In prima persona.

Ieri sono uscita di casa per comprare un paio di cose fondamentali come le uova e un mazzo di tulipani perché ero triste e avevo bisogno di fiori.
Qualche ora più tardi sul Corriere veniva pubblicata una bozza di decreto, ancora in approvazione, che decretava l’isolamento forzato della mia regione e di altre zone d’Italia per prevenire il diffondersi di questo nuovo inquilino delle nostre vite che abbiamo imparato a conoscere e temere da qualche settimana. Un virus, sconosciuto, assurdo, invadente, letale, che sta condizionando la nostra vita sociale, cancellando i nostri appuntamenti, compromettendo i nostri lavori, impedendo i nostri spostamenti, annullando i nostri viaggi.
Il virus che sta mettendo in ginocchio il sistema sanitario e minacciando soprattutto le frange più deboli della popolazione.
La notte del 7 marzo le stazioni della mia città sono state prese d’assalto da chi, per timore di rimanere confinato in zona rossa, tentava la fuga verso posti in cui questa situazione apocalittica sembra ancora un fantasma lontano. La mia città, la città che non si ferma, adesso è diventato un non-luogo, il diritto al movimento limitato, il terrore intorno a noi, nel il capoluogo di un Nord iperfunzionale, turbocapitalista, ora simbolo di un sistema che si scopre fragile, che crolla. L’onnipotenza della città che sale messa in ginocchio da un nemico invisibile.
È proprio questo senso di onnipotenza, o anche soltanto di potenza, a creare il più grande slittamento emotivo di questi giorni immobili. I nostri poteri sono limitati, proprio qui, a Milano, non siamo più forti come prima, siamo esposti, contagiati, siamo nel cono d’ombra di un’eclissi mondiale. Chi lo avrebbe mai detto, qualche mese fa, quando ridevamo di quello che stava succedendo in Cina, quando questo disastro ci sembrava così lontano.

In psicologia sociale esiste un fenomeno chiamato Bystander Effect, altrimenti detto effetto Kitty Genovese, per via di un caso di cronaca nera legato all’omicidio brutale di Genovese, la cui aggressione ha avuto luogo per strada, sotto gli occhi dei suoi vicini, chiusi in casa, di cui soltanto uno si è degnato di urlare dalla finestra all’aggressore. L’esempio è utilizzato per spiegare un fatto semplice: più gente sappiamo che sta assistendo allo stesso fenomeno, pur conoscendone la gravità, meno ci sentiamo coinvolti, quindi non siamo propensi a intervenire in prima persona.
Questo senso di estraneità agli avvenimenti non ci è nuovo, di esempi intorno a noi, più o meno recenti, potrei elencarne una valanga, ma pensiamo semplicemente a quello che sta succedendo alle porte dell’Europa, al confine turco, mentre stiamo vivendo il delirio collettivo del coronavirus, o agli sbarchi di richiedenti asilo che non si fermeranno né per mano di ministri dell’Interno che ventilano una chiusura totale dei confini nazionali né tantomeno ora che stiamo vivendo un’emergenza sanitaria. Chi sono queste persone? Non sono noi, non siamo noi in prima persona. Non viviamo il loro dramma come nostro, è qualcosa di estraneo, lontano.

Qualche tempo fa riflettevo sul mio senso di impotenza nei confronti di questa estraneità passiva e, insieme ad alcuni amici, ho messo in scena un LARP, un gioco di ruolo, a tema migrazione, frontiere chiuse, ambientato in un futuro non troppo lontano in cui la selezione all’ingresso della comunità europea fosse un crudele gioco arbitrario le cui regole assurde e oscure erano dettate da una burocrazia e uno stato di polizia cinico e freddo. Ad ogni giocatore era assegnato un personaggio, ognuno con una storia, caratteristiche e obiettivi individuali. Con nostro immenso stupore, alla fine di questa esperienza i partecipanti erano visibilmente scossi. Alcuni di loro piangevano, qualcosa li aveva toccati in profondità, in un modo molto più vivo rispetto alla fruizione passiva di notizie sentite al telegiornale. Nello stesso periodo, coincidenza, a Milano era possibile partecipare a un’esperienza in realtà virtuale creata da Alejandro González Iñárritu, Carne Y Arena, che raccontava il viaggio verso il confine tra Messico e Stati Uniti di un gruppo di migranti. Anche in questo caso il migrante eri tu. In prima persona. Le sue mani erano le tue, la fatica e la disperazione erano le tue. “Questa è una forma d’arte estremamente empatica” mi diceva Laurie Anderson che ho avuto la fortuna di intervistarla in occasione dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, in cui era presidente della giuria per la sezione Realtà Virtuale. Il processo di identificazione che il gioco di ruolo o la realtà virtuale mettono in atto è un modo di intrecciare emotivamente la propria esperienza a quella di qualcuno che altrimenti ci sembrerebbe un urlo lontano, qualcosa che non ci riguarda, proprio come Kitty Genovese.
Quello che sta succedendo in questi giorni con il nuovo nemico, che è di una cattiveria assolutamente democratica e anzi è arrivato tra noi a bordo di aerei di linea, mica su un barcone, è che viviamo in prima persona, tutti, indistintamente, un’oppressione che per molti di noi è una novità assoluta. Non abbiamo più pieni poteri su noi stessi, ci viene richiesto di porre un limite alla nostra libertà, ci sono confini che non possiamo superare, siamo addirittura visti come quelli che portano in giro una malattia, siamo davvero noi, in prima persona, ognuno di noi, potenzialmente, il virus, è dentro la nostra carne, nel nostro sangue, nella nostra saliva, nell’aria che respiriamo tutti. È la prima volta, da che ho memoria almeno, che un nemico così intangibile e così indistintamente diffuso e capillare minaccia non tanto scenari lontani, ma la nostra quotidianità, la nostra prima persona. Siamo soli, isolati, ci chiedono di stare chiusi in casa, durerà un mese, ne durerà sei, durerà un anno. Chi lo sa. L’unica cosa che so è che quando avremo più domande che risposte, più soluzioni che problemi, vorrei che ci ritrovassimo in corpo una coscienza diversa, che probabilmente dovremmo riuscire a coltivare in questi giorni di isolamento, la consapevolezza di aver provato in prima persona qualcosa che non ci saremmo mai aspettati potesse colpire proprio noi.

In questi giorni difficili ci sta crollando letteralmente il terreno sotto ai piedi, molti di noi stanno perdendo lavori, soldi, opportunità, quando va bene, e c’è un senso di smarrimento profondissimo che si fa strada parallelamente all’avanzare del virus. Paradossalmente, è questo il momento giusto per ripensare a quanto fino a pochi giorni fa la nostra vita correva velocemente, forse troppo, e a come ci lasciavamo involontariamente abitare passivamente da abitudini e costrutti che ci allontanavano come esseri umani. Questa è l’occasione per fermarci, capire che siamo parte di un unico organismo e che ognuno di noi può contribuire a riformare un senso collettivo, che si regge su valori molto semplici come empatia, ascolto reciproco, mutuo soccorso, per restituire un senso comunitario che per una volta riesca ad andare oltre a quello che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi e ci renda almeno leggermente più sensibili a quello che succede dove i nostri occhi e le nostre mani non arrivano.

Sarebbe un modo sottile per dimostrare che tutto questo male non porterà soltanto a mali peggiori. Sarebbe una piccola rivoluzione, la consapevolezza che in questo mondo malato è rimasto qualcosa di sano. Dipende soltanto da noi.


Virginia W. Ricci ha diretto per qualche anno l’edizione italiana di Noisey, al momento è freelance e scrive principalmente per la televisione. Continua ad occuparsi di musica, sia organizzando feste che nel suo spazio bisettimanale su Radio Raheem.