articolo voglio andare nel futuro tornando indietro colla mente.
Oggi è il:
.12022021.
Oggi è data palindroma di un giorno palindromo, di un anno palindromo, di un’era palindroma, di un sempre palindromo, di un tutto palindromo.
Una sequenza di numeri che si evolvono in cifre ribaltabili senza problema alcuno.
Il problema qual è? È che come “gira gira”, la questione resta la medesima, non solo nella sostanza, ma proprio nella forma.
Sembra incredibile eppure il palindromo c’è, esiste, popola il nostro mondo e lo influenza, plasmando i confini del tempo e dello spazio.
I palindromi sono ovunque. Si nascondono sotto la cenere della memoria, nelle intercapedini dei neuroni.
Tutto è palindromo.
Ma solo qualcosa lo è in maniera più evidente di altro.
Per chi come me è affascinata da questa esternazione di percorsi percorribili in entrambi i versi (perché identici, poli-percorribili, polifunzionali, poli dello stesso percorso), non solo ne è attratto dalla perfezione geometrica, estetica, concettuale, ma resta intrappolato nella labirintica simmetria mentale che induce alla vista, dal gioco enigmatico che c’è al suo interno.
E se fosse troppo perfetto per non essere imperfetto?
Assumiamo di fondo che il palindromo sia totale emblema di imperfezione dato dalla ciclicità schifosa e impossibile da scardinare delle nostre vite. Ad esempio, no per dire, io ora dovrei uscire magari a fare una passeggiata e invece sto qua scrivere questo articolo che leggeranno quattro stronzi nerd paranoici, quanto cazzo poco ha senso questa cosa e questa vita (la mia)?
E nulla sto qua che parlo di palindromi, che invece hanno senso, sono perfetti.
Perché sì, ammettiamolo no, è più bello vivere nel mondo delle “Idee di Platone” o nel mondo edulcorato dei romanzi Harmony, dei film della Disney, di quei cazzo di telefilm Netflix.
Idealizzare tutto: persone, vite, prospettive, luoghi, racconti e relazioni.
Il tangibile è una merda diciamocelo. È imperfetto, sporco, logoro. Presenta problemi, opacità, retaggi impossibili da scrostare.
Invece guarda lì, l’idea come è perfetta, come mi piace quell’idea precisa che sta lì scintillante nella sua intangibilità.
Dietro l’idea c’è tutto quello che si evita adeguatamente di fare: guardare in faccia la realtà.
Guardare, ad esempio, in faccia una persona e sputargli in faccia se vi fa schifo solo perché, sì, guardandola in faccia mi accorgo che ha quel capello è fuori posto, che io immaginavo perfetto. Se poi mi accorgo che ha un modo di gesticolare che, quando sono stanco, mi dà fastidio? No meglio l’idea allora.
Meglio che non possa scoprire un cazzo, che non possa scoprire che le imperfezioni potrebbero farmi impazzire di piacere, e poi come si fa se scopro che le imperfezioni mi piacciono e quindi che la gente mi affascina, mi attrae. Quella merda della gente.
Le sbeccature della matita, i margini poco definiti di una penna non funzionante potrebbero rendermi ebete.
Anzi no, time out. È ancora peggio la questione.
Nel mondo delle idee contemporaneo esiste anche l’idea di imperfezione che è talmente perfetta da non poter essere possibile; e se poi nel mondo del sensibile anche quell’imperfezione, cristoiddio, non sia quella che io avevo immaginato. Siamo in un mondo in cui l’idea di ciò che mi deve piacere, perché è imperfetto e malato e distorto, deve essere necessariamente corrispondete a ciò che ho nella testa. Noi siamo qua che ancora idealizziamo e crediamo nella perfezione (magari imperfetta, ma comunque è perfezione).
Io sono colpevole, sì, amo l’emblema della perfezione perfetta, il palindromo, così come quello della totale imperfezione.
È tutto così inquietante e affascinante allo stesso tempo.
E allora non uscite più, statevene a casa davanti al piccì, con la vostra paura del sensibile e con le vostre angosce quotidiane, a immaginare l’imperfezione perfetta (occhio alle seghe però, si rischia la tendinite, eh!), così almeno in questo senso tutto sarà imperfettamente al suo perfetto posto, come tutto ciò fosse imperfettamente palindromo, come la vita.
.ÈDIOLOGNOMOMONGOLOIDE.
Claudia Acciarino è laureata in filosofia ed è attiva nel panorama underground di Roma. Ha curato per anni la direzione artistica del Dal Verme prima di rilevare il negozio di dischi Inferno Store. Porta avanti vari progetti musicali.