Gli Assalti Frontali rappresentano letteralmente un pezzo di storia della controcultura italiana. Festeggiano quest’anno i loro trent’anni di attività con un doppio disco che ripercorre alcuni dei loro momenti migliori e regala perle come l’inedito “Porta per volare”, prodotta da Ice One.
Di seguito trovate una lunga chiacchierata con Militant A sulle loro origini, sul loro rapporto con l’hip-hop e sui loro cambiamenti artistici ed esistenziali.
Hai iniziato a fare rap nella redazione di Radio Onda Rossa. So che non è partito tutto dal fare direttamente musica in un gruppo, ma dal buttare giù due rime mentre eri ai microfoni della radio…
Sì, è così. In realtà io ho iniziato ad ascoltare rap grazie a degli amici, in particolare a un amico che a sua volta era amico di un ragazzo della comunità gay di New York, dove spesso andava per vedere cosa succedeva. Nei primi anni Ottanta, la comunità gay, che era poi legata a Keith Haring, si mischiava a quella hip-hop che all’epoca stava ancora nascendo. Dance, hip-hop e varie altre sottoculture, si concretizzavano in questi party dove si poteva suonare musica nuova – e ripensandoci a posteriori, si può vedere come ancora una volta l’omofobia si sia poi appropriata di tutta una serie di scene, quando invece ai tempi era tutto molto libero e contaminabile. Quindi grazie a questo amico di un amico che mi portava dischi pazzeschi ho cominciato a innamorarmi di questo ritmo. Sentivo che era un linguaggio che mi intrigava e mi piaceva.
Io alla fine degli anni Settanta ero piccolo, ed ero innamorato anche del mondo della politica, ma già sentivo che era un momento di passaggio, di cambiamento di linguaggi. Certi linguaggi erano totalmente esauriti…
Certo, tra l’altro l’hip-hop non era ancora un linguaggio consolidato come lo era già negli anni Novanta…
Esatto! Quando poi ho finito scuola ho avuto la fortuna di girare un po’ il mondo, sono stato negli Stati Uniti, sono stato a Kingston in Giamaica, sono stato a Londra, quindi ho visto proprio con i miei occhi questi ragazzi che iniziavano a creare quel tipo di musica. I pionieri del rap che facevano musica per strada, che creavano un certo tipo di situazioni. Mi avvicinavo a loro e mi facevo indicare i party. Parlavo con le persone che come me erano alla scoperta di questi luoghi segreti e si poteva percepire il grandissimo fermento che brulicava attorno a quella scena. C’era un’atmosfera pazzesca e io me la vivevo anche con una certa eccitazione. Avevo anche un po’ di paura, sai, un bianco che arriva lì in quei territori… invece non ti si filava nessuno perché c’era un fomento indescrivibile. Tutti pensavano più che altro a passarsi il microfono e ad ascoltare musica.
Dopo questa scorpacciata di emozioni, una volta tornato a Roma, ho cercato di sfruttare la mia posizione a Radio Onda Rossa. Noi eravamo i ragazzi giovani che avevano introdotto la redazione musicale in quella radio antagonista e super politicizzata. Io mettevo hip-hop e cercavo ovunque il rap in italiano. Mi sembrava una cosa necessaria far capire veramente cosa si voleva esprimere con quel linguaggio. Io andavo dai miei genitori e da tutte le persone che mi stavano vicine a proporre il rap, “senti che fico il rap!”, ma gli altri non provavano quello che provavo io. Non capivano i testi, non c’era nulla di suonato, …
Più che nulla di suonato, parliamo proprio di campionamenti rubati!
Sì, capisci? Tutti dicevano “ma che roba è?”; nessuno capiva. Allora ho pensato che bisognava far capire la potenza di quel linguaggio attraverso il testo. Quindi, piano piano abbiamo iniziato a fare le prime rime lì in radio, poi a mettere le rime sulle version strumentali, poi abbiamo fatto qualche canzone più strutturata, fino a quando ci siamo iniziati a chiedere “facciamo qualche concerto?”.
Era una domanda legittima perché concerti di quel genere, almeno in Italia, non se ne facevano.
Non c’erano. Nessuno faceva concerti così. Invece già dai primi tentativi la gente veniva, c’era una grande passaparola. Nel giro di poco tempo, nell’underground si creò un grande fomento per l’Onda Rossa Posse, soprattutto dopo l’uscita della canzone “Batti il tuo tempo”. Nel Novanta ci fu l’occupazione della Pantera all’università. Noi tra l’altro eravamo proprio studenti dell’università, io frequentavo la facoltà di economia e commercio… mi sono anche addirittura laureato.
Mi sembra di capire che è una cosa di cui ti vergogni…
Ahaaha! No, in realtà io mi ero iscritto perché volevo capire i meccanismi dell’economia capitalista per poterli criticare. Comunque mi sono laureato, ma poi ho abbandonato quegli studi e ho deciso di non seguire quella strada. Anche se ho scoperto che l’economia non è una cosa così distante da certe dinamiche che ruotano attorno al mondo della musica, ma è chiaro che la scintilla dell’ispirazione si accende in altri modi, ecco.
Tornando a noi, quando ci fu il movimento della Pantera noi eravamo pronti. Era il 1990, e quindi anche lì un altro passaggio d’epoca, ma noi avevamo accumulato tutto questo sapere sottoculturale, avevamo un po’ di canzoni e parecchio entusiasmo. Quando è arrivato il momento ci siamo messi lì e il rap ha fatto il suo debutto in pubblico.
Le primissime volte accadde all’università. Ricordo che una volta iniziammo a cantare in un corteo con un mare di gente, una cosa spaventosa. Poi soprattutto in una manifestazione nazionale che si concluse a piazza del Popolo, una manifestazione in cui c’erano praticamente gli studenti di tutta Italia. Noi salimmo sul palco benché non eravamo previsti nella scaletta. Ci appropriamo del palco tipo in 50 persone e facemmo mettere questa cassetta. I ragazzi saltarono in piedi, erano tutti stanchi, prima di noi c’era gente che faceva le cover o che faceva folk. Quando sentirono il rap restarono tutti sconvolti. E da lì è scoppiato tutto.
Quindi quello è stato proprio uno dei momenti fondamentali.
Sì, quello fu un momento fondamentale. Anche se, è strano, ma mentre lo fai neanche te ne accorgi tanto. Ovviamente ti accorgi di aver vissuto una giornata straordinaria, ma non capisci bene la situazione lì per lì.
Tutto questo accadde a febbraio. A giugno invece uscì il disco Batti il tuo tempo, e dopo pochissimi mesi iniziò ad arrivare un’attenzione spropositata verso l’Onda Rossa Posse. Una cosa che non ci aspettavamo minimamente.
Il fatto è che noi portavamo il nome di Radio Onda Rossa e quindi era un nome che aveva una responsabilità grande. Ogni cosa era delicata: interviste, inviti alla festa dell’Unità, decisioni da prendere velocemente, … Tutto diventava elemento di discussione con le altre persone del collettivo. A un certo punto pensammo, ok, Onda Rossa Posse è stata una cosa bellissima, ma è il momento di cambiare. Lasciammo il nome e il disco come patrimonio della radio e iniziammo a farci chiamare Assalti Frontali, nome che avevamo inizialmente pensato per l’etichetta che avrebbe dovuto produrre la musica che volevamo. Infatti se vai a vedere il disco di Batti il tuo tempo c’è il logo dell’etichetta “Assalti Frontali”.
Devo dire che dopo quel passaggio pensavamo che tutta quell’attenzione si sarebbe immediatamente dissolta. Invece subito dopo iniziarono a uscire gruppi rap in tutta Italia.
Gente tipo Lou X. Lui arrivò dopo Onda Rossa Posse, vero?
Con Lou X ci siamo conosciuti nel 1991, l’anno dopo. Ma anche lui già faceva rap, infatti ci prendemmo subito. Ovviamente Lou X è un grande, inutile ricordarlo.
A un certo punto invece il rap ha iniziato a guardare verso gli Stati Uniti. L’hip-hop diventò un linguaggio più strutturato e ci fu una grande ondata di rapper che cercavano di portare in Italia lo stile americano, ovviamente in maniera più o meno originale. Come vi ponevate nei confronti di quei musicisti? Rome Zoo, Colle Der Fomento, ecc…
Beh, con i Colle Der Fomento siamo proprio fratelli. Anche Danno lo dice, quando hanno iniziato ascoltavano le canzoni dell’Onda Rossa Posse e si incuriosivano a cose tipo “Omaggio a Sante“. Questo pure con Piotta o altra gente in Italia, ad esempio Fabri Fibra. Anche se poi nella scena hip-hop c’era una forte divisione tra le posse e le crew: la posse è politica e la crew è legata allo stile hip-hop. Inizialmente alcuni ci rimproveravano di essere troppo politici, ma col senno di poi c’è da dire che la sfida di portare il rap in Italia è stata vinta anche grazie al fatto di interpretare il rap in modo politico. Perché? Perché prima c’era già chi faceva rap in Italia, ma era in inglese. Quel tipo di rap così simile a quello americano non permetteva di coinvolgere le persone e di creare una base sociale. Come tutti sappiamo il rap ha bisogno di una fan base solida. Dal nostro punto di vista invece, l’aver interpretato il rap in quel modo politico, e quindi averlo fatto crescere nei centri sociali, ha fatto in modo che si creasse una fan base molto florida. I centri sociali divennero la casa dell’hip-hop, a un certo punto in Italia. Tantissimi rapper, quasi tutti direi, almeno fino ai Duemila inoltrati – fino a prima dell’arrivo della trap, cosa che poi cambiò il discorso – iniziarono a muovere i loro primi passi nei centri sociali. Lì si poteva provare in libertà, non c’erano problemi se qualcuno faceva errori, si poteva sperimentare.
Però, tornando a noi, almeno per un periodo, posse e crew erano visti come cose ben distinte, magari anche solo per una questione di identità. Ognuno voleva affermare la propria diversa identità da quello che c’era prima.
Noi eravamo tranquilli con tutte queste realtà differenti da noi, ma il suggello – se così si può dire – è stato il disco Banditi, prodotto da Ice One. Quello fu un grande punto di unione tra tutti noi.
Invece con Conflitto, assieme ai Brutopop, avete sperimentato col post-rock, un altro genere che in Italia facevano in pochissimi ai tempi.
Quando abbiamo iniziato noi in Italia i generi musicali non erano così rigidi. C’era la libertà di poter mischiare i vari generi, nessun genere era così rigidamente circoscritto. Io per esempio sono cresciuto insieme ai punk e allo stesso modo i punk venivano ad ascoltare Onda Rossa Posse.
Al Forte Prenestino tirammo su uno studio di registrazione, quindi c’era molto scambio. I Brutopop poi erano sostanzialmente un gruppo rock. Con loro suonammo assieme ai Fugazi e facemmo venire Don Zientara, che produsse proprio il nostro Conflitto.
C’era tutta una serie di contaminazioni. Alla fine voi non eravate proprio dei maniaci delle famose quattro discipline dell’hip-hop.
Mah, diciamo che non ho mai voluto fare di questa cosa una religione. Non fraintendermi, per me queste sono cose importantissime, ma le considero più che altro come porte per volare, come dico nella canzone. Sono chiavi per potersi esprimere. Tutti abbiamo bisogno di esprimerci, altrimenti ci ammaliamo in questo mondo. Quindi ti esprimi col rap, coi graffiti, col ballo, con la musica.
Chiaramente io venivo anche dal mondo della politica, che andava a fondersi con tanti altri mondi musicali, quindi ero molto più… diciamo, meticcio!
Ora una domanda un po’ strana.
Hai spesso scritto canzoni su temi che riguardano l’attualità. Ultimamente hai fatto un pezzo sulla scuola e uno dedicato agli infermieri. Come riesci nello stesso tempo a metterti in prima linea per la lotta al potere e a parlare di “pubblico”, di cosa pubblica?
Cosa rispondi a quelli che ti dicono che sei cambiato e che ti approcci in maniera più morbida nei confronti di certe cose?
Domanda fondamentale. Guarda, per me è sempre stata una sfida far evolvere i linguaggi, come dicevamo prima. È successo che a un certo punto, negli anni Duemila, più o meno a metà del percorso di Assalti, sono nati i miei bambini e poi ho avuto la fortuna di incontrare una donna che ha allargato moltissimo la mia visuale. Sto parlando di Simonetta Salacone, che era la dirigente di una scuola del sesto municipio di Roma, la Iqbal Masih, un laboratorio di inclusione pazzesco. Lei era una rivoluzionaria e allo stesso tempo una dirigente, quindi incarnava anche l’autorità in qualche modo. Per me quell’esperienza rappresentava una sorta di “centro sociale 2.0”. Non solo, lei era una persona molto aperta, quando venne a sapere che facevo rap mi chiese subito di fare rap con i bambini.
Da lì abbiamo fatto una serie di esperienze insieme, come ad esempio “Il rap della Costituzione“. Certo, può sembrare strano. Io ero sempre stato quello contro le istituzioni, quello di “senso dello Stato uguale zero”. Ero il primo a credere che non bisogna troppo affidarsi alla Costituzione dal momento che veniva tradita tutti i giorni. Questo è effettivamente così, ma nello stesso tempo, ritrovarmi a leggerla con gli occhi dei bambini mi ha fatto capire che è diverso. La Costituzione alla fine dice delle cose bellissime. Chiaro, quando poi tutto viene cambiato e stravolto da ogni cosa, dai modi di produzione, dalla tecnologia, ecc… Mi sembrava limitante pensare sempre e solo “siamo noi quelli dei centri sociali, quelli che hanno fatto gli anni Ottanta”… Dobbiamo anche noi cambiare. Dobbiamo approcciarci alle cose in modo diverso. Ho iniziato quindi a ragionare su approcci diversi, su linguaggi diversi.
Una volta fatto queste esperienze a scuola ho iniziato anche a cantare “Il rap della Costituzione” e altri pezzi simili ai nostri concerti, semplicemente perché le trovavo cose belle. Ogni tanto veniva qualcuno sotto e mi diceva “scusa, ma tu non eri quello che… ?”. Effettivamente la cosa mi metteva anche in crisi, poi ho pensato proprio a questa discorso dei linguaggi: dobbiamo cambiarli. Ovviamente sono un anarco-insurrezionalista, sono un compagno, ma sono anche un po’ bambino, sono una maestra. Per farla breve insomma, dopo una quindicina d’anni, il mio immaginario si è un po’ allargato e ha iniziato a comprendere anche la scuola, la formazione pubblica, il quartiere. Diciamo ho iniziato a interessarmi all’agire direttamente sul concreto, quindi anche al confrontarsi sulle cose in maniera diversa. Io non sono mai entrato nelle Istituzioni, non sono mai entrato in un partito, …
Beh, magari quello cerca di non farlo mai…
Ahahahaha! No, no. Ho sempre avuto la mi identità forte e indipendente. Però ho iniziato a capire che noi avevamo bisogno della società e la società aveva bisogno di noi. Perché pure la società aveva dimenticato come si facevano certe cose. In quei nostri quindici, venti anni di militanza avevamo accumulato un sapere straordinario. Avevamo fatto tutto da soli: avevamo conquistato gli spazi, ci eravamo presi la parola, … ; tutto da soli. A un certo punto era giusto che ci fosse questo scambio dal momento che nella società, nelle scuole, nei quartieri, avevamo dimenticato come si faceva a fare queste cose. Gli toglievano la parola, gli toglievano il parco, gli toglievano il quartiere, gli toglievano lo spazio: non sapevano più come agire, non sapevano più da dove cominciare per riprendersi queste cose.
Quindi, a seguito di tutte queste esperienze e riflessioni, mi scrive la caposala del reparto Covid del Policlinico di Tor Vergata dicendomi che apprezzava il mio lavoro (i laboratori rap, il lavoro con i bambini, ecc…). Mi chiede poi di aiutarli a raccontare il loro lavoro per la giornata degli infermieri. Capisci l’importanza di queste cose?
Noi adesso siamo qui a chiacchierare davanti al lago ex SNIA in questa bellissima giornata di sole. Un lago che è libero e aperto a tutti grazie al contributo della musica e della poesia, la caposala che ti chiama per chiederti di scrivere una cosa sul loro lavoro in questa situazione terribile: ma questo non è il senso di tutto quello che stiamo facendo? Sì, il concerto bello anche rientra in quel senso, ma anche tutta quest’altra situazione, non è incredibile?
Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui Not, Il Tascabile, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.