CAPITOLO IV
Chissà perché quella mattina San Lorenzo gli sembrava bella. Faceva freddo ma c’era il sole e un cielo alla Van Wittel. Laura adesso gli mancava ma non lei come corpo e persona, no. Gli mancava perché lo aveva abbandonato. L’ennesimo abbandono. Peccato, perché anche se i soldi dell’affitto ancora non ce li avesse, qualcosa di buono era uscito fuori dal concerto al Forte Fanfulla e invece di sentirsi un fallito totale, uno destinato a rimanere solo per sempre, stava leggermente rilassato. Aveva una fastidiosa mollezza in fondo allo stomaco, come quando da bambino si ha la febbre. Pensò la parola malinconia. Gliela dicevano sempre quando era piccolo e si ritrovava a piangere al tramonto, così, senza motivo. Si fermò un attimo a guardare la soprelevata da Via dei Sabelli, chiuse gli occhi e, bum! indietro di vent’anni.
«Lollo, ti vogliono al telefono… È l’ospedale…»
«Grazie…»
Erano le sette. Erica, la moglie di Fulvio, lo aveva svegliato con la faccia cupa di sonno e preoccupazione. Quella coppia gli aveva regalato una stanza della loro casa. Erano tutti e tre giovani e fichissimi. Quella mattina, però la voce sommessa di Erica non gli piacque, aveva qualcosa di materno.
La voce dall’altro capo, pure, informale e forse anche più premurosa, gli dice che deve andare lì, al Policlinico, che sua madre si è aggravata. La donna era in coma da quindici giorni. Lui aveva da poco compiuto venti anni. Non era afflitto, era biondo e molto bello, così dicevano le sue amiche e le sue amanti, il dolore quindi era una faccenda da vecchi, un’ entità da allontanare, o perlomeno da posticipare. Il mondo sembrava ruotargli intorno e nessuno poteva o doveva scalzarlo da quella posizione di favore. Quella mattina stava soltanto facendo il bravo figlio e lo contrariava moltissimo prendere l’autobus che di solito lo conduceva all’università, ma era quello della famiglia che abitava a Roma. Viveva in centro, a Via Giulia, e vedere dai finestrini del bus le strade e le case, che via via diventavano sempre più brutte, lo riportava violentemente a terra, al suo passato più prossimo. Le rammentava bene quelle case in cortina, quell’architettura anni trenta, squadrata, stile ventennio, che tanto somigliava a certe zone che conosceva da vicino giù a Isernia.
“Cosa significa aggravata? Una persona in coma cioè, praticamente morta, come si aggrava?”
La risposta gli venne data non appena varcò la soglia della stanza in cui era solito venire tutti i giorni. Il letto era vuoto, il materasso piegato in due. Andò nel locale dove era riunito un po’ di personale ospedaliero. C’ era un’ infermiera china su una cartella. Le chiese spiegazioni, lei lo guardò impaurita poi si rivolse alla sua collega.
«È il figlio della 27…» disse, sparendo dietro una porticina. L’altra infermiera lo guardò fisso e la bocca le si aprì in una “o” muta. Stava per chiedere delucidazioni, ma uscì nuovamente la prima infermiera e lo anticipò porgendogli una busta gialla con qualcosa di non troppo voluminoso.
«Questo era di tua madre…»
«Che significa?»
«La mamma, purtroppo…»
Rimase muto a guardarla, con la busta in mano, gli mancava l’aria.
«Ma che è morta?»
«Sì, stamattina alle cinque… mi dispiace…»
Non una lacrima, né un sospiro. Fece soltanto un cenno di assenso con la testa e uscì fuori dalla stanza. Era diventato un blocco di cemento. Percorrendo tutto il corridoio dal pavimento lucido, arrivò davanti ad una vetrata e sentì le gambe cedere. Resistette, oltrepassò la vetrata, fu fuori. Era una bellissima giornata di maggio. Cadde a sedere sulla scalinata che immetteva al padiglione.
Riaprì gli occhi. Basta, niente ricordi. Basta. Scese per Via dei Sabelli, fino ad arrivare ai piloni che sostengono la soprelevata. Lì c’era una fermata del tram. Si ordinò di stare bene. Tutto parlava di futuro roseo e alberi pieni di caramelle. Aveva un nuovo lavoro. Inaspettato. Una tournèe di sei mesi. Le canzoni le conosceva perché il committente, Alex Tarelli era il cantante melodico più famoso d’Italia. Aveva già imparato gli spartiti tanto era il materiale a disposizione on line.
Prese il tram 19 verso Prati.
La sala prove era prestigiosa, non ci aveva mai suonato, irraggiungibile. Roba da nobiltà musicale. Eppure proprio lui, senza nessun aggancio, nessuna conoscenza di rilievo, era il fortunato sconosciuto che sarebbe entrato in quella sala. Forse il primo, perché lì dentro artisti senza pedigree non avevano mai suonato. Alex Tarelli vide l’esibizione con la sua scalcinata band sul palco del Forte Fanfulla e i suoi fraseggi di chitarra gli erano rimasti in testa, al punto di farlo contattare dal suo agente. Il provino andò benissimo, fecero due pezzi insieme e uno glielo fece fare da solo. Dalla sua valigia di chitarrista tirò fuori la Ciaccona di Bach riscritta per chitarra da Segovia e sapeva che con quella avrebbe vinto. Infatti ora era lì, sul 19, e stava per fare la prima prova ufficiale della tournèe. Tutto a posto, quindi. E allora perché quei flashback?
Il giorno dei funerali. Mattinata luminosa e piena di vento, le nuvole gli sembravano le mani bianchissime di due amanti che si intrecciano e si fondono incessantemente. Non aveva voluto rivedere la salma di sua madre prima che fosse sigillata nella cassa. L’aveva vista qualche giorno prima all’ obitorio del Policlinico. Aveva una testa piccolissima rasata a zero e non sentì granché, non aveva mai visto prima quel corpo cosificato, assolutamente lontano dall’immagine che legava alla parola mamma. Suo padre era impazzito. Non aveva lacrime, muoveva incessantemente il suo bastone all’indirizzo del cielo, bestemmiandone l’innocente purezza tirrenica. Sua sorella, invece aveva il volto pieno di lacrime, i vicini e i famigliari si rivolgevano tutti a lei per vomitare la loro pietà. Avevano provato anche con Lorenzo inutilmente. Non voleva ringraziare per una solidarietà non richiesta e quindi cercava di non farli avvicinare facendosi vedere sereno, come se quelle cose gli accadessero tutti i giorni. In verità provava vergogna sotto il tiro incrociato di sguardi carichi di compassione per lui. Ma come osavano provare pietà per lui? Lui era biondo, bello e fichissimo. Nessuno capì quella sua posa e diventò immediatamente il colpevole di quella morte. Ah, quanto non era un figlio esemplare; ah, quanto non era stato mai d’aiuto; ah, mai una soddisfazione!
Finalmente chiusero il portellone dell’auto nera che riportava la cassa di rovere a Isernia. I medici romani nulla avevano potuto. Lui decise di rimanere a Roma. Non c’entrava niente con Isernia, non gli era mai appartenuta. Suo padre lo salutò col volto duro. Gli si avvicinò, pensò che volesse baciarlo.
«Fai bene» gli disse con la voce atona.
Sua sorella lo guardava invece con disprezzo. Non le andava proprio giù che non tornasse a casa per i funerali. Il furgone nero si mosse. I pochi parenti si riunirono tutti nell’auto di uno dei suoi zii, suo padre e sua sorella in un’altra. Salutò con la mano. C’erano i suoi amici lì con lui. Stasera dove si andrà a far casino?
Perché ricordare quelle cose, alle otto di mattina, su un tram che ha per méta un futuro dorato? La risposta gli sembrò semplice: Laura. L’ennesimo addio.
Salì un tizio grasso, con un faccione butterato piantato sopra ad un corpo gigantesco, un sudamericano. Lo fissava e fu costretto a volgere lo sguardo altrove. Lo riguardò, nella sua tuta felpata, col suo zaino enorme strapieno di chissà cosa e lui non gli staccava gli occhi di dosso, anzi, li strinse, come se volesse ricordare dove lo avesse già visto. Pensò al solito pazzo da autobus e guardò fuori, oltre il finestrino, i piloni della sopraelevata su Via dello scalo di San Lorenzo. Intanto si diffuse una puzza mostruosa, qualcuno aveva scorreggiato, probabilmente proprio il bengalese che aveva davanti. Così, tranquillamente, come se niente fosse. Una ragazza guardò Lorenzo e lui arricciò il naso, per farle intendere che non era stato lui e girò lo sguardo sul bengalese. Una signora coi capelli rame e la pelliccia, sventolò una mano davanti a sé, anche lei lo guardava. La fermata era vicina e stava quasi decidendo di scendere ma il sudamericano aveva prenotato la sua discesa e, in quel momento, due donne lo bloccarono.
«Ma cossa vuoi? Io devo scendere!» urlò accigliato.
«Tu hai preso il mio telefono, ridammelo!» ribattè la donna più giovane. La donna più anziana rincarò la dose e mostrandogli un telefono cellulare fece:
«Vedi, io sto chiamando il numero. E nel tuo zaino si sente squillare…»
«Ma cossa squilla! No se siente nada! Niente!» rispose l’omone togliendosi lo zaino di dosso e ostentandolo davanti al muso della tipa. La ragazza era un po’ sorpresa, in effetti non si sentiva nulla. La donna anziana, invece insistette:
«Infatti, adesso non squilla più, è caduta la linea. Aspetta qui, che riprovo…»
Il sudamericano aveva lo sguardo furioso e avrebbe potuto spaccare l’intero autobus con una sola mano, invece si stava per mettere a piangere.
« Guarda che non ce l’ho io! Lasciame andare! Io sono epilettico e tu mi fai star male!» disse con voce rotta. La ragazza era perplessa, tuttavia, dopo un momento di esitazione riprese:
«Mi dispiace, non voglio farti del male, ridammi solo il telefonino»
La signora più anziana annunciò, mostrando il proprio cellulare:
«Adesso sta risquillando»
La giovane avvicinò la testa allo zaino, ma la rialzò subito dopo.
«Io non sento niente…» sentenziò. Si aprirono le porte ma una donna con gli occhiali d’oro intervenne:
«Lo sento io, viene dallo zaino! A ladro de merda!»
Il sudamericano girò la testa ripetutamente in maniera meccanica, poi cadde a terra emettendo un IOIOIOIOIOIOIO aspirato, il corpo si contorse spasmodicamente, una spuma biancastra uscì dalla bocca e fissava Lorenzo con lo sguardo assente. Lui approfittò del parapiglia e scese. Si allontanò a passo deciso, mentre nella custodia della sua chitarra, inspiegabilmente, squillava un cellulare. Non ci poteva credere, si chiese come fosse potuto finire lì dentro un cellulare; si chiese anche come potesse essere fuggito, invece di prestare soccorso al malcapitato sudamericano o alla ragazza derubata. Non gli venne neppure una misera risposta in testa, sapeva solo che era tutto successo senza che se ne rendesse conto. Prese il tram numero 3, che stava passando nel senso di marcia opposto, ritornò indietro verso Porta Maggiore e da lì avrebbe raggiunto Prati in qualche altro modo.
Fabio Biondalzati nasce su Facebook nel 2005 ma nella vita ha tutt’altro nome e un sacco di anni. Punk in adolescenza e in senilità, è stato nel corso della vita, falegname, cuoco e straccivendolo. Ha scritto e diretto 12 spettacoli teatrali e 3 lungometraggi digitali e abusivi. È un gentiluomo coatto e libertarian.