Cesaretto…


Ho conosciuto Cesaretto nel 1991. Ricordo bene l’anno perchè ero fidanzato con Magda, una genovese astratta a Roma, ‘na scocciata totale che mi fracassava i coglioni con tale Lorenzo, un dj che boh, aveva messo su un’etichetta di cui non mi fregava un’emerita ceppa. Insomma, se semo capiti, era il 1991, ma torniamo a Cesaretto. Lo incontravo sempre a Villa Lazzaroni: per i non-romani: polmone verde dell’Appio-Latino, ‘na villetta senza troppe pretese, né minuscola, né enorme, ma accogliente, molto accogliente. Ed è per questo motivo, forse, che Cesaretto la considerava il giardino di casa sua. Abitava a Via Tommaso Fortifiocca, a pochi passi da uno dei due ingressi della villa (l’altro, considerato il principale, è su Via Appia Nuova), così – fatta colazione – scendeva di casa (dove – si dice – abitasse con una vecchia pro-zia laterale) e si parcheggiava in giardino, il suo giardino, ovunque: panchina di legno con schienale, di marmo senza schienale, o sdraiato su quel che restava delle – un tempo – curate aiuole. Non faceva differenza. Si isolava dal circostante grazie ad un walkman e ad un paio di auricolari trovati in un uovo di pasqua. Mica era un audiofilo del resto. Lo conoscevano in pochi Cesaretto, nonostante fosse parte integrante della villa, al punto che un cane avrebbe potuto tranquillamente orinarci sopra, confondendolo per un tronco umano, e quei pochi che lo conoscevano si limitavano ad un saluto veloce, ad un cenno del viso, o tutt’al più ad un “beatattè Cesarè, bella la vita eh?”. Io mi imponevo questo passaggio terapeutico verde-terra quasi ogni giorno tornando da lavoro: scendevo alla fermata metro di Furio Camillo e invece di tirare dritto per Via Cesare Baronio optavo per l’itinerario parallelo con sbocco secondario su Via Tommaso Fortifiocca, distante giusto due isolati dal mio domicilio. Così, anche non volendo, avevo modo di vedere Cesaretto, perennemente in autotrance, (jeans e magliette monocolore in estate, jeans e bomberino blu in autunno/inverno), da solo, estraneo a se stesso e agli altri. Senza dare però segni di instabilità psichica.

Insomma, quasi una scelta volontaria, ragionata. Anche salutare considerato il luogo. Ogni tanto mi fermavo e provavo a strappargli due parole di bocca, ma senza troppa fortuna: sembrava non gliene fregasse un cazzo di niente, di quel genere di niente oltre il niente. Tutto questo, senza rivoluzioni formali (se non nel taglio dei capelli, sì, a quelli ci teneva ed erano l’unico punto di contatto con il prossimo, Raffaele, il parrucchiere di zona) almeno fino al 1994 quando dopo un inspiegabile periodo di assenza ricomparve nelle sue consuete modalità nei pressi dell’area della pista di pattinaggio con le inconfondibili ringhiere rosse in ferro zincato. La pista si trovava (e si trova ancora oggi) sul bordo villa, lato Via Tommaso Fortifiocca, precedendo di pochi metri l’ingresso secondario. Perchè Cesaretto aveva cambiato posizione? Semplice, aveva conosciuto (e a distanza di anni mi chiedo ancora: come) un’adorabile pattinatrice su quattro rotelle, innamorandosene follemente. Lui che, come baciato da forze sovradimensionali, pareva essere altrove rispetto a questi impulsi terreni, volgari, per coglioni patentati dalle spicciole esigenze fisiologiche. Non avevo ben compreso sino a dove si fossero spinti i due. Anche un semplice scambio di sguardi, magari più lungo del modello base, avrebbe autorizzato Cesaretto a fantasticare su un amore gigantesco, travolgente, pericolosissimo. O uno stampino veloce, tra l’affetto e la perculata, degno di una ragazzetta frizzante, su di giri, incuriosita da questo laterale figuro, spettatore onnipresente, abbonato non pagante. E se fosse stata una sveltina? Magari consumata tra le boscaglie antistanti il vecchio convento: chi lo sa? Lei si chiamava Rosaria, almeno così mi disse Cesaretto, rispondendo ad una delle tante domande a cui lo sottoposi, e niente, non veniva più a pattinare, lui aveva il cuore infranto, e l’aspettava lì, imbambolato, sempre più in trance, sbattendosene come suo solito di pioggia, tramontane o sole ustionante. Ci era abituato, certo, ma la pista era totalmente scoperta, mentre le sue vecchie postazioni erano messe al sicuro, o quasi, dalle folte chiome di alberi secolari. Insomma, delle signore tettoie che tra l’altro gli fornivano eccellenti pinoli a volontà. Incrociando alcune informazioni fornitemi da altri pattinatori, avevo scoperto che Rosaria era stata assunta al Teatro “Sexy” Volturno dove ogni sera si esibiva con il suo spettacolino osé davanti a militari in libera uscita, infoiati 24 ore su 24, curiosi che scambiavano la platea per una sala d’aspetto, attendendo a cazzo dritto il primo treno delle 4 per chissà dove (il Volturno si trovava a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini). Decisi di andarci, di andarle a parlare, anche solo per farmi spiegare come si riporta a terra un essere fluttuante, quasi un miracolato, che stava riuscendo nell’impresa di metterlo al culo alla vita e alle infamità correlate. Volevo un colloquio, un’udienza, con la fenomena, ecco.

Optai per l’esibizione del lunedì, sperando di trovare una platea semivuota. Maddechè. ‘Na coda su tutta Via Volturno che arrivava sino al vicino Ministero del Tesoro, tanto che diversi dipendenti, finiti gli staordinari, dal tornello d’uscita si ritrovavano già in fila, già dritti, già proiettati verso un’emozione nova pe’ 10.000 lire, da grandi privilegiati, da grandi mangiapane a tradimento. C’era un pienone da capogiro: un ferroviere in pensione, un abbonato, mi disse che era “colpa” di Timisoara, una ninfomane romana con origini romene travestita da amante di Ceaușescu. Il suo forte non era tanto lo spettacolo in se, ma il finale, una sorta di gioco a sorteggio dove tre fortunati (o sfortunati) vincevano una notte d’amore cannibale con lei, uscendone di fatto svuotati, in tutto e per tutto: non solo un discorso di palle. Rosaria, a quanto pare, sempre a detta del vecchio ferroviere, si sarebbe esibita a supporto per riscaldare l’ambiente e farsi le ossa. Chiaramente non riuscii ad entrare, nonostante le conoscenze ai piani alti del ferroviere che mi prese sotto la sua generosa ala protettrice. Mi presentó a Erminia, la bigliettaia, come un suo figlio di quarto letto, ritrovato per caso in fila al Volturno. Credibilità zero, giusto una risata fragorosa della matura signorotta, un misero premio di consolazione. Mi diedero un omaggio per l’Ulisse, un cinema a luci rosse sulla Tiburtina, che rigirai a un nano respinto all’ingresso perchè “tanto non avrebbe visto un cazzo, nè tantomeno una sorca”. Il mio obiettivo era Rosaria, così confidai nella romana comprensione di Erminia, che comprese tutt’altro, mandandomi malamente affanculo in pochi secondi, e credendomi uno dei tanti avventori del locale che scambiavano il teatro per un bordello clandestino dove consumare rapporti laterali in segrete stanze con i nomi in cartellone. Presi la metropolitana e me ne tornai mestamente a casa, col cazzo girato, tramortito da quell’esperienza. Giorni dopo rividi Cesaretto, sempre là, in pista fuori-pista, sempre più fantasma, sempre più novello ectoplasma, e una novità non da poco: aveva iniziato a parlare da solo, sparava una marea di stronzate, un flusso free inarrestabile senza senso, nel suo stile però: sussurrato, discreto, appartato, elegante, tra lo spoken word subliminale e lo spoken word confidenziale. Tra un s-ragionamento e l’altro faceva capolino di tanto in tanto il nome “Rosaria” – evocato con un’enfasi disarmante – di cui iniziavo a mettere in dubbio perfino l’esistenza. Riusciva a gestire ritmi vertiginosi, al punto che un signorotto della zona con agganci in RAI voleva portarlo in gara a “Scommettiamo che…?”, proposta puntualmente rimbalzata da Cesaretto al ritmo di “macheccazzostaiaddì-macheccazzostaiaddì” a 300/400 km/h in loop finchè lo stronzo non se ne fosse andato. In più, altra novità, il braccio destro di Cesaretto: un circuito di sgommate clandestine sul raccordo anulare al color fragola, una roba imbarazzante, a rischio deflagrazione arteriosa continuo. C’era chiaramente dell’altro, come altro era entrato improvvisamente nella sua vita: un lavoro. Nelle inconsuete vesti di fioraio notturno a Colli Albani. Chiaramente un incastro improvviso, non nelle sue corde, un do ut des al gusto morte.

Si fece il 1995, e di Cesaretto ormai solo l’ombra, sotto forma di ossa e pochissima carne. Continuava a timbrare il cartellino d’entrata a Villa Lazzaroni, sì, ma nella paranoia perenne di venire catturato dagli addetti alla manutenzione del giardino mandati in loco per segare e portare via quel tronco umano giunto al capolinea. Lo sapeva, lo sentiva, lo percepiva. Era tornato alla vecchia modalità: quella del mutismo, condita peró da incontrollabili scatti nervosi che l’avevano trasformato in attrazione pubblica per grandi – spaventati – e piccini – divertiti. Tanto che in zona si iniziò a parlare del “clown di Villa Lazzaroni”, quasi una risposta appio-latina al “matto di Piazza Barberini”. Alcune mamme, specie il pomeriggio, gli portavano da mangiare, merendine perdipiù, esuberi delle merende doposcuola dei figlioletti. Lui ringraziava con un para-inchino para-aristocratico che a ripensarci oggi mi viene da piangere, per poi allontanarsi e riprendere il suo flusso spoken sino alla chiusura dei cancelli. Rividi Cesaretto un’ultima volta nei primi mesi del 1996, rasato a zero, con un bomber nero XXL che avrebbe potuto contenere tranquillamente una quindicina di doppi-cesaretti. Gli auricolari leggendari, quelli trovati nell’uovo di pasqua, sempre al loro posto peró. Sporchi, sporchissimi, ma apparentemente funzionanti. Ci salutammo: “Cesarè come stai?”, “benebenebenebenebenebeneben”, “Ci si vede Cesarè……”. A Pasqua di quell’anno la notiziaccia: Cesaretto era volato nell’altra dimensione, lasciando in dono alla comunità un pupazzo. Che era tutto ad eccezione di un pupazzo industriale, era lui stesso, Cesaretto al 100%, in persona. Imbalsamato. Non so a chi diavolo venne cotanta idea, un’allucinazione a regola d’arte, e neanche voglio saperlo, ma il funerale fu un’esperienza travolgente. Con la scusa di una festa religiosa del municipio, venne organizzata, fuori programma, una processione che vedeva protagonisti fantomatici “amici e amiche di Cesaretto, il clown di Villa Lazzaroni”. Tutti in meravigliosi indumenti liturgici, travestiti da sacerdoti i ragazzi e da monache (omaggio al vecchio convento della villa) le ragazze. Il capobanda, supportato da tre volontari, portava una grossa croce su cui venne applicato il corpo di Cesaretto, tornato al peso forma, un lavoro certosino da grandi maestri dell’arte funeraria che ce lo restituiva nel suo mix originale del 1991-92. Notai nel gruppo due monache particolarmente prosperose, travolgenti, con seni ballonzolanti enormi assurdi e pensai subito a Rosaria. Chiesi info a un sub-sacerdote in coda che mi rispose “Rosaria chi!? Quella è Deborah, la barista di Via Alfredo Baccarini, quant’è bona mammamia, cosa gli farei, bocca mia taci….”. La processione durò una buona mezzora, tra gli applausi e le risate delle famiglie con prole accorse, folgorate dalla bellezza del pupazzo: “Ma quant’è bello sto fantoccio, do lo venderanno? Me lo voglio mettere a casa, farebbe compagnia a mia suocera che tanto non ce capisce più un cazzo”. Non riuscivo a crederci, al contempo però mi sembrava la giusta celebrazione. In fondo era il giardino di casa sua e lo stava ripercorrendo, in lungo e largo, per l’ultima volta. Fissandolo in volto lo salutai, con un veloce cenno del viso, niente di più, come da tradizione e mi defilai. Tornando verso casa mi fermai ai bordi della pista da pattinaggio. Non c’era nessuno. Cesaretto avrebbe amato quella pace. Mi appoggiai alle ringhiere, anche per dare un senso a quel che avevo appena visto. E iniziai a farmi domande, a cominciare da quella più ovvia: dove finirà sto pupazzo, cioè Cesaretto? Qualcuno se lo porterà a realmente a casa o verrà forse buttato in un cassonetto dell’immondizia? Boh. Per terra trovai un paio di auricolari spaccati, sembravano i suoi, invece no. Li raccolsi ugualmente, e li attaccai al mio walkman. Ne uscì un suono disarticolato, pura frequenza sovradimensionale cesarettiana. Sembrava parlarmi. Ci salutammo di nuovo. Beatattè, Cesarè, bella la vita eh?


Psicologo per errore, archeologo per vezzo, spokenwordista per vocazione a contratto indeterminato. Già direttore del mensile SOLO PER NOTTAMBULI, si interessa di tematiche e varchi ambient – anche correlati alla DIMENSIONE DROGA – a tempo pieno.