Riemergo dal sonno nottetempo come un apneista dalla penombra subacquea, con una boccata disperata per riempire i polmoni allo stremo.
Ricado a faccia in giù sul cuscino, che cede sotto il peso come un sacchetto di plastica vuoto. Annaspo nel letto sfatto da due settimane, sotto una catasta di vestiti sgualciti, dentro il groviglio di lenzuola e coperte.
Mentre il petto si alza e si abbassa con uno sforzo da sollevatore di pesi, ascolto la voce del sogno esporre le sue ragioni per persuadermi che mi sono ammalato, che sono stato contagiato. Visto come mi sento, mi convinco facile. A tratti il corpo boccheggiante, smidollato, è scosso da un guizzo e salta su, si prepara alla fuga, ma subito di nuovo si abbandona sul materasso, prono.
Cerco a tentoni il telefono, sempre a portata di mano, perennemente acceso. Vedo il LED lampeggiare, mi prefiguro il grappolo di notifiche imputabili a qualche nottambulo che ancora schiamazza nelle chat di gruppo, nonostante siano passate da un pezzo le tre.
Mi volto a guardare fuori dall’immensa finestra al pianterreno. Come ogni notte le luci che vegliano sulla città addormentata tingono il cielo di rosso. Scivolo fuori dal letto fino al davanzale per osservare le ombre del giardino. Al di là del muro a secco si stagliano nere le cime dei cipressi.

Una settimana fa la quarantena si prospettava inevitabile.
Un’amica rientra in Francia il 20 febbraio, attraversando la brumosa provincia di Lodi. Quando ormai la sera del 21 ci giungono le notizie del Nord Italia precipitato senza preavviso nell’apocalisse zombi, dopo ore a stretto contatto, la contaminazione non è da escludere. Stiamo tutti bene, non peggio del solito, ma, in vista del rientro al lavoro e considerata l’età media pericolosamente alta all’associazione dove insegno, preferisco risparmiarmi il soprannome di “morte nera” ed evitare il linciaggio, quindi insisto per sentire qualche parere medico. Il responso è pressoché unanime: senza sintomi niente esami diagnostici, ma nel dubbio occorre prevenire il contagio di soggetti a rischio, perciò la raccomandazione è tutti lo stesso in quarantena per quattordici giorni.
Per quanto paradossale sia la situazione, allerto subito la capa e il padrone di casa e mi rassegno alla prospettiva di passare due settimane da eremita. Chiamo la mia famiglia a Roma; mia madre, già frastornata dalle urla di tutta Italia, risponde come se la chiamassi dall’altro mondo per annunciarle la mia morte. Almeno però quei balordi dei miei amici sdrammatizzano; comincio a fare programmi per le imminenti vacanze cadute dal cielo e finisce che, più ci penso, più mi affeziono all’idea. Domenica la mia proposta di tenere per Droga un journal intime dell’autoreclusione viene acclamata entusiasticamente.
Lunedì mi organizzo per lavorare da casa, ma alla fine della giornata lo sterile buonsenso e qualche conticino hanno fiaccato lo slancio e la sete di esperienza. Un’assenza del genere porterebbe grattacapi col contratto di stage e metterebbe in croce i miei colleghi, al lavoro siamo una piccola squadra. Senza contare poi che le contromisure continuano ad apparirmi spropositate, oltre che impotenti di fronte alle imperscrutabili vie del coronavirus.
Mi metto il cuore in pace e martedì torno al lavoro, deciso a tener fede se non altro a un paio di buoni propositi: essere franco con tutti sull’incertezza delle mie condizioni di salute e osservare più scrupolosamente che mai le fondamentali precauzioni igieniche.
A metà giornata però, a forza di insistere con gli avvertimenti, ho guadagnato nient’altro che battute sarcastiche da parte degli scettici e gli sguardi sospettosi delle due nipotine che una nonna ha spedito a sbaciucchiarmi, ma che io ho respinto a debita distanza. Nel corso del pomeriggio, col moltiplicarsi intorno a me di colpi di tosse, starnuti, dita umettate che rimestano nella ciotola dello zenzero candito, resoconti del fine settimana appena trascorso in Italia, giungo a contemplare la mia situazione da tutt’altro punto di vista.
È infinitamente più verosimile che sia la banale noncuranza di tutti questi arzilli pensionati a spedire me al camposanto, piuttosto che la mia piccola contravvenzione alle ultime direttive sanitarie a farne involontariamente ricoverare anche solo uno.
Non appena pervengo a questa semplice verità, il senso di colpa allenta la presa e una ritrovata leggerezza mi pervade.
Ripenso a questo mentre osservo il giardino immerso nel silenzio, gli occhi ormai abituati all’oscurità. Prima di andare a pisciare, scatto una foto alle sagome dei cipressi contro il cielo; poi torno a letto, accendo il computer e comincio a scrivere.
Giorgio Vallone vive nascosto. Maestri ineguagliabili e mete irraggiungibili sono il segreto dei suoi insuccessi. Tra i tanti propositi incompiuti, scrivere di più, magari meglio, forse pubblicare. Rompe gli indugi a trent’anni collaborando con Droga.