Atlas Autechre.

Piccola mappatura dei territori sonori del duo più incredibile della storia della musica elettronica.

Orientarsi tra le lande sonore forgiate da Sean Booth e Rob Brown, può risultare un laborioso perdersi tra paesaggi incomprensibili, geometrie elusive e linguaggi incodificabili.

Ma proprio queste sono le caratteristiche che hanno reso la loro opera un vero e proprio culto.

Spesso ritenuti tecnici astrusi e comunicativamente freddi, gli Autechre propongono contrariamente un approccio al suono totalmente divincolato dal semplicismo emozionale dualista canonico che si dimena tra canzone triste e canzone felice, melanconica o upbeat, calda o fredda, commedia o tragedia: parte della forza della loro musica – al di là della devozione assoluta al suono e della costanza nella sperimentazione – è un approccio libero e fluido, per quanto possa risultare rigido all’ascolto, alla scultura di una poetica sonora la quale, servendosi di un’implacabile ricerca nel profondo degli anfratti delle illimitate variabili impiegabili nelle pratiche musicali, finisce inevitabilmente per descrivere infinite gradazioni dell’animo, del cosmo, e del nulla che lo abbraccia.

Sean Booth afferma, riguardo suoni, emozioni e tecnica: 

it’s not that we don’t feel like emotions are important, more that it’s hard for me to imagine a sound that doesn’t convey some sense of something, and quite often when people discuss emotions in music they only think of happy or sad as being emotions, when imo emotions are a lot more than that 

e.g. if we put out a really angry track, then people rarely describe it that way. they would more likely say it was unlistenable or difficult, the emphasis moves from expression to design, maybe they just fail to recognise it as expressive if they think it’s very technical

Certo è che rimane inevitabile confondersi nella ricezione di tale intensità, ma analizzando la loro discografia possiamo individuare, nelle loro diverse fasi stilistiche, degli elementi che ci permettono di calibrare l’ascolto. Usandoli come bussole soniche – a volte roboanti a volte quasi criptiche – ci si può orientare con dei punti di riferimento nella loro opera, che sembra scorrere parallelamente ed in costante accelerazione, rispetto al resto della musica elettronica.

1990-1995

Nel periodo d’esordio gettano le fondamenta del loro sound, che per quanto negli anni prenderà una virata totalmente sperimentale, rimarrà sempre e comunque figlio di quest’era.

Siamo nei primi anni 90, proveniente dall’electro e prima di riversarsi nella techno, l’acid house costituisce, insiema all’hip hop, il manto d’edera che cresce e ricopre inesorabilmente i muri graffittati di Manchester. L’influenza di producers come 808 State, Mantronik, Cybotron, A Guy Called Gerald, Acid Effel, etc. è fortissima, ed primi grandi classici che sfornano come Incunabula e Amber, sono pregni di riferimenti a questo tipo di sonorità. In questo periodo, più flessibile nell’ambito della dance music prima del take over definitivo del mainstream da club – riescono a puntare il loro sguardo oltre la dance floor disimpegnata, dove si balla a ritmo di cassa e rullante in 4/4: cominciamo infatti a parlare di Idm, (Intelligent Dance Music) un genere nato negli anni 90 che si esprime con ritmi più complessi delle basilari cadenze sovracitate, genere di cui la Warp, con la quale firmano gli Autechre, sarà l’etichetta leader.

Acid basslines e big beats, le nostre prime bussole sonore, da portare sempre con sè per il resto del percorso: indizi sonori che si ripresenteranno ripetutamente anche nelle zone più astratte ed inafferrabili della loro discografia.


1995-1998

A partire dal ‘95, con Tri Repeate cominciano a dirigersi marcatamente verso territori dell’intelligence dance music più speculativi, e si confermeranno di questo genere, maestri assoluti.

Le ritmiche che diventano più intricate, i beat cominciano a sporcarsi: i suoni si aprono al rumore. Si comincia inoltre ad intraprendere la via dello sviluppo di un particolare senso di tensione, la cui ispirazione, sempre a detta di Sean, viene dai film di Carpenter.

Glitch, rumore e tensione le nostre sentinelle di questo periodo.

1998-2001 

In questi anni, con l’uscita di masterpiece come LP5 ed EP7 cominciano a comparire elementi musicali nuovi, che si faranno sempre più spazio nella deriva futuristica a cui i due si stanno abbandonando. Con l’introduzione della velocità ad esempio, più tipica della braindance, e di corpi percussivi più sottili, si allontanano ulteriormente dalla tipica estetica big beats anni 90. C’è inoltre da aggiungere che in questo periodo alcuni dischi non vengono più pubblicati cronologicamente, Gantz Graft ad esempio, uscirà nel 2002, ben 3 anni dopo EP7, per quanto finito prima di quest’ultimo. Era ‘too distinct’, troppo diverso, ed hanno dovuto tenerlo al caldo per un po’: si stavano già superando. Altissimo inoltre il livello emotivo in questo fase, nel quale sfornano alcune tra le perle più romantiche della loro discografia.

Velocità, energia romantica.

2001-2008

Il declivio sperimentale è totalmente abbracciato e si sviluppa virtuoso.

I suoni si districano in linguaggi inediti e originalissimi: il lirismo è allucinante.
Da Confield, primo uscito di questa fase, passando per Draft 7.30 e Untitled fino ad arrivare a Quaristice, ultimo, che consolida il passaggio alla successiva fase, ci troviamo davanti una sfilza di capolavori avveniristici. I brani, a volte di austera fattezza, sembrano essere organizzati da meccaniche spaziali, la tensione già citata si potenzia rigogliosa. Diafane architetture si innalzano severe per poi sciogliersi in una sorta di miele elettronico…o digitale forse, ma d’altronde che importa: il livello di intensità raggiunto, è a prescindere, altissimo.

Sean Booth risponde così ad un fan che discute del modo in cui in LCC, pezzo che apre il loro Untitled del 2005, i beats sfocino meravigliosamente in un delta melodico:

i see that LCC transition as a bit like a dream where you drive off a cliff and find yourself flying

Gettarsi da una scogliera ed invece di precipitare, ritrovarsi a volare.

Un incipit perfetto che possiamo tenere come punto di riferimento per questo incredibile periodo.

Intensità, scogliere.


2010-2013 

Questa fase si apre con Oversteps, un disco che davvero poco ha a che fare con quelli prima. Il livello emotivo torna ad essere elevatissimo. Gli ambienti sono vasti, ingigantiti dall’uso di lunghi reverberi spettrali, le melodie fioriscono in composizioni rizomatiche, ma soprattutto il mood è epocale. Sembra di essere catapultati in un medioevo rigurgitato da un algoritmo digitale ove a cavalcare non sono mandrie di cavalli ma codici binari che narrano le gesta di chissà quali prodi guerrieri che affrontano scenari inimmaginabili, custodi dei più segreti nulla cosmici. Complice di questa ampia virata stilistica è il mezzo – questo disco è composto quasi interamente via Max Msp, un programma con il quale è possibile programmare dei complessi software audio. Con lo sviluppo ulteriore dello stesso software comporranno anche Move of Ten ed Exai – con quest’ultimo ulteriori scrigni dal contenuto epico vengono dischiusi, con tanto di aggiornate influenze provenienti dal mondo della bass music.

Rizomi riverberati, epos digital medievale.

2016-present

Con le Elseq e le NTS Sessions si conferma e consolida la loro maestria nella programmazione.

I dischi presentano molti pezzi lunghissimi, frutto di ore di jam ultra proficue, dalle quali tirano fuori valanghe di ore musica, proiettandosi di nuovo nel futuro, sfondando limiti evocativi e confini stilistici di ogni sorta.

Il loro tocco ormai è davvero unico e glorioso, frutto di un lavoro di ricerca che da 20 anni procede sicuro senza temere di avventurarsi in territori inesplorati.

In quest’ultimo periodo sembrano regalarci la possibilità di sbirciare negli slarghi del cosmo più sconosciuto, ed ascoltare i suoni segreti delle sue misteriose curvature.

‘surroundings aren’t the thing for me, i get lost in the sound so it’s not really important what the room’s like, the sound becomes the space’ S. Booth.

Lo spazio infinito.

Spero questi pochi indizi siano stati utili nella pratica di orientamento tra le sconfinate lande autechriane. Così sconfinate e multiformi che potremmo divertirci a scovare indizi a non finire, per trovare ulteriori sentieri, delineare nuove mappe, scegliere altre scogliere per tuffarci e librare sopra altri mari.

O potremmo anche semplicemente gettar via le mappe e perderci e basta, e guidati dal fascino dei loro arabeschi sonici, oscuri e magnetici, lasciarci navigare storditi da questo abisso sonoro, che maestoso si rivela nel suo più abbagliante buio.



Marta De Pascalis è romana, vive a Berlino, e suona i sintetizzatori.
Il suo prossimo album, Sonus Ruinae, è in uscita per la Morphine Records.
www.martadepascalis.com




Grafica di Jacopo Buono (PHASE).