Granuli di ambiente.

Giulio Aldinucci è un musicista senese. Si occupa di musica elettroacustica e da anni è uno degli artisti ambient italiani più apprezzati in Italia e all’estero. Il suo nuovo disco Shards of Distant Times è uscito a marzo di quest’anno per la berlinese Karlrecords. Ho voluto fargli un po’ di domande su come concepisce la sua musica, che tipo di processi compositivi applica e più in generale sullo spazio-tempo.

Per prima cosa vorrei sapere qualcosa in più sulla selezione dei materiali sonori di partenza per le tue composizioni. In particolare mi riferisco, trai molteplici elementi che impieghi, di quello che forse più di tutti rende riconoscibile i tuoi brani da qualche disco a questa parte: l’uso di brevi frammenti corali campionati. So che li selezioni in maniera molto minuziosa in base all’aspetto spaziale intrinseco della registrazione. Volevo chiederti che rapporto hai con la polifonia rinascimentale e se la selezione dei materiali si basa, oltre che su questioni timbrico-spaziali, sulla volontà di metterti in dialogo con un certo compositore o con l’intera tradizione polifonica.

Poiché si tratta di frammenti molto piccoli – musicalmente siamo al livello della singola nota – il dialogo con un compositore sarebbe pressoché impossibile nella fase di selezione del materiale. Come dici tu, sono concentrato sull’aspetto spaziale intrinseco della registrazione di partenza e spesso la presenza di elementi extra-musicali (rumori esterni, movimenti degli esecutori, ecc… ) rappresenta un altro criterio cruciale per la selezione del materiale da scolpire poi tramite sintesi granulare. Soprattutto negli ultimi lavori, dopo questo stadio, tendo a concentrami molto sulla riverberazione: non di rado una sequenza è processata prima tramite un riverbero algoritmico e poi attraverso uno basato sulla convoluzione, ovvero un riverbero che lavora con un impulso/campione di un luogo reale, una sorta di fotografia acustica delle caratteristiche di uno spazio in cui inserire un suono che non è mai stato lì, e che mai potrà esserci.
In pratica può succedere che una nuvola di grani, un coro sintetico che nasce da una singola voce registrata in una basilica romana, passi attraverso un ulteriore riverbero algoritmico e poi finisca inserita nello spazio acustico di una cattedrale gotica francese (ultimamente uso molto quello di Notre-Dame di Chartres). Il dialogo con la tradizione inizia a questo punto, quando la composizione entra nel vivo. Credo che la nostra contemporaneità, grazie soprattutto alla tecnologia, sia attraversata da frammenti che trafiggono epoche percorrendo distanze non solo spaziali; adoro quando ritrovo tutto ciò nelle arti.

Stratificazioni di spazi fisici che si agglomerano a formare spazi interiori. Barry Truax, compositore canadese pioniere della granulazione – nonché uno dei fondatori del World Soundscape Project – ha parlato più volte di come la registrazione di un paesaggio sonoro, se opportunamente manipolata, possa divenire un “abstracted soundscape”, qualcosa insomma che dal reale tende all’astrazione ed offre uno spazio proiettivo emotivo all’ascoltatore. Da anni sei curatore dell’Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori: come ti poni rispetto a quest’idea di abstracted soundscape ed in che modo si relaziona con la tua pratica compositiva?

Ho un’idea di paesaggio sonoro molto fluida che mi porta a indagare anche ambiti come il cinema e i videogiochi. Possiamo considerare paesaggio sonoro un impulso audio registrato in un luogo che, tramite un riverbero a convoluzione, va a ricostruire le caratteristiche legate alla riverberazione di quello spazio?
Dalla riflessione sul paesaggio sonoro, inteso nella sua definizione più tradizionale, mi sono mosso subito verso la ricerca di soundscape interiori, in un movimento che dall’esterno si avvita verso l’interno.

Ascoltando la tua musica recente sono molto incuriosito dal modo in cui ti relazioni col tempo. È come se congelassi un momento in uno stato di sospensione. In che modo forma e tempo dialogano nel tuo processo compositivo?

Trovo perfetta la tua descrizione: ogni frammento di vita, sia esso un’opera d’arte o una pietra consumata dai passi, mi proietta in un dialogo impossibile/ incomprensibile che penetra il tempo. Da sempre mi intrufolo in luoghi abbandonati, ma con gli anni mi sono reso conto di cercare, più dello spazio, il tempo. Ciò è alla base della mia ricerca sugli spazi, il cui riverbero, unito alla scomposizione del suoni in grani di millesimi di secondo, congela il tempo.

Si potrebbe dire che questi spazio-tempi particellari sono delle “masse sonore”. Negli ultimi anni molti artisti ambient hanno adottato questo tipo di corpi sonori – penso ad esempio a Cruel Optimism di Lawrence English, ma anche al più recente Peripeteia di Rafael Anton Irisarri. Trovo affascinante come un approccio alla composizione generalmente noto per un’estrema rarefazione stia parzialmente convergendo verso un’idea di grandi masse dense e sospese. Mi sembra che come forma si presti ad uno sviluppo drammatico, per via del fatto che la massa può portare facilmente ad un arco climatico in termini di dinamica. Quel che dico trova riscontro nel modo in cui pensi la tua musica?

Sì, assolutamente. Le caratteristiche che hai descritto rendono l’ascolto a volumi elevati un’esperienza percettiva che crea significati diversi rispetto a un ascolto a volumi contenuti, come avviene nella consuetudine ambient. Ogni composizione porta così in sé il suo doppio, che la completa ed espande talvolta fino alla contraddizione. Se dovessi spiegare con una sola ed unica parola il mio amore per la musica che compongo e ascolto, direi “polisemia”: l’approccio di cui stiamo parlando ci consente di muovere questa caratteristica agli estremi agendo proprio sulla percezione.
Da un punto di vista tecnico, queste idee sono diventate sempre più realizzabili in modo efficace grazie al tradizionale processing analogico unito al digitale, che oramai consente di lavorare sulle frequenze con una precisione impressionante e beneficiare di una notevole escursione dinamica in fase di registrazione e missaggio.

Per non parlare delle possibilità date dal controllare il piano temporale interno ai suoni. Il tuo approccio è sì incentrato sulle masse sonore, ma in realtà i domini temporali su cui si sviluppa vanno dal micro- al macroscopico. Dal punto di vista compositivo, che tipo di rapporto ricerchi tra i vari piani temporali?

La dimensione di lavoro iniziale è letteralmente microscopica poiché si tratta di determinare le caratteristiche dei singoli grani da estrarre da un suono, siamo nell’ordine di millesimi di secondo. Centinaia di questi grani verranno poi sovrapposti creando la cosiddetta “nuvola”: il passaggio successivo è dato dal creare un movimento, più o meno lineare, di questa nuvola di grani “sopra” a un campione di pochi secondi. La nuvola estrarrà al suo passaggio grani su grani dal campione, andando a mutare continuamente grazie anche a minute randomizzazioni di alcuni parametri.
Un ulteriore aspetto legato al tempo, forse meno evidente della granularizzazione, riguarda la catena di effetti con cui processo i suoni: uso numerosi riverberi con tempi di decadimento molto lunghi e delay, spesso in combinazione fra loro, per creare sfasamenti sul piano temporale come micro rallentamenti o accelerazioni.
Tutto ciò incide in modo determinante sulla struttura della composizione a livello macroscopico, l’aspetto legato al tempo forse più convenzionale di tutto il processo.

Sei senese e sembri avere un legame profondo col tuo territorio, nella tua musica elabori polifonie rinascimentali, ti occupi di paesaggio: ti definiresti un umanista? Intendo come forma mentis, ma anche come riferimento ad un’idea del mondo, della conoscenza e dell’azione umana.

Sì, sono le mie radici: la forma mentis umanista, con il suo intendere l’arte e la conoscenza quali strumenti di elevazione spirituale; la campagna senese, territorio di nascita e poi scelto, con il suo paesaggio forgiato da secoli di duro umano lavoro; e ancora le architetture – illusoriamente eterne come i profili delle colline con le quali dialogano – della Pienza di Pio II o, andando a sud, verso la Maremma, quelle in rovina dell’”utopia” di David Lazzaretti.
Credo che oggi sia fin troppo diffusa una concezione parcellizzata della conoscenza, frutto anche della visione di una società che delega al mercato il compito di orientarla e assegna funzioni meramente produttive ai suoi membri. Inutile dire quanto ciò crei un enorme senso di spaesamento a chi, come me, guarda all’uomo universale.

Per concludere consigliaci tre dischi recenti che vale la pena ascoltare.

Fra i lavori usciti nell’ultimo anno, considerando anche gli argomenti di cui abbiamo parlato, consiglierei Traces Remixes, EP che espande e trasforma egregiamente il bellissimo album Traces di Resina. La mia seconda raccomandazione è The Heavy Steps Of Dreaming del duo Minor Pieces, ovvero Missy Donaldson e Ian William Craig: il tipo di musica non è fra quelli che ascolto frequentemente, ma l’album mi piace molto anche perché mostra appieno il lato cantautorale di Ian William Craig, le cui cose più belle, a mio avviso, sono proprio quelle in cui riesce a unire canzone, noise e drone con notevole sapienza e bilanciamento compositivo, come nel suo Centres che adoro. Il terzo consiglio è un disco di Lina Rodrigue e Raül Refree chiamato semplicemente Lina_Raül Refree. I due si sono rapportati alla tradizione del fado riarrangiando a tal punto da toccare il livello compositivo, il loro lavoro sui silenzi e sulla dilatazione temporale è fantastico: ah nao ser eu toda a gente e toda a parte!


Riccardo Ancona aka Olbos è un musicista e creative coder romano. La sua ricerca è incentrata sulla composizione, la performance e la divulgazione di musica algoritmica ed elettroacustica. Ha fondato Mossa Records e collabora in diversi progetti radiofonici.