I think that the sun and the moon and the sky cannot be taken away from us, that they belong to everyone, and whether you are religious or not, this feeling of being in and of and with nature is one of the most incredible things we as human beings can experience.
Nina Power
Redenzione al Redentore.
Wagner, Parsifal
Se vi è qualcosa di fondamentale che può essere detto di At the Heart of Winter (1999), tardivo capolavoro degli Immortal, è che esso, in quanto opera musicale totale ‒ capace di unire in una violenta stretta suono, voce, immaginari e narrazioni ‒ è la forma musicale, il “noema” sonico (l’idea astratta da qualsiasi occorrenza sensibile), di una tempesta di neve. Non una mera opera di imitazione, come accade, ad esempio, nel famoso passaggio de L’Anello dei Nibelunghi di Wagner, nel quale un gruppo di incudini viene fatto risuonare cumulativamente al fine di riprodurre l’atmosfera della forgia nanica. Tale contrapposizione merita di essere indagata più a fondo. È ben noto come Schopenhauer, in risposta all’invio da parte di Wagner ‒ entusiastico discepolo del filosofo ‒ di una copia della partitura e del libretto dell’Anello, abbia invitato Wagner a darsi alla scittura, abbandonato la composizione musicale. Si potrebbe supporre che l’idea, fondamentale per l’opera del compositore tedesco, che la Volontà si oggettivi, nel campo dell’arte, nella musica più che ogni altra disciplina, trovi una sua prima dimostrazione pratica in questo episodio, nonché nelle successive vicissitudini della carriera di Wagner. L’ipotesi, nello specifico, è che in queste determinate opere la Volontà ‒ col suo portato impersonale, spontaneo, cieco e privo di ogni scopo ‒ non si sia oggettivata, conducendo a un’opera innanzitutto imitativa (a una sorta di rappresentazione musicale della trama dispiegata nel libretto) e, in secondo luogo, alla messa in scena di un’aspirazione, di un volere piuttosto che della Volontà stessa ‒ il progetto wagneriano di una rinascita europea e della creazione di un uomo nuovo, dotato di un carattere “totale”.

Con Tristano e Isotta e, in particolar modo, con il Parsifal, Wagner segna una brusca virata dalle tematiche eroico-pagane della giovinezza, inaugurando un’approfondita esplorazione del pessimismo filosofico di Schopenhauer. Come ebbe a scrivere Nietzsche ‒ allora ancora legato a Wagner da un profondo affetto e da una grande affinità filosofica: «Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo». E, ancora, sul preludio al Parsifal ‒ opera che di lì a breve avrebbe segnato il totale distacco tra il compositore e il filosofo: «Credo che Wagner non abbia mai scritto qualcosa di meglio. Vi è una chiarezza descrittiva tale da far ricordare un’antica insegna araldica finissimamente lavorata e, nell’abisso della musica, un sentimento sublime, un’esperienza, un evento dell’anima, che fa grande onore a Wagner […]». Sarà solo dopo aver assistito al Parsifal nella sua interezza ‒ disvelano, poco a poco, la centralità, all’interno del dramma, dei temi dell’abbandono della dimensione terrena e del desiderio ‒ che Nietzsche scriverà, in preda all’assoluto rigetto: «Il Parsifal è […] un’opera di perfidia, di bramosia vendicativa, di segreto avvelenamento dei presupposti della vita, un’ opera scellerata». Nel raggiungimento del Nirvana da parte di Parsifal, Wagner giunge all’apice processuale della sua attività compositiva: è nella coppia Tristano e Isotta–Parsifal, più che nella diade della Trilogia dei Nibelunghi-Parsifal, che il “personaggio sonico” di Wagner ‒ l’essenza della Volontà, incarnata nella sua espressività individuale, destinale ‒ matura una piena oggettivazione. L’abbandono di ogni aspirazione, di ogni desiderio, di ogni elemento di resistenza alla marea del reale. Se il primo Wagner non è che uno scrittore capace di avvalersi del supporto della musica, l’ultimo Wagner è l’araldo del tramonto degli Dei, l’artista totale del collasso dell’Occidente.
Greatest Blashyrkh wait for me your deepest realms I’ll find
With songs that sound eternally for you my call is ever so strong
Winter landscapes pure and clear a walk into the glacial valleys
Deep under forests alive only my torches fire light
Immortal, “At the Heart of Winter”

In At the Heart of Winter, la singolarità sonica degli Immortal è dispiegata in tutta la sua purezza. Affermare che esso non sia in alcun modo un’opera imitativa significa attribuirgli una consistenza “geosonica”: all’interno dell’opera, l’antropologia, la geologia, la meteorologia, la storia, la composizione musicale, la narrazione di storie e l’estetica non sono mai state separate e compartimentate, apparendo stratificate e impure come nella sezione trasversale di un geode. Tale aspetto si concretizza all’interno di una mitologia minuta, condivisa nella sua interezza solo da una piccolissima comunità di sparuti individui: l’epica di Blashyrkh, il regno dei ghiacci eterni ‒ una sonic fiction prodotta dall’estrazione di una Scandinavia astratta, costantemente stretta nella morsa del gelo. Oltrepassando tale prima definizione si potrebbe asserire che Blashyrkh non sia neppure un complesso di miti e narrazioni ma un luogo spirituale, una dimensione attualmente galleggiante sulla Scandinavia, nella quale confluisce il vissuto di un gran numero di individui isolati; come dichiarato dalla band in un’interessante intervista a Decibel Magazine: «We were really in our own world, so we formed the realm of Blashyrkh. It evolved over the years with every album, but it still has the same feeling, the same spirit. We still believe in it. Blashyrkh is not a mythology; it is a way of power. It’s a place where we can go». Il vissuto, l’esperienza, nel suo intreccio con il territorio che le fa da cornice ‒ o, meglio, da matrice ‒ assume forma musicale e, tuttavia, proprio in virtù del mantenimento di tale rapporto radicale tra individuo e ambiente, va a ricongiungersi con la Volontà nella sua interezza. Nel contesto di questa comparatistica weird, se Wagner, nella prima parte della sua carriera, si è limitato a esprimere la sua volontà di restaurazione di un mondo perduto e di creazione di un mondo nuovo, gli Immortal, da parte loro, hanno dato luogo a una canalizzazione geosonica, attraverso la quale la Volontà ha potuto oggettivarsi in un’opera musicale a tutti gli effetti totale. “Totale”, di fatto, è unicamente attributo della Terra in sé e per sé ‒ l’unico, vero soggetto di ogni espressione: un fattore con il quale l’analisi sonico-musicale è costretta a confrontarsi in condizioni enigmatiche e senza alcuna premessa metodologica.
Claudio Kulesko è un filosofo ronin e traduttore. Collabora con Not, L’Indiscreto e Liberazioni-Rivista di critica antispecista.