Il luogo comune secondo cui l’immaginario degli Autechre sia caratterizzato da freddezza e inumanità è difficile da scalfire. Eppure, paradossalmente, sono al tempo stesso un duo dallo spiccato potenziale emozionale.
Parlare degli Autechre oggi – un duo che si è formato nel 1987, anno in cui sono nato – non mi mette per niente a mio agio. Non solo perché sono stati e sono uno dei gruppi fondamentali della musica elettronica, ma anche perché li ascolto sin da quando ero adolescente: penso quindi di non poter essere completamente obiettivo nei loro confronti. D’altro canto, avendo attraversato varie fasi, non possono essere ricondotti a una realtà univoca e ben definita. Gli Autechre di Incunabula sono lontani anni (luce) da quelli di Untilted. Al tempo stesso, il suono autechriano è immediatamente riconoscibile.

«Freddezza/inumanità».
La cifra stilistica unanimemente utilizzata per riassumere l’opera del duo di Rochdale è riassumibile nella diade «freddezza/inumanità». Questo è fuori da ogni dubbio. Gli Autechre, pur avendo mosso i loro primi passi nel contesto della scena b-boy inglese, costruirono sin da subito un immaginario, e soprattutto un suono, prevalentemente cervellotico – cosa che contribuì non poco alla pluri-contestata nomea IDM, Intelligent Dance Music – che era (e diviene sempre più) sinonimo di una certa aridità sentimentale. D’altronde i titoli dei loro pezzi e dei loro album di umano hanno poco o nulla, sembrano perlopiù codici da scandagliare crittoanaliticamente o formule di composti chimici. Il loro stesso nome, la cui pronuncia può essere varia, pare abbia avuto origine digitando delle lettere a caso sulla tastiera. Le copertine dei loro dischi sono grafismi oltremodo impenetrabili che potrebbero benissimo essere stati generati automaticamente da un computer. Le uniche eccezioni sono le montagne rosa della Cappadocia di Amber, che comunque non rappresentano in maniera proprio cristallina il concetto di intersoggettività, e per quella di EP7 che sembra mostrare il profilo di un uccello. La musica inserita in questa austera cornice concettuale non poteva di certo ridondare di ritornelli ariosi o assoli romantici. Nulla di tutto ciò. Il primo periodo della loro produzione, quello di Incunabula e Amber, è interamente strutturato su suoni cupi e rarefatti che non sfociano mai in atmosfere dark, ma semmai anelano all’inumano. E infatti per descrivere quella parte della loro produzione si ricorreva all’ampissimo contenitore techno-ambient. A partire da album come Tri Repetae, Chiastic Slide e LP5 quelle stesse glaciali ambientazioni dei primi dischi divengono man mano più destrutturate e sintetiche, raggiungendo anche una certa perfezione formale, in capolavori come EP7, Confield e Draft 7.30. Questa astrazione raggiunge forse la sua acme nel 2005 grazie a Untilted, disco lungo, genuinamente astruso, che fa appello a una incorporeità radicale difficilmente metabolizzabile. Nel post-Untilted gli Autechre abbassano decisamente il livello di freddezza e si dirigono verso le strutture decisamente più varie di Quaristice, del meraviglioso Oversteps e dell’ambizioso doppio album Exai. Dal 2016 sembrano essersi smaterializzati all’interno dei grani sonori, dei ritmi smembrati e dei pattern alieni delle oltre quattro ore di irrealtà spalmate sui cinque dischi che compongono elseq 1-5, sorta di preludio alla forma libera dei QUATTROCENTOTTANTA minuti di NTS Sessions 1-4, oltre il quale probabilmente non si può andare.

Diverse sfaccettature.
Il luogo comune secondo cui gli Autechre suonano freddi e inumani viene quindi confermato da una ricognizione della loro opera, o quantomeno non smentito. E forse non deve essere smentito, ma magari è il caso di ricontestualizzarlo. Personalmente, quando penso al duo formato da Sean Booth e Rob Brown, non mi vengono in mente solo questi aspetti. Tanto per cominciare, hanno sfornato anche pezzi pieni di groove, un groove quasi addirittura allegro, e sto parlando ad esempio di “Envane” e “d-sho qub”. Certo, possono esserci groove che sembrano trasmettere una certa spensieratezza, pur restando freddi; e infatti si può pensare anche ad altre sfaccettature che sebbene possano essere inglobate nell’universo «freddezza/inumanità» hanno una loro più approfondita personalità. Diverse sono le sensazioni che possono trasmettere gli Autechre. Molti dei loro brani più cinematici sembrano fatti apposta per esplicitare al meglio il senso dell’attesa, della frattura, dello spazio, del disequilibrio e dello spaesamento; ma effettivamente, tutti questi concetti, in un modo o nell’altro, possono benissimo rientrare in quel macro-concetto di “freddezza/inumanità”.
Ma oltre a questo c’è dell’altro. Nel 1994 si sporcarono le mani con la politica – e la politica è cosa squisitamente (e sfortunatamente) umana – con Anti EP, il quale conteneva Flutter, brano contro il Criminale Justice and Public Order Act del 1994 che vietava i rave e addirittura gli assembramenti. Inoltre, benché possa sembrare il contrario, dal momento che la loro musica è tutto logica e razionalità, tra un brano e l’altro si possono notare dei segni di ironia che è difficile attribuire alla casualità: intitolare un brano col titolo pendulu hv moda o Eidetic Casein deve essere per forza una scelta. Eppure, ancora non è finita qui. E anzi, qui le cose iniziano a complicarsi.

Emo.
Se si volesse a tutti i costi trovare una definizione di genere, gli Autechre possono essere considerati un gruppo di musica sperimentale. Ma la loro freddezza non è uguale a quella di certa techno monolitica o a quella dell’audacia avantgarde, che spesso mette da parte la fruibilità e il piacere dell’ascolto per puntare tutto sulla soluzione innovativa. Forse l’elemento veramente caratterizzante è una certa sensibilità nei confronti di ritmi destrutturati e di suoni sintetici non convenzionali, cose queste che si trovano praticamente in ogni loro brano. Ma c’è dell’altro. Scavando sotto le loro eco di nebbia gelata appaiono spesso delle melodie, anch’esse rigorosamente non ortodosse, che è difficile togliere dalla testa. Questi bagliori non sono semplicemente funzionali al potenziamento della loro estetica inumana, ma rappresentano qualcosa di più tangibile, sono essi stessi una realtà. A mio modo di vedere rivendicano quella forte emozionalità che è, più o meno da sempre, insita nel loro progetto. Basta ascoltare un brano come “VI Scose Poise”, che si apre con dei suoni raffinatissimi, letteralmente da ingegneria del suono, per poi rivelare una trama composta da poche semplici note che si ripetono e aprono un abisso di contatti e sensazioni. “Dael” ha un incedere accattivante, con un basso che ogni volta switcha verso il profondo fino a spegnersi e una ritmica che martella il giusto, prima di lasciare spazio a un piano che sembra uscito dalle Gymnopédies di Satie, tanto è sfuggente ed evocativo. “Cipater”, brano che apre Chiastic Slide ha una struttura simile, ed è curioso vedere come spesso questi pezzi vengano piazzati in apertura dei loro album (come anche le appena citate “VI Scose Poise” e “Dael”). Ma questo stile volatile ed impressionistico non è troppo raro da trovare all’interno della loro produzione: anche brani come “Gnit” e “Cichli” hanno momenti del genere. Un pezzo come “Rae” unisce alla perfezione questo senso di nostalgia digitalizzato a un contagioso rallentamento che si traduce in autentica depressione sonora: uno spleen marziano rivolto a nessuno.
L’album EP7 contiene “Dropp”, che sembra una sonata di Debussy; “Maphive 6.1”, che evoca ambientazioni addirittura fantasy e “Pir”, un pezzo che i Radiohead avrebbero sognato di inserire in Kid A o Amnesiac. Questo EP, da tutti considerato come un album vero e proprio, uscito nel 1999, è ormai un classico, ed è probabilmente anche una delle cose più emozionali degli Autechre. Allo stesso modo, se non addirittura in maniera più accentuata, Oversteps insiste su queste sonorità. Siamo sempre su una dimensione ovviamente iper-tecnologica, ma spesso anche sfacciatamente sentimentale, addirittura sognante, come ben dimostrano le varie “ilanders”, “known (1)”, “qplay”, “see on see”, “redfall”. L’EP Move of Ten, uscito solo pochi mesi dopo Oversteps, non è certamente tra le cose migliori della loro carriera, ma “iris was a pupil” è un capolavoro che sembra volgere l’attenzione verso i misteri irrisolvibili della vita – ed infatti vanta nel proprio titolo addirittura un verbo, per di più l’essere.
Altri esempi possono essere cose come il serratissimo esperimento dalle tinte interstiziali “Caliper Remote”, o “Altibzz”, che evoca scenari hauntologicamente epici, sebbene il suo punto di forza risieda in quel gioco di eco e pan che da un gustoso effetto acustico di lontananza. Ce ne sarebbero ancora altri, nascosti nei loro dischi – “LCC” ad esempio apre l’ostico Untilted in maniera violentissima, con un incedere veloce e sincopato, prima di espandersi in un motivo che allude alla serenità e contemporaneamente alla rassegnazione -, ma può bastare così.
Gli Autechre non sono un gruppo emo: hanno rappresentato (e stanno continuando a farlo), l’inumano in maniera esemplare, evocando un mondo digitale che sembra non aver alcun bisogno della presenza umana. Anzi, hanno evocato un mondo alieno che sembra privo anche del concetto di presenza. Ma nonostante questo, hanno anche fatto da medium ad alcuni dei nostri più impercettibili e nascosti sentimenti; sentimenti, questi, prettamente umani. Si potrebbe dire che viviamo in un mondo che si dirige in maniera sempre più ineluttabile verso la direzione che Sean Booth e Rob Brown avevano in qualche modo preconizzato, sebbene in termini certamente più radicali e immaginifici. D’altronde la sensibilità umana si ritrova da qualche anno ad essere decisamente in linea con le estetiche digitali: questo comporta anche un ampliamento dei suoi orizzonti emozionali. Ma probabilmente questo discorso non fa onore all’immaginario autechriano, che non è mai ricaduto in didascalismi di alcun tipo.
In ogni caso, negli Autechre c’è emozionalità.
Riccardo Papacci è co-fondatore e CEO di Droga. Ha scritto un libro (Elettronica Hi-Tech. Introduzione alla musica del futuro) e ne ha in cantiere un altro. Collabora con diverse riviste, tra cui Not, Il Tascabile, Esquire Italia, Noisey, L’Indiscreto, Dude Mag.